2022-12-24
L’unità d’Italia fondata sul cappone a Natale
Vero piatto identitario da Nord a Sud, un tempo simbolo di opulenza e convivialità, si differenzia soltanto nel ripieno. Ma sono numerose le specialità culinarie regionali del periodo delle feste, dal tocco genovese agli strangozzi umbri al falsomagro in Sicilia.Se è vero che «Natale a tavola con i tuoi, Pasqua con chi vuoi» si conferma una saggia testimonianza di un cuoco di lungo corso, il trevigiano Armando Zanotto, già patron del Tre Panoce a Conegliano, ritiene che «i piatti del Natale regalano emozioni e memoria». Memoria condivisa di esperienze familiari, quelle che, un tempo, si tramandavano di generazione in generazione. Se è vero che, nel Bel Paese, ci sono eccellenze riconosciute in funzione del calendario goloso, pensiamo a tortellini in bordo, gran bollito e panettone di contorno, è anche vero che la gastrodiversità nazionale permette di scoprire piccole Cenerentole che sono eccellenze al gusto, a dimensione locale. In questo ideale menù un po’ fuori spartito partiamo dalle entrè, ovvero la scaccia o scacciata siciliana. Un’ideale sintesi di miseria e nobiltà. Un prodotto da forno di cui si hanno tracce sin dal XVII secolo quando, nelle campagne, si trattava di conciliare pane e quel qualcos’altro che avanzava nella dispensa, molte verdure e poca carne. Varie le versioni, come l’anagrafe gastronomica che le accompagna a seconda delle diverse terre di Trinacria. Per alcuni sono frutto di antiche usanze saracene, quando la carne tagliata sottile andava ad imbottire, con i prodotti dell’orto, il pane uscito dal forno. Per altri sono una derivazione delle impanadas andaluse, posto che ancora adesso a Siracusa le chiamano ’mpanata. Il cambio di passo nel 1763, quando il nobile Giovanni Luigi Moncada, principe di Paternò, offre queste focacce rinforzate ai suoi ospiti in occasione del pranzo di Natale. Un successo tale che diventarono buona tradizione delle feste. È ora di risalire il Tirreno e arrivare a Genova, città per tradizione molto oculata nel gestire le sue risorse, anche a tavola. Un classico esempio il tuccu zeneize, il tocco genovese. È un ragù di carne di vitello messa a sobbollire molto lentamente. Servito con salsa di pomodoro è ideale a guarnire tagliatelle o ravioli di cui è anche ripieno, il roviglio (nel giorno di Santo Stefano). Un piatto molto identitario, tanto che nei suoi ultimi anni di vita, trascorsi lontano dalla sua Zena, Niccolò Paganini lo esaltava, con tanto di ricetta, in una lettera indirizzata all’amico Giovanni Battista Ratto, avvocato e parlamentare del Regno. Manoscritto conservato nientemeno che presso la biblioteca del Congresso di Washington. Non bastasse il musicista classico, anche il moderno Fabrizio De Andrè lo celebra in «Creuza de ma» (viottolo di mare). Tuccu compagno di ricetta anche dei natalini, lunghe penne lisce che tradizione vuole non vadano spezzati prima di essere cotti in pentola con il brodo di cappone. Genova terra di commerci, non solo lungo le rotte mediterranee, ma anche di terra. Tanto che i suoi ravioli, una volta conosciuti, diventano poi tortelli nel parmense o agnolotti in terre sabaude. Sembra derivino il loro nome da un creativo cuoco di Gavi Ligure, che di nome faceva… Ravioli. Varchiamo l’Appennino e arriviamo nelle umbre Spoleto e Foligno. Qui, scendendo per una pausa dalla slitta trainata dalle sue renne, Babbo Natale potrebbe coccolarsi con gli strangozzi. Una pasta lunga a sezione rettangolare che ha trovato un rivale aneddotico negli strozzapreti. Leggenda racconta che di questo piatto alcuni don Camillo del passato ne erano talmente golosi da ingolfarsi il gargarozzo, ma erano corti e di forma attorcigliata. Con gli strangozzi la storia è diversa. Nell’idioma locale così si chiamavano i cordoncini di cuoio degli scarponi. Nell’Umbria sottoposta allo Stato Pontificio poteva capitare che qualche anarchico ribelle li usasse per assalire innocenti cappellani. Tuttavia i lunghi strangozzi non hanno nessuna colpa ad essere implicati in queste storie dove i peccati di gola (per una volta) non c’entrano nulla. Scendendo lungo la dorsale appenninica troviamo l’abruzzese rintrocilo, una pasta che deve il suo nome al mattarello particolare con delle scanalature con cui venivano stirati e poi tagliati. Semplice acqua, farina e sale, piatto della festa ma anche buon compagno dei pastori lungo i tratturi della transumanza, cotti con ragù, pecorino e un pizzico di peperoncino rosso. Torniamo in Trinacria. A Messina troviamo la pasta ’ncaciata. Di tutto un po’. Nella cucina delle nonne cotta nella teglia posta sotto la cenere del forno a legna. Come pasta le cataneselle, piccoli maccheroncini lunghi, lisci e sottili. Melanzane fritte, uova sode, salumi e formaggi a dadini. Talmente intrigante che così la ricorda Andrea Camilleri, testimonial il suo commissario Montalbano: «Un piatto degno dell’Olimpo». Non stacchiamo le papille dalle terre dell’Etna perché è tempo di gustarsi il falsomagro. Nomen omen. Si presenta come un semplice arrosto, ma è in realtà un contenitore di meraviglie diverse. Dentro all’involtino di manzo di può trovare un’intera lista della spesa: carne macinata, uova sode, caciocavallo, mortadella, lardo a fette sottili, pecorino grattugiato, pangrattato. Cotto su una teglia accolto da un’intrigante passata di pomodoro in compagnia di un trito di carote, sedano e cipolla. Sull’etimo si è sbizzarrita la fantasia degli storici di gola. Posto che è una preparazione legata allea presenza angioina nell’isola attorno al XIII secolo, potrebbe derivare dal francese «farce», sicilianizzato in «farzu», ovvero carne magra con farcia. Ma vi è anche chi, più identitario, sostiene che, per «falso», si intende qualcosa che appare, ma non è. Ne esistono anche altre due versioni. Il falsomagro in bianco, dove la cottura avviene nel latte e non nella salsa di pomodoro. Nel macinato vi è anche carne suina, non solo bovina e le uova sono lavorate a frittata. Non poteva mancare il falsomagro in crosta. Ovvero una sfoglia di pane al posto del taglio di vitello, stavolta cotta al forno. Se fino ad ora abbiamo veleggiato con piccole identità locali, con il cappone si riunisce tutto il Bel Paese, e le sue diverse chiavi di lettura. Un tempo era simbolo di opulenza e convivialità, omaggio ai notabili di una comunità. Un esempio Renzo Tramaglino che ne offre due all’avvocato Azzeccagarbugli. Nelle campagne i villani ne facevano omaggio al padrone dei terreni in occasione del rinnovo dei contratti agrari nel giorno di San Martino, il tredici novembre. A Milano valorizzato alla tavola delle feste per Sant’Ambrogio, Natale, Capodanno, Epifania. Non solo pietanza nobile ma, grazie alle sue carni tenere e saporite, era la dieta ideale per ristabilire i soggetti deboli, come testimoniano gli scritti di Ulisse Aldrovandi, medico bolognese del XVI secolo. In Italia vi è una consolidata tradizione del suo allevamento, su tutti il piemontese cappone di Morozzo. Qui vi erano apposite addette, le «capunere», che li capponavano, cioè castravano ancora giovanissimi, per poi nutrirli con cereali e sacrificarli al quarto mese. Quanto alla lista del menù non c’è che l’imbarazzo della scelta. Il più classico lo vede nutrimento del brodo per accompagnare gli emiliani tortellini come i passatelli marchigiani o gli anolini piacentini. Le sue carni lesse accompagnate poi da salse tricolori. Il bollito lo vede invece preparato nell’acqua bollente, così da trattenere tutti gli umori. Ideale sparring partner del gran bollito piemontese, una ritualità dai codici precisi. Ripieno c’è da sbizzarrirsi, per la sua accogliente ecletticità, di campanile in campanile. Con frutta secca e candita. Con grana e mostarda in Lombardia, castagne in Toscana, acciughe, limone e noce moscata in Calabria. C’è poi in galantina, un rollè farcito con uova sode e olive verdi, radicata tradizione marchigiana, cotto nel brodo, una volta raffreddato tagliato a fettine e servito con verdure di stagione lessate a dovere.
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