2025-09-18
La toga che ha scarcerato lo stupratore aveva liberato anche un marito violento
Prima di rimettere in circolazione il maliano di San Zenone, la giudice progressista «graziò» un altro straniero che abusava della moglie. Dopo 40 giorni fece retromarcia.Dopo avere scontato otto anni di carcere, è stato espulso, ma risulta irreperibile. E la moglie che lo ha denunciato potrebbe essere in pericolo. Anche se la donna, nel frattempo, dopo aver fatto condannare il coniuge per violenza sessuale, lesioni, maltrattamenti e stalking, ha cambiato residenza. L’uomo violento, Mahesh Pryantha Marakkala Manage, 56 anni, originario dello Sri Lanka, condivide un segno particolare con Harouna Sangare, il venticinquenne maliano che, a fine agosto, ha stuprato una diciottenne a San Zenone al Lambro, dopo l’annullamento di un provvedimento del questore che l’aveva ristretto in un Cpr. Entrambi gli stranieri sono stati rimessi in libertà su presupposti discutibili dal giudice milanese Elisabetta Meyer. Il caso di Marakkala avrebbe dovuto rappresentare un valido insegnamentoper la toga. Ma così non è stato. Infatti, dopo avere revocato l’arresto del cittadino asiatico, il giudice, come vedremo, era dovuta ritornare sui propri passi.La Meyer è un’esponente di punta delle toghe progressiste (fa parte di Area) ed è stata, in tempi recenti, presidente della sezione di Milano dell’Associazione nazionale magistrati. In passato ha condannato anche un banchiere «rosso» come Giovanni Consorte, ma è stata al centro di alcune polemiche per l’intransigenza con cui ha tenuto in cella l’agente dei vip Lele Mora (che lamentava problemi di salute) e ha condannato a 2 anni e 8 mesi (per falso ideologico) l’ex parlamentare del Pdl Renato Farina, colpevole di avere portato in visita a Mora un amico stretto di quest’ultimo. Una decisione che fece arrabbiare in modo trasversale sia un’associazione come Cultura cattolica sia l’ex segretario dei Radicali, Rita Bernardini, la quale parlò di «sentenza lunare».Ma la Meyer, inflessibile con cittadini italiani considerati vicini al centrodestra, non ha mostrato altrettanto pugno di ferro nei due casi sopra citati. Vediamo quanto è accaduto. Marakkala Manage, l’8 settembre 2016, finisce in manette su richiesta urgente della Procura di Milano, un’istanza prontamente accolta dalla Meyer, la quale firma l’ordinanza di custodia cautelare. Inizialmente l’uomo è accusato di maltrattamenti in famiglia e lesioni aggravate. Nelle carte è riassunto l’inferno vissuto per circa dieci anni dalla moglie, costretta a subire «reiterati atti di violenza fisica e psicologica». Infatti, per gli inquirenti, l’indagato, «sovente in stato di alterazione dovuto all’abuso di sostanze alcoliche», «la percuoteva violentemente cagionandole penose condizioni di vita». La donna, a verbale, fa anche riferimento alle violenze sessuali subite, ma esse non rientrano subito tra i capi d’accusa, forse per il pudore della vittima nel descriverle di fronte ad agenti uomini. Successivamente, quando a interrogare la signora saranno delle poliziotte, i dettagli diventeranno molto più crudi: morsi (con relativo sanguinamento) a labbra e parti intime durante rapporti sessuali non consenzienti, «fisting vaginale», tentativi di penetrazioni anali con un bastone. Ma il quadro era già molto chiaro nell’estate del 2016.Il 17 agosto di quell’anno la vittima, dopo l’ennesimo pestaggio, si presenta insieme al figlio maggiore in commissariato e racconta quanto subito. Ma fa anche sapere di non essere pronta a sporgere querela «perché intimorita dal marito». Il 26 agosto, però, la situazione degenera e il giorno dopo la vittima si presenta al Soccorso violenza sessuale e domestica della clinica Mangiagalli. Qui riferisce che «la sera prima il marito l'aveva colpita ripetutamente con l'asta di metallo di un’aspirapolvere» e che «l'uomo l'aveva minacciata di morte se avesse chiesto aiuto», ma che «il figlio aveva comunque richiesto l'intervento del 118» e, allora, il coniuge «aveva frettolosamente nascosto gli oggetti macchiati di sangue per non insospettire gli operatori sanitari». Quindi descrive «il clima di violenze fisiche e vessazioni» che subisce da anni e manifesta «molta paura del marito, perché l'uomo l'ha sempre minacciata di ucciderla». Segnala frasi come «ti aspetto fuori dal lavoro e ti uccido», «non piangere, perché se arriva qualcuno che sente, io dopo ti picchio», «se vai in ospedale sei morta». In clinica le vengono refertati «trauma minore cranio, ferita cranio, trauma minore avambraccio destro, trauma minore avambraccio sinistro, trauma minore coscia sinistra». Sentita a sommarie informazioni, il 29 agosto, la donna, assistita dall’avvocato Andrea Prudenzano, racconta che le violenze erano iniziate nel 2005, un anno dopo l’arrivo in Italia. Denuncia l’abuso di alcol da parte del consorte e mima le botte prese, con pugni, schiaffi e calci. È il racconto di un inferno. Mostra una cicatrice sulla mano e svela: «Mi ha colpito con un grosso coltello che avevamo in cucina» e in ospedale «ha detto che mi ero ferita tagliando la carne». Il viaggio nell’orrore domestico continua: «Mi ha rotto una bottiglia in testa e mi ha tagliata. Usciva tanto sangue. Mio figlio ha chiamato l'ambulanza e, quando sono arrivati, mio marito ha detto che ero scivolata in bagno». Ma l’episodio più spaventoso risale a tre mesi prima: «Ha portato a casa una bottiglia piena di benzina. Mi ha buttata sul letto e poi mi ha buttato addosso tutto il carburante, a me e sul letto e poi ha detto che mi dava fuoco. Per fortuna, però, era molto ubriaco e mi ha lasciata lì». Tra le accuse c’è anche questa: Marakkala Manage aveva afferrato pure un ferro da stiro surriscaldato e aveva cercato di appoggiarlo sul viso della moglie, ma non era riuscito a sfigurarla per la veemente reazione della compagna.Il racconto della vittima continua: «Tutte le volte che torna ubriaco mi obbliga a fare quelle cose, anche se io non voglio... sempre, tutti i giorni, anche mattina, pomeriggio e sera. Lui sempre vuole […]. Lui vuole anche fare sesso da dietro, ma io non voglio e sono sempre riuscita a non fare da dietro. Lui mi prende davanti o mi obbliga a fare con la bocca...». L’uomo aveva comprato anche un’ascia, un giubbotto antiproiettile e delle manette per legare la vittima al letto e bastonarla. A portare i soldi a casa era la donna con il suo lavoro, mentre il coniuge, che si era rotto un femore nel 2014, era un nullafacente ma pretendeva di gestire i soldi della moglie, soprattutto per comprare alcol. E, se la consorte si rifiutava di finanziarlo, ripartivano le violenze: «Il 26 agosto ha preso il bastone dell'aspirapolvere e ha cominciato a colpirmi. […] Allora il sangue ha cominciato a sporcarmi i vestiti e anche il letto». Di fronte a quella scena splatter, il compagno prova a tamponare la ferita con degli asciugamani, ma l’emorragia non si ferma. «Mio figlio ha chiamato l'ambulanza […] e mio marito ci ha detto che se dicevamo la verità lui andava a Napoli a prendere una pistola e ci ammazzava. Quelli dell'ambulanza sono venuti in camera mentre io mi vestivo e hanno visto tutti i vestiti sporchi di sangue e le lenzuola».Nell’ordinanza, la Meyer riconosce l’«attendibilità intrinseca» del racconto della vittima, confermato dal figlio, dalla documentazione sanitaria e oltre che «dall'esito della perquisizione domiciliare eseguita il 30 agosto scorso» e «in particolare dal rinvenimento di abbigliamento, lenzuola e asciugamani impregnati di sostanza ematica oltre che di un tubo in metallo, ammaccato, di aspirapolvere». Il giudice sottolinea anche «iI graduale e sofferto superamento del timore di ritorsioni» da parte della donna e «l'evidente disagio manifestato nel disvelare la propria condizione di vita». Insomma, le prove sembrano schiaccianti e, per questo, secondo il giudice, «va affermata la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza». Ma le convinzioni della Meyer paiono scricchiolare di fronte alla versione dell'aguzzino. «Mia moglie ha detto solo bugie», sostiene l’indagato e spiega che da una decina di giorni circa ha trovato un lavoro da camionista. Ammette le violenze, ma a modo suo: «Il 26 agosto io e mia moglie abbiamo avuto una discussione, eravamo entrambi ubriachi, non escludo quindi di averla colpita e il sangue trovato sui vestiti, sul lenzuolo e sugli asciugamani a casa mia deriva dalle piccole ferite che posso averle provocato». Poi conclude: «Finché non ho trovato lavoro, ammetto di avere abusato con l’alcol». Parole che hanno tutto l’aspetto di una confessione. Ma la Meyer il 12 settembre, su richiesta della difesa, decide di rimettere in libertà l’uomo, nonostante, come lei stessa annota, «il parere sfavorevole del pubblico ministero». Le motivazioni a molti appaiono sorprendenti: «L'indagato ha sostanzialmente ammesso i fatti contestati, minimizzandone solo la gravità e riconducendo la sua aggressività all'uso di sostanze alcooliche»; «Le riferite ragioni di malanimo da parte del coniuge e del figlio, seppure non idonee a scalfire la gravità degli indizi a carico dell'indagato, impongono un approfondimento istruttorio»; «Il reperimento di una attività lavorativa consente di ritenere affievolito il pericolo di ricadute nel reato». Qui la giudice ammette che «l'indagato non ha documentato l'attività asseritamente svolta», ma al momento dell’arresto «ha indicato quella di camionista quale professione attualmente svolta». E se lo dice l’arrestato… La toga si convince che il rischio di reiterazione del reato «può essere adeguatamente fronteggiato con la misura dell'allontanamento dalla casa famigliare, con divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa». Ma la retromarcia arriva in fretta: il 25 ottobre la Meyer è costretta a rispedire in carcere il cittadino srilankese. Infatti l’uomo, appena uscito dalla prigione, «manipola la sim card della persona offesa», scrive al figlio di voler «liberare» la moglie, chiede alla suocera e alla cognata di indicargli il luogo in cui la consorte ha trovato accoglienza. Su Facebook mette due annunci in cui offre un biglietto di andata e ritorno per lo Sri Lanka e «un buon regalo» «a chi sarà in grado di fornire notizie» sulla donna. In sostanza, mette una taglia sulla malcapitata. A cui, il 10 settembre, aveva scritto direttamente dal carcere: «Se vuoi farmi uscire da questo inferno, devi andare a parlare con il mio avvocato e ritirare la querela: devi dare una dichiarazione in tribunale in modo che possa uscire da qui dentro». Iniziative che per la Meyer sono «sintomatiche della volontà» dell’arrestato che aveva frettolosamente liberato «di intimidire la vittima». E ammette che le esigenze cautelari si sono «aggravate quanto al pericolo di ricadute nel reato e anche sotto il profilo dell'inquinamento probatorio». Nei mesi che seguono, patteggia una pena di 2 anni e 4 mesi per le prime accuse. La Procura, successivamente, contesta anche la violenza sessuale aggravata dall’unione matrimoniale e lo stalking perpetrato dal carcere con l’invio di diverse missive contenenti minacce di morte (nonostante abbia continuato a incassare sconti di pena per buona condotta). Nel 2019 subisce una condanna a 8 anni, con il riconoscimento del «vincolo della continuazione». In Appello, la pena viene ridotta a 7 anni e 2 mesi. Il 27 aprile 2024 finisce di espiare la pena e lascia il carcere. Il questore di Pavia gli invia un ordine di espulsione. Ma, ad oggi, l’uomo risulta irreperibile.
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