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2019-10-12
L’università dei misteri rischia di fallire
Ansa
Non si chiama Donald Trump né Vladimir Putin il tormento che agita le austere stanze del Casale di San Pio V, a Roma. Là dove ha sede la Link Campus University, la filiale italiana dell'Università di Malta finita al centro di una trama di spionaggio internazionale per le mail rubate dagli hacker russi alla candidata democratica Hillary Clinton e offerte all'entourage del presidente Usa dal professor Joseph Mifsud, da tempo ormai scomparso dai radar. L'angoscia è dovuta al fatto che l'Agenzia delle entrate pretende 1.207.641,67 euro di tasse mai versate all'erario.
E poiché l'Università di Roma non ha onorato il maxi debito, la stessa Agenzia delle entrate ne ha chiesto il fallimento trascinandola davanti alla sezione specializzata del tribunale della capitale. A occuparsi del procedimento numero 2612/17 è il giudice delegato Daniela Cavaliere. Al quale, nei giorni scorsi, secondo quanto La Verità ha potuto verificare, il presidente dell'Ateneo romano Vincenzo Scotti, ex plenipotenziario democristiano, ha inoltrato istanza di concordato preventivo.
Un modo per attivare la sospensione dell'iter e presentare un piano di ristrutturazione dei debiti da sottoporre ai creditori al fine di evitare la procedura concorsuale e trovare un accordo che impedisca il default dell'ateneo. Facoltà riconosciuta dal 6° comma dell'articolo 161 della legge fallimentare che prevede che «l'imprenditore può depositare il ricorso contenente la domanda di concordato unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e all'elenco nominativo dei creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione […] entro un termine fissato dal giudice compreso fra sessanta e centoventi giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni».
Com'è stato possibile però arrivare a questo punto? L'ateneo, per ammissione del suo stesso presidente, versa in condizioni di gravissima crisi dovuta per lo più ai costi fissi di mantenimento della struttura e acuita dai ritardi nel pagamento delle rette da parte degli studenti. A ciò si aggiunga che la Link Campus ha ricevuto, dal 2005 in poi, atti impositivi per tasse e contributi non versati da parte di Inps e altri agenti della riscossione che ne hanno indebolito ulteriormente la tenuta finanziaria. Il tutto, spiega l'ateneo, per colpa di un equivoco o meglio di un errore che risale a circa tredici anni fa, quando la società consortile a responsabilità limitata che gestiva l'organizzazione dell'Università venne trasformata nell'attuale Fondazione Link Campus University. Un passaggio che non solo avvenne senza la contestuale iscrizione della Fondazione alla sezione specifica dedicata agli enti ma, cosa ancor più grave, in mancanza della cancellazione della vecchia società consortile a responsabilità limitata dal Registro delle imprese. Una disattenzione che, di fatto, secondo la versione dell'università, ha comportato l'accumulo di milioni di euro di debiti con le varie amministrazioni dello Stato ormai non più sostenibili. La storia della Link Campus inizia poco prima degli anni Duemila quando un decreto del ministero della Ricerca scientifica le riconosce lo status di «filiazione» in Italia dell'università della piccola isola del Mediterraneo. È il 27 novembre del 1999. Passano pochi mesi e il 16 giugno 2000 l'università di Malta e la Società per la gestione della Link Campus Università of Malta Spa costituiscono, davanti a un notaio della capitale, la Link Campus società consortile a responsabilità limitata con un capitale sociale di 10.000 euro, diviso per il 90 per cento all'università di Malta e per il restante 10 per cento alla Spa. Superata la fase di start up, nel 2006, la società consortile si trasforma in Fondazione con una dotazione finanziaria di 100.000 euro messa a disposizione dalla Link Campus Università of Malta Spa. Da allora, l'ateneo ha allargato la sua offerta formativa puntando su corsi di laurea legati al mondo della pubblica amministrazione e alle scienze della sicurezza.
Negli ultimi tempi, la Link ha offerto al M5s numerosi quadri dirigenti. L'ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, è stata ad esempio vicedirettrice del master in intelligence dell'ateneo. E proprio della Trenta è stata assistente al ministero, per la «gestione degli aspetti linguistici», la giovane docente Veronica Fortuzzi, indagata dalla Procura di Firenze nell'ambito di un filone su presunti esami facili al campus. Il fascicolo per falso raccoglie oltre una quarantina di posizioni tra studenti-poliziotti, professori, tutor e sindacalisti delle forze di polizia. L'ipotesi della pm Christine von Borries è che gli agenti, iscritti al corso di laurea triennale in Scienza della politica e dei rapporti internazionali, nel quadriennio 2016-2019 abbiano sostenuto esami senza la presenza dei professori e con la possibilità di copiare. Le indagini sono ancora in fase istruttoria, e quando saranno chiuse di sicuro il tribunale fallimentare avrà già deciso sulla richiesta di Scotti di evitare la bancarotta di una piccola università finita in un gioco mortale di spie e ricatti.
La sicurezza informatica di Palazzo Chigi è in mano a un tecnico russo
Sulle piattaforme di condivisione foto - come Flickr e Sprea - il suo nickname è gelogelo. Per di più è russo e viene dal freddo ma non è una spia, come nel romanzo. Semplicemente gelo è il suo nome di battesimo scritto al contrario, Oleg. O meglio, per essere più precisi, Oleg Nikolaevic Tsapko. Di professione ingegnere in servizio presso la presidenza del Consiglio dei ministri con un incarico di grande delicatezza e responsabilità: quello di specialista esperto di sistemi informatici.
In pratica, uno dei pochissimi autorizzato a mettere il naso (e le mani) nelle fibre ottiche lungo cui viaggiano tutti i documenti e i cablogrammi che riguardano le attività non solo di Palazzo Chigi ma dell'intero governo e di tutte le amministrazioni dello Stato. Una miniera d'oro che al posto delle più classiche pepite custodisce terabyte di informazioni ad alto voltaggio.
Nel Paese in cui in questi mesi si è scatenata una parossistica caccia al russo (vuoi per le imprese del Metropol di Mosca e l'inchiesta sulle presunte mazzette alla Lega, vuoi per le implicazioni italiane del Russiagate con un ministro Usa che incontra i direttori dei servizi di intelligence italiani mentre è alla ricerca di un professore universitario con l'allure da agente provocatore), c'è un distinto signore di 65 anni, nato nelle lande dell'ex Cortina di Ferro che, ogni mattina, di buon'ora, striscia il badge all'ingresso dell'edificio di via della Mercede 96 e si accomoda nel suo ufficio al primo piano, a Roma.
Tranquillo e riservato, a tal punto che pure il Grande fratello di Mountain View svela poco di lui. Eccezion fatta per le raccolte di foto naturalistiche fatte in giro per l'Italia che ritraggono, per lo più, ambienti marini e uccelli. Su Google scopriamo che Oleg Nikolaevic Tsapko è incardinato nei ranghi dell'Ufficio informatica e telematica del dipartimento Servizi strumentali di Palazzo Chigi e addetto al servizio di monitoraggio delle attività informatica e programmazione applicativi. È nato a Penza, città di 500.000 abitanti situata sul fiume Sura, a circa 700 chilometri dalla capitale russa, nel 1953, pochi mesi prima della dipartita del compagno Iosif Vissarionovič Dzugasvili altrimenti noto come Iosif Stalin.
Ha studiato all'Università tecnica di Mosca, dove si è laureato in ingegneria, ma si è specializzato in Italia con un master alla Sapienza. Oltre alla lingua madre, parla correntemente inglese e italiano. Su un profilo a suo nome sul portale Xing, una sorta di community per professionisti che incrocia domande e offerte di lavoro, c'è scritto che i suoi interessi sono la musica, la lettura, il cinema, i viaggi e la pesca. Passioni, queste ultime due, che emergono chiaramente dalle foto pubblicate nei raccoglitori presenti sul web.
A Xing Tsapko risulta iscritto dall'agosto 2007 con 945 accessi al profilo. Non pochi (circa sette al mese) tenuto conto che stiamo parlando di uno sconosciuto funzionario del mastodontico ingranaggio della burocrazia capitolina. Qualche informazione in più la ricaviamo invece dalla sezione Trasparenza del sito della presidenza del Consiglio dei ministri dove ci sono ancora alcuni dei bandi di gara in cui Oleg Nikolaevic ha ricoperto il ruolo di responsabile unico del procedimento (Rup). Quello del 2016 per il servizio di manutenzione di software applicativi con affidamento diretto per una somma pari a 3.400 euro. E quello di un anno dopo, che vede la partecipazione di undici società informatiche per la presentazione di un'offerta per l'acquisto di 50 licenze Acrobat Standard 2017 del valore di 15.000 euro.
Solo due snodi di una ben più complessa attività professionale che riguarda non solo le gare e gli appalti ma anche la gestione e la cura delle «infrastrutture» informatiche e telematiche del palazzo più protetto e monitorato della nostra Nazione. Per il suo lavoro, il 27 dicembre 2012, Oleg Nikolaevic Tsapko è stato nominato dall'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica italiana.
La proposta per il conferimento della prestigiosa onorificenza era arrivata direttamente dalla presidenza del Consiglio dei ministri, dov'era arrivato anni prima Romano Prodi regnante. La gratificazione non gli ha fatto perdere, però, il piacere della riservatezza tant'è che, ancora oggi, la sua immagine profilo sulle piattaforme di condivisione foto è la sua ombra proiettata sull'asfalto.
I legali di Occhionero: «La polizia ha forzato lo spazio Web degli Usa»
Lunedì mattina gli avvocati Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari busseranno alla porta dell'ambasciata statunitense di Roma per consegnare nuovi documenti relativi al caso EyePyramid, del quale La Verità sta parlando da alcuni giorni. I due penalisti romani sono i difensori dei fratelli Giulio e Francesca Occhionero, arrestati nel gennaio del 2017 dalla Procura di Roma con l'accusa di essere autori di un gigantesco spionaggio politico, economico ed istituzionale di rango internazionale.
Le carte in possesso dei due legali si annunciano dirompenti: la Procura di Roma e gli agenti del Cnaipic (Centro anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche) della Polizia postale avrebbero forzato lo spazio Web Usa per impossessarsi di alcuni domini di proprietà dei fratelli romani.
Non sarebbe neppure la prima volta - secondo quanto si legge negli atti allegati al caso - in quanto già nelle prime fasi dell'inchiesta EyePyramid episodi analoghi vennero denunciati alla magistratura, tant'è che a Perugia pende una richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di pm e funzionari di Polizia proprio per ipotesi di reato legate alla svolgimento dell'indagine-madre (vedi La Verità del 10 ottobre).
Si dirà: e allora, dov'è il problema se le forze dell'ordine devono accertare e procurarsi prove a sostegno della propria accusa? Il problema c'è ed è pure grosso perché la normativa internazionale (Regolamento Nato e Convenzione di Budapest in primis) non solo equipara lo spazio cibernetico a quello aereo, terrestre e marino – quindi entrare in una mail in territorio estero equivale ad intrufolarvisi senza credenziali - ma impone che per l'acquisizione di dati giacenti su piattaforme ospitate oltre confine si debba chiedere il permesso all'autorità competente dello stato dov'è situato lo spazio web. Si chiama rogatoria internazionale, atto senza il quale nessuno può procedere a fare alcunché, pena la commissione di reati.
È esattamente questo il termine del problema che oggi si para innanzi alla Procura di Perugia (dove è stato depositato l'ennesimo esposto da parte dei legali di Occhionero) oltre che ai capi del Doj (Dipartimento di giustizia Usa) dell'Fbi, dell'attaché americano presso l'ambasciata di via Veneto a Roma e, in forma confidenziale, ai «senior officers» del governo statunitense a Washington, tutti formalmente investiti della questione.
Ma dove e quando si sarebbero verificate queste nuove, presunte intrusioni illegali, questo «hackeraggio» da parte della polizia italiana? Precisamente il 29 maggio del 2018 - secondo l'esposto - quando il sovrintendente capo di Ps Andrea Caruso, in esecuzione di un ordine della procura romana (pm Eugenio Albamonte) annota in un verbale (del 30 maggio) tutte le operazioni compiute. In primo luogo è stata creata una casella email nuova chiamata cnaipic.pg@gmail.com con la quale – si legge testualmente - «verranno sostituite le email utilizzate per la registrazione e l'eventuale ripristino degli account utilizzati dall'indagato (Giulio Occhionero, ndr) per la creazione degli spazi cloud». Il punto è che manca all'appello la cosa principale: il permesso di operare su «suolo» Usa, la qual cosa pone seri problemi in ordine non solo alla posizione degli inquirenti romani del caso EyePyramid rispetto alle scelte del tribunale di Perugia ma pure alla regolarità stessa dell'indagine a carico degli Occhionero (nel frattempo condannati in I grado). Quando lunedì questi atti finiranno sulla scrivania dell'ambasciatore Usa saranno contestualmente trasmessi a quella del presidente Trump, da tempo deciso a venire a capo della vicenda Russiagate, dove appare sempre più vittima invece che carnefice, cioè quel che gli Occhionero, ed i loro legali, sostengono da circa due anni e mezzo: e di cui il governo italiano (Renzi-Gentiloni e, verosimilmente, ora anche Conte) membri del Copasir (come l'ex vicepresidente Giuseppe Esposito) sono a conoscenza da altrettanto tempo.
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Nel 2017 l'Agenzia delle entrate ha contestato all'ateneo dello spygate mancati pagamenti per un totale di 1.200.000 euro. Pochi giorni fa il presidente, l'ex dc Vincenzo Scotti, ha presentato una proposta di concordato. La sentenza è attesa a breve.In tempi di Russiagate, nessuno ha ancora notato che tutti i documenti dell'esecutivo passano da Oleg Tsapko, assunto sotto Romano Prodi e nominato cavaliere da Giorgio Napolitano.Lunedì verrà presentato un esposto: «Mai chieste le rogatorie a Washington».Lo speciale contiene tre articoli Non si chiama Donald Trump né Vladimir Putin il tormento che agita le austere stanze del Casale di San Pio V, a Roma. Là dove ha sede la Link Campus University, la filiale italiana dell'Università di Malta finita al centro di una trama di spionaggio internazionale per le mail rubate dagli hacker russi alla candidata democratica Hillary Clinton e offerte all'entourage del presidente Usa dal professor Joseph Mifsud, da tempo ormai scomparso dai radar. L'angoscia è dovuta al fatto che l'Agenzia delle entrate pretende 1.207.641,67 euro di tasse mai versate all'erario. E poiché l'Università di Roma non ha onorato il maxi debito, la stessa Agenzia delle entrate ne ha chiesto il fallimento trascinandola davanti alla sezione specializzata del tribunale della capitale. A occuparsi del procedimento numero 2612/17 è il giudice delegato Daniela Cavaliere. Al quale, nei giorni scorsi, secondo quanto La Verità ha potuto verificare, il presidente dell'Ateneo romano Vincenzo Scotti, ex plenipotenziario democristiano, ha inoltrato istanza di concordato preventivo. Un modo per attivare la sospensione dell'iter e presentare un piano di ristrutturazione dei debiti da sottoporre ai creditori al fine di evitare la procedura concorsuale e trovare un accordo che impedisca il default dell'ateneo. Facoltà riconosciuta dal 6° comma dell'articolo 161 della legge fallimentare che prevede che «l'imprenditore può depositare il ricorso contenente la domanda di concordato unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e all'elenco nominativo dei creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione […] entro un termine fissato dal giudice compreso fra sessanta e centoventi giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni». Com'è stato possibile però arrivare a questo punto? L'ateneo, per ammissione del suo stesso presidente, versa in condizioni di gravissima crisi dovuta per lo più ai costi fissi di mantenimento della struttura e acuita dai ritardi nel pagamento delle rette da parte degli studenti. A ciò si aggiunga che la Link Campus ha ricevuto, dal 2005 in poi, atti impositivi per tasse e contributi non versati da parte di Inps e altri agenti della riscossione che ne hanno indebolito ulteriormente la tenuta finanziaria. Il tutto, spiega l'ateneo, per colpa di un equivoco o meglio di un errore che risale a circa tredici anni fa, quando la società consortile a responsabilità limitata che gestiva l'organizzazione dell'Università venne trasformata nell'attuale Fondazione Link Campus University. Un passaggio che non solo avvenne senza la contestuale iscrizione della Fondazione alla sezione specifica dedicata agli enti ma, cosa ancor più grave, in mancanza della cancellazione della vecchia società consortile a responsabilità limitata dal Registro delle imprese. Una disattenzione che, di fatto, secondo la versione dell'università, ha comportato l'accumulo di milioni di euro di debiti con le varie amministrazioni dello Stato ormai non più sostenibili. La storia della Link Campus inizia poco prima degli anni Duemila quando un decreto del ministero della Ricerca scientifica le riconosce lo status di «filiazione» in Italia dell'università della piccola isola del Mediterraneo. È il 27 novembre del 1999. Passano pochi mesi e il 16 giugno 2000 l'università di Malta e la Società per la gestione della Link Campus Università of Malta Spa costituiscono, davanti a un notaio della capitale, la Link Campus società consortile a responsabilità limitata con un capitale sociale di 10.000 euro, diviso per il 90 per cento all'università di Malta e per il restante 10 per cento alla Spa. Superata la fase di start up, nel 2006, la società consortile si trasforma in Fondazione con una dotazione finanziaria di 100.000 euro messa a disposizione dalla Link Campus Università of Malta Spa. Da allora, l'ateneo ha allargato la sua offerta formativa puntando su corsi di laurea legati al mondo della pubblica amministrazione e alle scienze della sicurezza. Negli ultimi tempi, la Link ha offerto al M5s numerosi quadri dirigenti. L'ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, è stata ad esempio vicedirettrice del master in intelligence dell'ateneo. E proprio della Trenta è stata assistente al ministero, per la «gestione degli aspetti linguistici», la giovane docente Veronica Fortuzzi, indagata dalla Procura di Firenze nell'ambito di un filone su presunti esami facili al campus. Il fascicolo per falso raccoglie oltre una quarantina di posizioni tra studenti-poliziotti, professori, tutor e sindacalisti delle forze di polizia. L'ipotesi della pm Christine von Borries è che gli agenti, iscritti al corso di laurea triennale in Scienza della politica e dei rapporti internazionali, nel quadriennio 2016-2019 abbiano sostenuto esami senza la presenza dei professori e con la possibilità di copiare. Le indagini sono ancora in fase istruttoria, e quando saranno chiuse di sicuro il tribunale fallimentare avrà già deciso sulla richiesta di Scotti di evitare la bancarotta di una piccola università finita in un gioco mortale di spie e ricatti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/luniversita-link-campus-rischia-di-fallire-2640933209.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-sicurezza-informatica-di-palazzo-chigi-e-in-mano-a-un-tecnico-russo" data-post-id="2640933209" data-published-at="1764986306" data-use-pagination="False"> La sicurezza informatica di Palazzo Chigi è in mano a un tecnico russo Sulle piattaforme di condivisione foto - come Flickr e Sprea - il suo nickname è gelogelo. Per di più è russo e viene dal freddo ma non è una spia, come nel romanzo. Semplicemente gelo è il suo nome di battesimo scritto al contrario, Oleg. O meglio, per essere più precisi, Oleg Nikolaevic Tsapko. Di professione ingegnere in servizio presso la presidenza del Consiglio dei ministri con un incarico di grande delicatezza e responsabilità: quello di specialista esperto di sistemi informatici. In pratica, uno dei pochissimi autorizzato a mettere il naso (e le mani) nelle fibre ottiche lungo cui viaggiano tutti i documenti e i cablogrammi che riguardano le attività non solo di Palazzo Chigi ma dell'intero governo e di tutte le amministrazioni dello Stato. Una miniera d'oro che al posto delle più classiche pepite custodisce terabyte di informazioni ad alto voltaggio. Nel Paese in cui in questi mesi si è scatenata una parossistica caccia al russo (vuoi per le imprese del Metropol di Mosca e l'inchiesta sulle presunte mazzette alla Lega, vuoi per le implicazioni italiane del Russiagate con un ministro Usa che incontra i direttori dei servizi di intelligence italiani mentre è alla ricerca di un professore universitario con l'allure da agente provocatore), c'è un distinto signore di 65 anni, nato nelle lande dell'ex Cortina di Ferro che, ogni mattina, di buon'ora, striscia il badge all'ingresso dell'edificio di via della Mercede 96 e si accomoda nel suo ufficio al primo piano, a Roma. Tranquillo e riservato, a tal punto che pure il Grande fratello di Mountain View svela poco di lui. Eccezion fatta per le raccolte di foto naturalistiche fatte in giro per l'Italia che ritraggono, per lo più, ambienti marini e uccelli. Su Google scopriamo che Oleg Nikolaevic Tsapko è incardinato nei ranghi dell'Ufficio informatica e telematica del dipartimento Servizi strumentali di Palazzo Chigi e addetto al servizio di monitoraggio delle attività informatica e programmazione applicativi. È nato a Penza, città di 500.000 abitanti situata sul fiume Sura, a circa 700 chilometri dalla capitale russa, nel 1953, pochi mesi prima della dipartita del compagno Iosif Vissarionovič Dzugasvili altrimenti noto come Iosif Stalin. Ha studiato all'Università tecnica di Mosca, dove si è laureato in ingegneria, ma si è specializzato in Italia con un master alla Sapienza. Oltre alla lingua madre, parla correntemente inglese e italiano. Su un profilo a suo nome sul portale Xing, una sorta di community per professionisti che incrocia domande e offerte di lavoro, c'è scritto che i suoi interessi sono la musica, la lettura, il cinema, i viaggi e la pesca. Passioni, queste ultime due, che emergono chiaramente dalle foto pubblicate nei raccoglitori presenti sul web. A Xing Tsapko risulta iscritto dall'agosto 2007 con 945 accessi al profilo. Non pochi (circa sette al mese) tenuto conto che stiamo parlando di uno sconosciuto funzionario del mastodontico ingranaggio della burocrazia capitolina. Qualche informazione in più la ricaviamo invece dalla sezione Trasparenza del sito della presidenza del Consiglio dei ministri dove ci sono ancora alcuni dei bandi di gara in cui Oleg Nikolaevic ha ricoperto il ruolo di responsabile unico del procedimento (Rup). Quello del 2016 per il servizio di manutenzione di software applicativi con affidamento diretto per una somma pari a 3.400 euro. E quello di un anno dopo, che vede la partecipazione di undici società informatiche per la presentazione di un'offerta per l'acquisto di 50 licenze Acrobat Standard 2017 del valore di 15.000 euro. Solo due snodi di una ben più complessa attività professionale che riguarda non solo le gare e gli appalti ma anche la gestione e la cura delle «infrastrutture» informatiche e telematiche del palazzo più protetto e monitorato della nostra Nazione. Per il suo lavoro, il 27 dicembre 2012, Oleg Nikolaevic Tsapko è stato nominato dall'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica italiana. La proposta per il conferimento della prestigiosa onorificenza era arrivata direttamente dalla presidenza del Consiglio dei ministri, dov'era arrivato anni prima Romano Prodi regnante. La gratificazione non gli ha fatto perdere, però, il piacere della riservatezza tant'è che, ancora oggi, la sua immagine profilo sulle piattaforme di condivisione foto è la sua ombra proiettata sull'asfalto. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/luniversita-link-campus-rischia-di-fallire-2640933209.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="i-legali-di-occhionero-la-polizia-ha-forzato-lo-spazio-web-degli-usa" data-post-id="2640933209" data-published-at="1764986306" data-use-pagination="False"> I legali di Occhionero: «La polizia ha forzato lo spazio Web degli Usa» Lunedì mattina gli avvocati Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari busseranno alla porta dell'ambasciata statunitense di Roma per consegnare nuovi documenti relativi al caso EyePyramid, del quale La Verità sta parlando da alcuni giorni. I due penalisti romani sono i difensori dei fratelli Giulio e Francesca Occhionero, arrestati nel gennaio del 2017 dalla Procura di Roma con l'accusa di essere autori di un gigantesco spionaggio politico, economico ed istituzionale di rango internazionale. Le carte in possesso dei due legali si annunciano dirompenti: la Procura di Roma e gli agenti del Cnaipic (Centro anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche) della Polizia postale avrebbero forzato lo spazio Web Usa per impossessarsi di alcuni domini di proprietà dei fratelli romani. Non sarebbe neppure la prima volta - secondo quanto si legge negli atti allegati al caso - in quanto già nelle prime fasi dell'inchiesta EyePyramid episodi analoghi vennero denunciati alla magistratura, tant'è che a Perugia pende una richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di pm e funzionari di Polizia proprio per ipotesi di reato legate alla svolgimento dell'indagine-madre (vedi La Verità del 10 ottobre). Si dirà: e allora, dov'è il problema se le forze dell'ordine devono accertare e procurarsi prove a sostegno della propria accusa? Il problema c'è ed è pure grosso perché la normativa internazionale (Regolamento Nato e Convenzione di Budapest in primis) non solo equipara lo spazio cibernetico a quello aereo, terrestre e marino – quindi entrare in una mail in territorio estero equivale ad intrufolarvisi senza credenziali - ma impone che per l'acquisizione di dati giacenti su piattaforme ospitate oltre confine si debba chiedere il permesso all'autorità competente dello stato dov'è situato lo spazio web. Si chiama rogatoria internazionale, atto senza il quale nessuno può procedere a fare alcunché, pena la commissione di reati. È esattamente questo il termine del problema che oggi si para innanzi alla Procura di Perugia (dove è stato depositato l'ennesimo esposto da parte dei legali di Occhionero) oltre che ai capi del Doj (Dipartimento di giustizia Usa) dell'Fbi, dell'attaché americano presso l'ambasciata di via Veneto a Roma e, in forma confidenziale, ai «senior officers» del governo statunitense a Washington, tutti formalmente investiti della questione. Ma dove e quando si sarebbero verificate queste nuove, presunte intrusioni illegali, questo «hackeraggio» da parte della polizia italiana? Precisamente il 29 maggio del 2018 - secondo l'esposto - quando il sovrintendente capo di Ps Andrea Caruso, in esecuzione di un ordine della procura romana (pm Eugenio Albamonte) annota in un verbale (del 30 maggio) tutte le operazioni compiute. In primo luogo è stata creata una casella email nuova chiamata cnaipic.pg@gmail.com con la quale – si legge testualmente - «verranno sostituite le email utilizzate per la registrazione e l'eventuale ripristino degli account utilizzati dall'indagato (Giulio Occhionero, ndr) per la creazione degli spazi cloud». Il punto è che manca all'appello la cosa principale: il permesso di operare su «suolo» Usa, la qual cosa pone seri problemi in ordine non solo alla posizione degli inquirenti romani del caso EyePyramid rispetto alle scelte del tribunale di Perugia ma pure alla regolarità stessa dell'indagine a carico degli Occhionero (nel frattempo condannati in I grado). Quando lunedì questi atti finiranno sulla scrivania dell'ambasciatore Usa saranno contestualmente trasmessi a quella del presidente Trump, da tempo deciso a venire a capo della vicenda Russiagate, dove appare sempre più vittima invece che carnefice, cioè quel che gli Occhionero, ed i loro legali, sostengono da circa due anni e mezzo: e di cui il governo italiano (Renzi-Gentiloni e, verosimilmente, ora anche Conte) membri del Copasir (come l'ex vicepresidente Giuseppe Esposito) sono a conoscenza da altrettanto tempo.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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