2021-06-30
L’uragano Beppe travolge pure Letta e spazza via il patto per le comunali
Il segretario dem, che aveva puntato sull’avvocato, resta con il cerino in mano. Sia per il voto, sia nella partita per il Colle. E ora deve scongiurare ripercussioni sul governo. «È il momento di unire», balbetta il NazarenoNel freddo lessico militare, si parla, al plurale, di «casualties» per indicare le vittime, con particolare riferimento non solo ai combattenti di una battaglia ma pure alle vittime civili, a coloro che risultano accidentalmente - ma mortalmente - colpiti da un evento, da un attacco, da un bombardamento, o da un’altra disgrazia imprevista. È questa la situazione in cui si trova ora il povero Enrico Letta, a cui non ne va bene una: dalla tassa di successione alla legge Zan, passando per lo ius soli e il voto ai diciottenni. Adesso gli arriva tra capo e collo anche la mazzata dell’eliminazione politica dell’uomo su cui aveva scommesso come interlocutore privilegiato in casa pentastellata. Appena ridiventato segretario del Partito democratico, come primo atto politico rilevante, il 24 marzo Letta si era precipitato a incontrare Giuseppe Conte: dell’evento rimane traccia lapidaria (nel senso della lapide) in una foto dei due, pallidi e mascherati, davanti a una carta geografica nella sede del centro studi Arel. All’epoca, parevano più che altro (ovviamente in tempi diversi) vittime di Matteo Renzi: ieri invece sono stati simultaneamente impallinati da Beppe Grillo. La realtà è che tutta la strategia del Pd, dalla nascita del Conte bis, quando si impedì agli italiani di andare a votare, fu centrata su un investimento politico spropositato su Conte. Si pensi all’attivismo scatenato di Goffredo Bettini, teorico della convergenza tra il Pd e Conte; si pensi ancora alla surreale intervista in cui Nicola Zingaretti definì Conte nientemeno che «un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste». E poi è arrivato il turno di Letta, con il già ricordato dialogo con Conte e il faticosissimo tentativo (tra l’altro abortito ovunque, tranne che a Napoli) di costruire un’alleanza elettorale tra Pd e 5 stelle già alle amministrative d’autunno. Come uno tsunami, il supervaffa di Grillo di ieri ha spazzato via tutta questa tessitura, e imporrà al Pd, se non un’autocritica sincera di cui i dem sono tradizionalmente incapaci, una seria riflessione politica almeno su due punti.Il primo ha a che fare con l’atteggiamento dei pentastellati verso il governo di Mario Draghi, dopo questa tempesta. In casa Pd, è già pronta la nuova narrazione, il «contrordine compagni» da veicolare e volantinare. Della serie: state tranquilli, era Conte quello che (magari condizionato da Marco Travaglio e dal Fatto Quotidiano) avrebbe destabilizzato Draghi, visto che l’uomo della pochette era prigioniero di un desiderio di rivalsa dopo il mancato varo del Conte ter. Mentre - proseguirà il nuovo spin del Nazareno - Beppe Grillo ha tutto l’interesse a tenere vivo il governo e la maggioranza. Per carità: ci saranno pure, qua e là, degli elementi esatti (o almeno verosimili) in questa ricostruzione. Ma resta il fatto che ci vuole un bel coraggio a descrivere questo Grillo come uno stabilizzatore, come un elemento rassicurante. Tutti comprendono invece che per mille fattori (inclusa la vicenda che riguarda suo figlio), la sua formazione sarà sottoposta a scossoni e incognite tanto pesanti quanto imprevedibili. In ogni caso, ieri sera Letta ha provato a gettare acqua sul fuoco: riferendosi alla rissa tra Grillo e Conte, ha parlato di un «travaglio complesso», a cui il Pd guarda «con grande rispetto e anche con un po’ di preoccupazione». Poi il consueto fervorino, centrato peraltro più sulle scadenze del palazzo che su quelle del Paese: «È il momento di unire, non di dividere», soprattutto in vista «dell’elezione del presidente della Repubblica». Un passaggio in cui «bisogna essere uniti, avere idee chiare ed essere determinati». Si sa: il Quirinale è un’autentica ossessione per il Pd. Quanto alla tenuta del governo, ha aggiunto Letta, «non vedo problemi» perché «con la situazione in cui siamo» tra vaccini, varianti e Pnrr «nessuno farà sì che queste difficoltà finiscano per ripercuotersi sul governo». Il secondo aspetto da chiarire, strettamente collegato al primo, riguarda la condizione psicopolitica dei parlamentari pentastellati, che sono tuttora numerosissimi (ben 162 deputati e 75 senatori). Al di là di un’ipotetica scissione determinata nelle prossime settimane da Conte (scenario ancora tutto da verificare: nessuno sa se Conte avrà la forza di realizzare un’operazione simile, ed eventualmente con quali prospettive), come si regolerà il corpaccione degli eletti che resteranno nei gruppi grillini? È possibile che un piccolo sgocciolamento in uscita prosegua. Ma non è immaginabile che, per iniziativa parlamentare, giungano chissà quali colpi di testa: la prospettiva di uscire dal Parlamento terrorizza gli eletti senza arte né parte, la cui principale attività, da adesso a fine legislatura, sarà quella di supplicare Grillo di concedere una deroga in vista di un possibile terzo mandato. La speranza di rivoluzione è tramontata. Resta quella, più prosaica, di conservare uno stipendio sicuro per il maggior tempo possibile.
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