2019-10-12
L’università dei misteri rischia di fallire
Nel 2017 l'Agenzia delle entrate ha contestato all'ateneo dello spygate mancati pagamenti per un totale di 1.200.000 euro. Pochi giorni fa il presidente, l'ex dc Vincenzo Scotti, ha presentato una proposta di concordato. La sentenza è attesa a breve.In tempi di Russiagate, nessuno ha ancora notato che tutti i documenti dell'esecutivo passano da Oleg Tsapko, assunto sotto Romano Prodi e nominato cavaliere da Giorgio Napolitano.Lunedì verrà presentato un esposto: «Mai chieste le rogatorie a Washington».Lo speciale contiene tre articoli Non si chiama Donald Trump né Vladimir Putin il tormento che agita le austere stanze del Casale di San Pio V, a Roma. Là dove ha sede la Link Campus University, la filiale italiana dell'Università di Malta finita al centro di una trama di spionaggio internazionale per le mail rubate dagli hacker russi alla candidata democratica Hillary Clinton e offerte all'entourage del presidente Usa dal professor Joseph Mifsud, da tempo ormai scomparso dai radar. L'angoscia è dovuta al fatto che l'Agenzia delle entrate pretende 1.207.641,67 euro di tasse mai versate all'erario. E poiché l'Università di Roma non ha onorato il maxi debito, la stessa Agenzia delle entrate ne ha chiesto il fallimento trascinandola davanti alla sezione specializzata del tribunale della capitale. A occuparsi del procedimento numero 2612/17 è il giudice delegato Daniela Cavaliere. Al quale, nei giorni scorsi, secondo quanto La Verità ha potuto verificare, il presidente dell'Ateneo romano Vincenzo Scotti, ex plenipotenziario democristiano, ha inoltrato istanza di concordato preventivo. Un modo per attivare la sospensione dell'iter e presentare un piano di ristrutturazione dei debiti da sottoporre ai creditori al fine di evitare la procedura concorsuale e trovare un accordo che impedisca il default dell'ateneo. Facoltà riconosciuta dal 6° comma dell'articolo 161 della legge fallimentare che prevede che «l'imprenditore può depositare il ricorso contenente la domanda di concordato unitamente ai bilanci relativi agli ultimi tre esercizi e all'elenco nominativo dei creditori con l'indicazione dei rispettivi crediti, riservandosi di presentare la proposta, il piano e la documentazione […] entro un termine fissato dal giudice compreso fra sessanta e centoventi giorni e prorogabile, in presenza di giustificati motivi, di non oltre sessanta giorni». Com'è stato possibile però arrivare a questo punto? L'ateneo, per ammissione del suo stesso presidente, versa in condizioni di gravissima crisi dovuta per lo più ai costi fissi di mantenimento della struttura e acuita dai ritardi nel pagamento delle rette da parte degli studenti. A ciò si aggiunga che la Link Campus ha ricevuto, dal 2005 in poi, atti impositivi per tasse e contributi non versati da parte di Inps e altri agenti della riscossione che ne hanno indebolito ulteriormente la tenuta finanziaria. Il tutto, spiega l'ateneo, per colpa di un equivoco o meglio di un errore che risale a circa tredici anni fa, quando la società consortile a responsabilità limitata che gestiva l'organizzazione dell'Università venne trasformata nell'attuale Fondazione Link Campus University. Un passaggio che non solo avvenne senza la contestuale iscrizione della Fondazione alla sezione specifica dedicata agli enti ma, cosa ancor più grave, in mancanza della cancellazione della vecchia società consortile a responsabilità limitata dal Registro delle imprese. Una disattenzione che, di fatto, secondo la versione dell'università, ha comportato l'accumulo di milioni di euro di debiti con le varie amministrazioni dello Stato ormai non più sostenibili. La storia della Link Campus inizia poco prima degli anni Duemila quando un decreto del ministero della Ricerca scientifica le riconosce lo status di «filiazione» in Italia dell'università della piccola isola del Mediterraneo. È il 27 novembre del 1999. Passano pochi mesi e il 16 giugno 2000 l'università di Malta e la Società per la gestione della Link Campus Università of Malta Spa costituiscono, davanti a un notaio della capitale, la Link Campus società consortile a responsabilità limitata con un capitale sociale di 10.000 euro, diviso per il 90 per cento all'università di Malta e per il restante 10 per cento alla Spa. Superata la fase di start up, nel 2006, la società consortile si trasforma in Fondazione con una dotazione finanziaria di 100.000 euro messa a disposizione dalla Link Campus Università of Malta Spa. Da allora, l'ateneo ha allargato la sua offerta formativa puntando su corsi di laurea legati al mondo della pubblica amministrazione e alle scienze della sicurezza. Negli ultimi tempi, la Link ha offerto al M5s numerosi quadri dirigenti. L'ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, è stata ad esempio vicedirettrice del master in intelligence dell'ateneo. E proprio della Trenta è stata assistente al ministero, per la «gestione degli aspetti linguistici», la giovane docente Veronica Fortuzzi, indagata dalla Procura di Firenze nell'ambito di un filone su presunti esami facili al campus. Il fascicolo per falso raccoglie oltre una quarantina di posizioni tra studenti-poliziotti, professori, tutor e sindacalisti delle forze di polizia. L'ipotesi della pm Christine von Borries è che gli agenti, iscritti al corso di laurea triennale in Scienza della politica e dei rapporti internazionali, nel quadriennio 2016-2019 abbiano sostenuto esami senza la presenza dei professori e con la possibilità di copiare. Le indagini sono ancora in fase istruttoria, e quando saranno chiuse di sicuro il tribunale fallimentare avrà già deciso sulla richiesta di Scotti di evitare la bancarotta di una piccola università finita in un gioco mortale di spie e ricatti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/luniversita-link-campus-rischia-di-fallire-2640933209.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-sicurezza-informatica-di-palazzo-chigi-e-in-mano-a-un-tecnico-russo" data-post-id="2640933209" data-published-at="1757900203" data-use-pagination="False"> La sicurezza informatica di Palazzo Chigi è in mano a un tecnico russo Sulle piattaforme di condivisione foto - come Flickr e Sprea - il suo nickname è gelogelo. Per di più è russo e viene dal freddo ma non è una spia, come nel romanzo. Semplicemente gelo è il suo nome di battesimo scritto al contrario, Oleg. O meglio, per essere più precisi, Oleg Nikolaevic Tsapko. Di professione ingegnere in servizio presso la presidenza del Consiglio dei ministri con un incarico di grande delicatezza e responsabilità: quello di specialista esperto di sistemi informatici. In pratica, uno dei pochissimi autorizzato a mettere il naso (e le mani) nelle fibre ottiche lungo cui viaggiano tutti i documenti e i cablogrammi che riguardano le attività non solo di Palazzo Chigi ma dell'intero governo e di tutte le amministrazioni dello Stato. Una miniera d'oro che al posto delle più classiche pepite custodisce terabyte di informazioni ad alto voltaggio. Nel Paese in cui in questi mesi si è scatenata una parossistica caccia al russo (vuoi per le imprese del Metropol di Mosca e l'inchiesta sulle presunte mazzette alla Lega, vuoi per le implicazioni italiane del Russiagate con un ministro Usa che incontra i direttori dei servizi di intelligence italiani mentre è alla ricerca di un professore universitario con l'allure da agente provocatore), c'è un distinto signore di 65 anni, nato nelle lande dell'ex Cortina di Ferro che, ogni mattina, di buon'ora, striscia il badge all'ingresso dell'edificio di via della Mercede 96 e si accomoda nel suo ufficio al primo piano, a Roma. Tranquillo e riservato, a tal punto che pure il Grande fratello di Mountain View svela poco di lui. Eccezion fatta per le raccolte di foto naturalistiche fatte in giro per l'Italia che ritraggono, per lo più, ambienti marini e uccelli. Su Google scopriamo che Oleg Nikolaevic Tsapko è incardinato nei ranghi dell'Ufficio informatica e telematica del dipartimento Servizi strumentali di Palazzo Chigi e addetto al servizio di monitoraggio delle attività informatica e programmazione applicativi. È nato a Penza, città di 500.000 abitanti situata sul fiume Sura, a circa 700 chilometri dalla capitale russa, nel 1953, pochi mesi prima della dipartita del compagno Iosif Vissarionovič Dzugasvili altrimenti noto come Iosif Stalin. Ha studiato all'Università tecnica di Mosca, dove si è laureato in ingegneria, ma si è specializzato in Italia con un master alla Sapienza. Oltre alla lingua madre, parla correntemente inglese e italiano. Su un profilo a suo nome sul portale Xing, una sorta di community per professionisti che incrocia domande e offerte di lavoro, c'è scritto che i suoi interessi sono la musica, la lettura, il cinema, i viaggi e la pesca. Passioni, queste ultime due, che emergono chiaramente dalle foto pubblicate nei raccoglitori presenti sul web. A Xing Tsapko risulta iscritto dall'agosto 2007 con 945 accessi al profilo. Non pochi (circa sette al mese) tenuto conto che stiamo parlando di uno sconosciuto funzionario del mastodontico ingranaggio della burocrazia capitolina. Qualche informazione in più la ricaviamo invece dalla sezione Trasparenza del sito della presidenza del Consiglio dei ministri dove ci sono ancora alcuni dei bandi di gara in cui Oleg Nikolaevic ha ricoperto il ruolo di responsabile unico del procedimento (Rup). Quello del 2016 per il servizio di manutenzione di software applicativi con affidamento diretto per una somma pari a 3.400 euro. E quello di un anno dopo, che vede la partecipazione di undici società informatiche per la presentazione di un'offerta per l'acquisto di 50 licenze Acrobat Standard 2017 del valore di 15.000 euro. Solo due snodi di una ben più complessa attività professionale che riguarda non solo le gare e gli appalti ma anche la gestione e la cura delle «infrastrutture» informatiche e telematiche del palazzo più protetto e monitorato della nostra Nazione. Per il suo lavoro, il 27 dicembre 2012, Oleg Nikolaevic Tsapko è stato nominato dall'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, cavaliere dell'Ordine al merito della Repubblica italiana. La proposta per il conferimento della prestigiosa onorificenza era arrivata direttamente dalla presidenza del Consiglio dei ministri, dov'era arrivato anni prima Romano Prodi regnante. La gratificazione non gli ha fatto perdere, però, il piacere della riservatezza tant'è che, ancora oggi, la sua immagine profilo sulle piattaforme di condivisione foto è la sua ombra proiettata sull'asfalto. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/luniversita-link-campus-rischia-di-fallire-2640933209.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="i-legali-di-occhionero-la-polizia-ha-forzato-lo-spazio-web-degli-usa" data-post-id="2640933209" data-published-at="1757900203" data-use-pagination="False"> I legali di Occhionero: «La polizia ha forzato lo spazio Web degli Usa» Lunedì mattina gli avvocati Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari busseranno alla porta dell'ambasciata statunitense di Roma per consegnare nuovi documenti relativi al caso EyePyramid, del quale La Verità sta parlando da alcuni giorni. I due penalisti romani sono i difensori dei fratelli Giulio e Francesca Occhionero, arrestati nel gennaio del 2017 dalla Procura di Roma con l'accusa di essere autori di un gigantesco spionaggio politico, economico ed istituzionale di rango internazionale. Le carte in possesso dei due legali si annunciano dirompenti: la Procura di Roma e gli agenti del Cnaipic (Centro anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche) della Polizia postale avrebbero forzato lo spazio Web Usa per impossessarsi di alcuni domini di proprietà dei fratelli romani. Non sarebbe neppure la prima volta - secondo quanto si legge negli atti allegati al caso - in quanto già nelle prime fasi dell'inchiesta EyePyramid episodi analoghi vennero denunciati alla magistratura, tant'è che a Perugia pende una richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di pm e funzionari di Polizia proprio per ipotesi di reato legate alla svolgimento dell'indagine-madre (vedi La Verità del 10 ottobre). Si dirà: e allora, dov'è il problema se le forze dell'ordine devono accertare e procurarsi prove a sostegno della propria accusa? Il problema c'è ed è pure grosso perché la normativa internazionale (Regolamento Nato e Convenzione di Budapest in primis) non solo equipara lo spazio cibernetico a quello aereo, terrestre e marino – quindi entrare in una mail in territorio estero equivale ad intrufolarvisi senza credenziali - ma impone che per l'acquisizione di dati giacenti su piattaforme ospitate oltre confine si debba chiedere il permesso all'autorità competente dello stato dov'è situato lo spazio web. Si chiama rogatoria internazionale, atto senza il quale nessuno può procedere a fare alcunché, pena la commissione di reati. È esattamente questo il termine del problema che oggi si para innanzi alla Procura di Perugia (dove è stato depositato l'ennesimo esposto da parte dei legali di Occhionero) oltre che ai capi del Doj (Dipartimento di giustizia Usa) dell'Fbi, dell'attaché americano presso l'ambasciata di via Veneto a Roma e, in forma confidenziale, ai «senior officers» del governo statunitense a Washington, tutti formalmente investiti della questione. Ma dove e quando si sarebbero verificate queste nuove, presunte intrusioni illegali, questo «hackeraggio» da parte della polizia italiana? Precisamente il 29 maggio del 2018 - secondo l'esposto - quando il sovrintendente capo di Ps Andrea Caruso, in esecuzione di un ordine della procura romana (pm Eugenio Albamonte) annota in un verbale (del 30 maggio) tutte le operazioni compiute. In primo luogo è stata creata una casella email nuova chiamata cnaipic.pg@gmail.com con la quale – si legge testualmente - «verranno sostituite le email utilizzate per la registrazione e l'eventuale ripristino degli account utilizzati dall'indagato (Giulio Occhionero, ndr) per la creazione degli spazi cloud». Il punto è che manca all'appello la cosa principale: il permesso di operare su «suolo» Usa, la qual cosa pone seri problemi in ordine non solo alla posizione degli inquirenti romani del caso EyePyramid rispetto alle scelte del tribunale di Perugia ma pure alla regolarità stessa dell'indagine a carico degli Occhionero (nel frattempo condannati in I grado). Quando lunedì questi atti finiranno sulla scrivania dell'ambasciatore Usa saranno contestualmente trasmessi a quella del presidente Trump, da tempo deciso a venire a capo della vicenda Russiagate, dove appare sempre più vittima invece che carnefice, cioè quel che gli Occhionero, ed i loro legali, sostengono da circa due anni e mezzo: e di cui il governo italiano (Renzi-Gentiloni e, verosimilmente, ora anche Conte) membri del Copasir (come l'ex vicepresidente Giuseppe Esposito) sono a conoscenza da altrettanto tempo.
Jose Mourinho (Getty Images)