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2023-01-25
C’è anche la «Costituzione» di Cosa nostra
Arresti a Palermo il 24 gennaio 2023 (Ansa)
Durante un vero e proprio summit, di quelli da vecchie pellicole sulla mafia siciliana, con saluti del tipo «sangue mio» e la presenza di uomini d’onore, sgarristi e picciotti, si è appreso dell’esistenza dello statuto di Cosa nostra. Una scoperta, emersa da un’inchiesta che ieri ha portato all’arresto di sette persone (cinque in carcere e due ai domiciliari) con l’accusa di associazione di stampo mafioso, che per gli inquirenti palermitani ha «una portata deflagrante».
Ma che dimostra anche come, grazie alle regole scritte dai «padri fondatori» dell’onorata società, pur con le teste dei mammasantissima tagliate dalle operazioni antimafia, la piovra siciliana riesce a risorgere. Il covo scelto per l’incontro, che doveva restare segretissimo, è a Butera, 4.000 abitanti a due passi da Caltanissetta, in una casa di campagna. Il boss presente all’incontro è Pietro Badagliacca, che ormai da 20 anni viene indicato negli atti giudiziari delle Procure siciliane come reggente a Rocca Mezzo Monreale di Palermo. Un nome che i carabinieri del comando provinciale di Palermo con un po’ di esperienza ricollegano subito a Bernardo Provenzano. Durante l’incontro, zio Pietro Badagliacca si rivolge a suo nipote Gioacchino Badagliacca, che reclamava «il rispetto della parità di valore tra gli associati, introducendo», evidenziano gli investigatori, «il tema della democrazia interna a Cosa nostra», le cimici piazzate dagli investigatori captano queste parole: «Tanto per cominciare abbassa la voce», intima lo zio al nipote che si è presentato a lui vestito da sindacalista dei picciotti affermando «siamo la stessa cosa».
E lo zio comincia una filippica: «La devo alzare solo io la voce... c’è lo statuto scritto... che hanno scritto i padri costituenti». Il boss rivendica il ruolo di capofamiglia. E il rispetto della gerarchia. Come dalle indicazioni che si perdono nella notte dei tempi. Ma che, secondo gli inquirenti, sono «tutt’oggi ancora imprescindibili ed essenziali per la sopravvivenza della struttura criminale».
Al nipote recriminante, il boss ha subito imputato degli atteggiamenti da pivello, ricordandogli che, in pubblico, gli aveva dimostrato la sua stima come solo un uomo d’onore sa fare: «È vero che in piazza ti ho baciato pure la mano?», dice il boss davanti a tutti gli affiliati, «compresi quelli riservati», sottolineano gli investigatori. I fratelli Pasquale e Michele Saitta, presenti, compreso il valore simbolico del gesto, alla luce della ritualità e della rigida gerarchia dei ruoli, a quel punto rimproverano Gioacchino «per non aver accettato alcun tipo di proposta che potesse porre fine alla diatriba».
La discussione va avanti per un po’. E saltano fuori nomi e cariche: «Capo, sotto capo, capodecina». Compresi il ruolo di un farmacista (al momento non identificato). Ma alla fine i due fanno pace: «Abbracciami sono qua [...], sangue mio, sangue mio». Vecchi rancori superati. Ma c’è ancora una questione che sembra dividere i due parenti. «Io mi devo levare qualche scaglia, ma è una cosa mia personale», dice Gioacchino: «Io gli devo scippare la testa... ma sarà l’ultima cosa che faccio». C’è un architetto da togliere di mezzo. Davanti al Tribunale della mafia è accusato della mancata sanatoria di un immobile per il quale era stato notificato un ordine di demolizione a Gioacchino mentre suo padre era detenuto. Ma lo zio Pietro si dimostra prudente: «Qua non si possono fare questi discorsi... stai sbagliando Gioacchino, ci sono delle azioni che si fanno e che possono portare a delle conseguenze».
Gioacchino, però, sembra determinato: «Io lo devo ammazzare vero, non per scherzo». Lo zio alla fine lo rassicura: «Ti prometto una cosa davanti a mio figlio, anche se c’è il pro e il contro l’ammazzo io all’architetto. Prima di morire, te lo ammazzo». Parola d’onore.
In altre occasioni, invece, Gioacchino si era dimostrato più moderato e, facendo i conti con la storia della cosca, aveva criticato la strategia stragista di Totò Riina: «Niente cose infami, ma perché pure tutte queste bombe, tutti questi giudici. Ma che cosa sono?», afferma dopo aver condannato pure la scelta di uccidere i familiari di Tommaso Buscetta «prima ancora di farsi pentito». La cosca non digeriva la figura di Giovanni Brusca: Una «scoppettata (un colpo di lupara, ndr) nelle corna gli dovrebbero dare!». La nuova Cosa nostra la pensa così. Alla fine, Gioacchino Badagliacca svela quello che è, per lui, Cosa nostra: «Un uomo d’onore è una persona integra dentro. Un uomo ha due cose nella vita, Miche’: l’onore e la dignità. L’onore lo può perdere. Ma la dignità non la può levare nessuno. Sono pronto a morire per la mia dignità».
L’ultima spesa di Messina Denaro. Trovate buste e scontrini della Coop
Beffardo, se ne andava in giro con il carrello della spesa alla Coop, in un bene confiscato alla mafia, tirando dentro birre, carne tritata di prima scelta e detersivi. L’ultima spesa di Matteo Messina Denaro da superlatitante è stata immortalata dalle telecamere.
I video sono stati acquisiti dagli inquirenti, che stanno cercando di ricostruire i suoi ultimi spostamenti, anche per stabilire fino a che punto il boss abbia avuto capacità di movimento in un paese in cui in molti erano entrati in contatto con lui da ragazzo. Campobello di Mazara d’altra parte dista un tiro di schioppo da Castelvetrano, paese d’origine di Messina Denaro e sede del suo mandamento criminale. Uno dei titolari del supermercato ha anche ricordato di conoscerlo «da quando eravamo ragazzi, perché io sono di Castelvetrano, poi non l’ho mai più visto». A Campobello, secondo gli investigatori, Messina Denaro si era stabilito ormai da circa quattro anni. Facendosi beffa di tutte le operazioni antimafia che, fino a qualche mese fa, avevano colpito gli uomini della sua rete e che hanno fatto il giro attorno ai suoi nascondigli.
Lo scontrino della spesa, da 26 euro, era ancora nel portafogli del boss. Mentre nell’abitazione c’era il sacchetto di plastica con la sigla del market. A terra, nel soggiorno dell’appartamento di via Cb 31 (quello comprato per conto del boss da Andrea Bonafede, l’uomo che gli ha prestato l’identità e che gli ha permesso anche di possedere due automobili intestate alla madre disabile), c’era invece il flacone di detersivo per i pavimenti acquistato solo due giorni prima dell’arresto. Ma di scontrini nel portafogli del boss, e pure a casa, gli investigatori ne hanno trovati diversi, anche di bar e ristoranti (tra i quali uno per un pranzo da 700 euro).
A ogni negozio è corrisposta una visita dei carabinieri, nel tentativo di individuare altri fiancheggiatori. Oltre a Bonafede, arrestato l’altro giorno, e a Giovanni Luppino, il broker di olio d’oliva che gli faceva da autista (arrestato anche lui), la lista degli indagati si è velocemente allungata. Sarebbero stati iscritti anche i figli di quest’ultimo: Vincenzo e Antonio Luppino. I carabinieri del Ros hanno perquisito le loro abitazioni e a casa di Vincenzo è stata trovata una stanza nascosta che, però, è risultata vuota.
Inoltre, in un’area recintata di loro proprietà, gli investigatori dello Sco della polizia di Stato hanno trovato l’Alfa Romeo Giulietta che il boss usava per spostarsi. È stato perquisito, inoltre, l’avvocato radiato dall’albo Antonio Messina, 77 anni, massone, che abita proprio di fronte al fratello d’u Siccu, Salvatore Messina Denaro. E sono rimasti impigliati nella rete investigativa pure due medici: Alfonso Tumbarello, che aveva in cura i due Bonafede, quello vero e il boss, e l’oncologo dell’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani, Filippo Zerilli.
Le indagini, però, si starebbero allargando anche verso l’ospedale che ha curato il boss nel 2020, l’Abele Ajello di Mazara del Vallo, dove gli hanno asportato il tumore al colon. L’anno successivo, si vocifera a Mazara, quando uno dei medici scelti dal boss per le cure è andato in pensione, Messina Denaro ha lasciato la provincia di Trapani per approdare alla clinica La Maddalena di Palermo, dove ha subito un altro intervento chirurgico per alcune metastasi. Lì stava affrontando la chemioterapia quando l’hanno individuato e arrestato.
Ora, proprio dalla clinica palermitana, arriva un appello a pentirsi. Alessia Cannizzaro, responsabile dell’area legale della clinica, precisando che, a suo parere, «non c’è schema di terapia che possa condurre a guarigione», si rivolge al boss chiamandolo con il nome con cui tutti lì lo conoscevano: «Al signor Andrea Bonafede avrei da dire una sola cosa. Se, facendoti prestare una vita che non meriti, nel cammino della malattia, ti fossi specchiato in ognuno dei tuoi errori, adesso parla, fallo ora che sai che non manca molto al momento in cui quel bambino (il piccolo Giuseppe Di Matteo, ndr) e tutti gli altri te li ritroverai davanti».
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Riduci
Nell’inchiesta che ha portato all’arresto di sette persone con l’accusa di associazione mafiosa, gli inquirenti di Palermo hanno fatto una scoperta «deflagrante». L’esistenza di uno statuto scritto, custodito e tramandato, al quale boss e picciotti devono attenersi.L’appello all’ex superlatitante Messina Denaro della clinica dove era in cura: «Stai morendo, parla ora».Lo speciale contiene due articoli.Durante un vero e proprio summit, di quelli da vecchie pellicole sulla mafia siciliana, con saluti del tipo «sangue mio» e la presenza di uomini d’onore, sgarristi e picciotti, si è appreso dell’esistenza dello statuto di Cosa nostra. Una scoperta, emersa da un’inchiesta che ieri ha portato all’arresto di sette persone (cinque in carcere e due ai domiciliari) con l’accusa di associazione di stampo mafioso, che per gli inquirenti palermitani ha «una portata deflagrante».Ma che dimostra anche come, grazie alle regole scritte dai «padri fondatori» dell’onorata società, pur con le teste dei mammasantissima tagliate dalle operazioni antimafia, la piovra siciliana riesce a risorgere. Il covo scelto per l’incontro, che doveva restare segretissimo, è a Butera, 4.000 abitanti a due passi da Caltanissetta, in una casa di campagna. Il boss presente all’incontro è Pietro Badagliacca, che ormai da 20 anni viene indicato negli atti giudiziari delle Procure siciliane come reggente a Rocca Mezzo Monreale di Palermo. Un nome che i carabinieri del comando provinciale di Palermo con un po’ di esperienza ricollegano subito a Bernardo Provenzano. Durante l’incontro, zio Pietro Badagliacca si rivolge a suo nipote Gioacchino Badagliacca, che reclamava «il rispetto della parità di valore tra gli associati, introducendo», evidenziano gli investigatori, «il tema della democrazia interna a Cosa nostra», le cimici piazzate dagli investigatori captano queste parole: «Tanto per cominciare abbassa la voce», intima lo zio al nipote che si è presentato a lui vestito da sindacalista dei picciotti affermando «siamo la stessa cosa».E lo zio comincia una filippica: «La devo alzare solo io la voce... c’è lo statuto scritto... che hanno scritto i padri costituenti». Il boss rivendica il ruolo di capofamiglia. E il rispetto della gerarchia. Come dalle indicazioni che si perdono nella notte dei tempi. Ma che, secondo gli inquirenti, sono «tutt’oggi ancora imprescindibili ed essenziali per la sopravvivenza della struttura criminale».Al nipote recriminante, il boss ha subito imputato degli atteggiamenti da pivello, ricordandogli che, in pubblico, gli aveva dimostrato la sua stima come solo un uomo d’onore sa fare: «È vero che in piazza ti ho baciato pure la mano?», dice il boss davanti a tutti gli affiliati, «compresi quelli riservati», sottolineano gli investigatori. I fratelli Pasquale e Michele Saitta, presenti, compreso il valore simbolico del gesto, alla luce della ritualità e della rigida gerarchia dei ruoli, a quel punto rimproverano Gioacchino «per non aver accettato alcun tipo di proposta che potesse porre fine alla diatriba».La discussione va avanti per un po’. E saltano fuori nomi e cariche: «Capo, sotto capo, capodecina». Compresi il ruolo di un farmacista (al momento non identificato). Ma alla fine i due fanno pace: «Abbracciami sono qua [...], sangue mio, sangue mio». Vecchi rancori superati. Ma c’è ancora una questione che sembra dividere i due parenti. «Io mi devo levare qualche scaglia, ma è una cosa mia personale», dice Gioacchino: «Io gli devo scippare la testa... ma sarà l’ultima cosa che faccio». C’è un architetto da togliere di mezzo. Davanti al Tribunale della mafia è accusato della mancata sanatoria di un immobile per il quale era stato notificato un ordine di demolizione a Gioacchino mentre suo padre era detenuto. Ma lo zio Pietro si dimostra prudente: «Qua non si possono fare questi discorsi... stai sbagliando Gioacchino, ci sono delle azioni che si fanno e che possono portare a delle conseguenze».Gioacchino, però, sembra determinato: «Io lo devo ammazzare vero, non per scherzo». Lo zio alla fine lo rassicura: «Ti prometto una cosa davanti a mio figlio, anche se c’è il pro e il contro l’ammazzo io all’architetto. Prima di morire, te lo ammazzo». Parola d’onore.In altre occasioni, invece, Gioacchino si era dimostrato più moderato e, facendo i conti con la storia della cosca, aveva criticato la strategia stragista di Totò Riina: «Niente cose infami, ma perché pure tutte queste bombe, tutti questi giudici. Ma che cosa sono?», afferma dopo aver condannato pure la scelta di uccidere i familiari di Tommaso Buscetta «prima ancora di farsi pentito». La cosca non digeriva la figura di Giovanni Brusca: Una «scoppettata (un colpo di lupara, ndr) nelle corna gli dovrebbero dare!». La nuova Cosa nostra la pensa così. Alla fine, Gioacchino Badagliacca svela quello che è, per lui, Cosa nostra: «Un uomo d’onore è una persona integra dentro. Un uomo ha due cose nella vita, Miche’: l’onore e la dignità. L’onore lo può perdere. Ma la dignità non la può levare nessuno. 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I video sono stati acquisiti dagli inquirenti, che stanno cercando di ricostruire i suoi ultimi spostamenti, anche per stabilire fino a che punto il boss abbia avuto capacità di movimento in un paese in cui in molti erano entrati in contatto con lui da ragazzo. Campobello di Mazara d’altra parte dista un tiro di schioppo da Castelvetrano, paese d’origine di Messina Denaro e sede del suo mandamento criminale. Uno dei titolari del supermercato ha anche ricordato di conoscerlo «da quando eravamo ragazzi, perché io sono di Castelvetrano, poi non l’ho mai più visto». A Campobello, secondo gli investigatori, Messina Denaro si era stabilito ormai da circa quattro anni. Facendosi beffa di tutte le operazioni antimafia che, fino a qualche mese fa, avevano colpito gli uomini della sua rete e che hanno fatto il giro attorno ai suoi nascondigli. Lo scontrino della spesa, da 26 euro, era ancora nel portafogli del boss. Mentre nell’abitazione c’era il sacchetto di plastica con la sigla del market. A terra, nel soggiorno dell’appartamento di via Cb 31 (quello comprato per conto del boss da Andrea Bonafede, l’uomo che gli ha prestato l’identità e che gli ha permesso anche di possedere due automobili intestate alla madre disabile), c’era invece il flacone di detersivo per i pavimenti acquistato solo due giorni prima dell’arresto. Ma di scontrini nel portafogli del boss, e pure a casa, gli investigatori ne hanno trovati diversi, anche di bar e ristoranti (tra i quali uno per un pranzo da 700 euro). A ogni negozio è corrisposta una visita dei carabinieri, nel tentativo di individuare altri fiancheggiatori. Oltre a Bonafede, arrestato l’altro giorno, e a Giovanni Luppino, il broker di olio d’oliva che gli faceva da autista (arrestato anche lui), la lista degli indagati si è velocemente allungata. Sarebbero stati iscritti anche i figli di quest’ultimo: Vincenzo e Antonio Luppino. I carabinieri del Ros hanno perquisito le loro abitazioni e a casa di Vincenzo è stata trovata una stanza nascosta che, però, è risultata vuota. Inoltre, in un’area recintata di loro proprietà, gli investigatori dello Sco della polizia di Stato hanno trovato l’Alfa Romeo Giulietta che il boss usava per spostarsi. È stato perquisito, inoltre, l’avvocato radiato dall’albo Antonio Messina, 77 anni, massone, che abita proprio di fronte al fratello d’u Siccu, Salvatore Messina Denaro. E sono rimasti impigliati nella rete investigativa pure due medici: Alfonso Tumbarello, che aveva in cura i due Bonafede, quello vero e il boss, e l’oncologo dell’ospedale Sant’Antonio Abate di Trapani, Filippo Zerilli. Le indagini, però, si starebbero allargando anche verso l’ospedale che ha curato il boss nel 2020, l’Abele Ajello di Mazara del Vallo, dove gli hanno asportato il tumore al colon. L’anno successivo, si vocifera a Mazara, quando uno dei medici scelti dal boss per le cure è andato in pensione, Messina Denaro ha lasciato la provincia di Trapani per approdare alla clinica La Maddalena di Palermo, dove ha subito un altro intervento chirurgico per alcune metastasi. Lì stava affrontando la chemioterapia quando l’hanno individuato e arrestato. Ora, proprio dalla clinica palermitana, arriva un appello a pentirsi. Alessia Cannizzaro, responsabile dell’area legale della clinica, precisando che, a suo parere, «non c’è schema di terapia che possa condurre a guarigione», si rivolge al boss chiamandolo con il nome con cui tutti lì lo conoscevano: «Al signor Andrea Bonafede avrei da dire una sola cosa. Se, facendoti prestare una vita che non meriti, nel cammino della malattia, ti fossi specchiato in ognuno dei tuoi errori, adesso parla, fallo ora che sai che non manca molto al momento in cui quel bambino (il piccolo Giuseppe Di Matteo, ndr) e tutti gli altri te li ritroverai davanti».
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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