2022-08-04
L’ultima battaglia di Marco Cappato. Suicidio assistito per tutti i malati
Il tesoriere dell’associazione Coscioni si è autodenunciato per aver portato una donna in Svizzera a morire. Ora cerca di alzare un polverone giuridico-legale per affermare il «diritto» all’omicidio del consenziente.«Mi autodenuncerò». S’è autodenunciato. Per amor di malintesa giustizia. Ovvero, nella speranza di togliere l’odioso paletto piantato dalla Consulta sul suicidio assistito: «La tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale». Via quello, ogni malato potrebbe far ricorso all’eutanasia. L’ultima battaglia di Marco Cappato per la «dolce morte» è cominciata ieri mattina, nella caserma di via Fosse Ardeatine, a Milano. «Racconterò l’aiuto fornito a Elena senza cui non sarebbe stato possibile arrivare in Svizzera» racconta ai cronisti che l’attendono puntuali. «Spiegherò ai carabinieri che, se saremo nelle condizioni di farlo, aiuteremo anche le prossime persone che ce lo chiederanno. Sarà poi compito della giustizia stabilire se questo è un reato o se c’è discriminazione tra malati».Rischia 12 anni di carcere. Fossero 99, ancora meglio. Vuole alzare l’asticella del fine vita. Pure i malati oncologici devono poter accedere al suicidio assistito. Come Federico Carboni, meno di due mesi fa. Lui era, però, «dipendente da trattamenti di sostegno vitale». La pensionata veneta che l’ex radicale ha appena accompagnato in Svizzera, invece no. Aveva un tumore ai polmoni. Ma non era attaccata a una macchina. Eppure, tempo fa, aveva contattato l’associazione Luca Coscioni, di cui Cappato è tesoriere. E lui non si è sottratto. L’ha portata oltre il confine, per l’ultimo viaggio. La morte della sessantanovenne diventa così l’ennesimo inno alla disobbedienza civile: «Sul trattamento discriminatorio contro un certo tipo di malati rispetto ad altri, che faticherei a definire privilegiati, ma che almeno hanno questa tenue possibilità di ridurre le proprie sofferenze nella fase terminale della loro vita».Si autodenuncia. Sperando nella baraonda. Magari per riproporre anche il referendum sulla depenalizzazione dell’«omicidio del consenziente», che la Consulta ha già bocciato lo scorso febbraio, con stentoree motivazioni: «Non sarebbe preservata la difesa minima costituzionalmente necessaria dell’esistenza umana, con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili» scrivono i giudici. Tre anni fa, la Corte di cassazione s’era invece già espressa sul caso del dj Fabiano Antoniani, detto Fabo, deceduto in una clinica svizzera nel 2017. Anche quella volta, l’accompagnatore era Cappato. Al rientro, si fiondò petto in fuori nella stessa caserma dov’è corso ieri. Perfetta esemplificazione dell’ovvio: la battaglia continua. «Da lì», spiega il tesoriere dell’associazione Coscioni, «è iniziato un percorso giudiziario che ha portato alla legalizzazione dell’aiuto al suicidio in Italia, ma solo per un tipo di malati». La Consulta, nella sentenza del 2019, indica difatti i criteri: scelta consapevole e autonoma, essere affetti da una patologia irreversibile, patire sofferenze lancinanti. E poi, la dipendenza da un «sostegno vitale»: nutrizione e idratazione artificiale, oppure ventilazione. Insomma: quelle cure che tengono in vita il paziente.Chiunque invece, lamenta Cappato, dovrebbe poter scegliere liberamente di morire. «Se non lo hanno fatto le aule parlamentari, possano i tribunali riconoscere un diritto fondamentale. Sapendo com’è la legge italiana, in ogni caso sono pronto ad affrontare le conseguenze». Già: ognuno, dice l’ex radicale, «deve autodeterminarsi, anche nella morte». Come Elena, la pensionata veneta con un tumore. O Alessandra Giordano, l’insegnante siciliana che il 27 marzo 2019 ha scelto di morire nella clinica svizzera Dignitas, la stessa di dj Fabo. Una storia rivelata da Panorama e La Verità. Ma la donna non era una malata terminale. Soffriva di una nevralgia: la sindrome di Eagle. Era, soprattutto, depressa. Dopo la denuncia dei parenti, la procura di Catania decide però di aprire un’inchiesta per istigazione al suicidio. Viene indagato Emilio Coveri, presidente di Exit Italia, l’associazione italiana per il diritto all’eutanasia. L’uomo, lo scorso autunno, viene assolto.Alessandra esemplifica il nuovo steccato da abbattere. Come Elena. «Non dipendendo da dispositivi di trattamento di sostegno vitale e non assumendo farmaci, salvo antibiotici e antidolorifici secondo necessità, nel nostro Paese non avrebbe avuto alcuna speranza di vedere esaudita la sua ultima e più importante richiesta» argomenta Cappato. Morire, appunto. Per fuggire dai patimenti. A quel punto, però, quale diventa il confine tra mal di vivere e dolore insopportabile? Ci sono medicine alternative, la scienza progredisce, lo scoramento può prevalere. Non importa. Per Cappato, bisogna rimuovere quest’insopportabile «discriminazione». Tra chi gode del «privilegio dell’eutanasia» e chi invece deve tener duro. Inevitabile, a suo dire. La pensionata veneta era una malata oncologica. Non rientrava nei casi previsti dalla Consulta. Urge, dunque, un nuovo e dirompente atto di disobbedienza civile. A favor di telecamere, ovviamente. Nella speranza di rimuovere quell’odioso paletto. E ripresentare, magari, anche il referendum sulla depenalizzazione dell’«omicidio del consenziente».Ah, comunque, qualche giorno fa, nell’imminenza dell’ultima battaglia, Cappato ha lanciato pure la sua nuova lista: Democrazia e referendum. «Per difendere i diritti civili e politici dei cittadini» argomenta. Vorrebbe presentarsi alle elezioni, ma servono 60.000 firme. Almeno, ha riguadagnato la ribalta. Dopo mesi di penombra mediatica, arriva un po’ di provvidenziale visibilità.