2018-04-08
L’italiano che ha fatto arrestare Lula: «Assetato di denaro»
Diogo Mainardi, il grande accusatore dell'ex presidente brasiliano, vive a Venezia: «Con lui in galera il Paese è più maturo. Si tratta del compimento di anni di lavoro. Continuiamo a vigilare, le sorprese sono sempre possibili. Ma stravolgere la legge per salvare un criminale potrebbe causare un golpe».Il grande accusatore di Lula vive in una splendida casa sul Canal Grande. È un giornalista e scrittore italobrasiliano. Si chiama Diogo Mainardi e da 15 anni tallona Luiz Inácio Lula da Silva, convinto che sia «un caudillo corrotto». Le due sentenze di condanna per corruzione e riciclaggio gli hanno dato ragione. Quella in appello del 25 gennaio scorso a 12 anni e un mese di reclusione ha aggravato quella di primo grado. Il corpo del reato è un attico sul litorale di San Paolo del valore di circa un milione di euro, una tangente in cambio di appalti pubblici concessi alla società di costruzioni Oas. Dopo l'ordine di arresto diramato in applicazione del verdetto del Tribunale supremo federale che ha bocciato l'ultimo ricorso della difesa, il tramonto di Lula sembra definitivo. Tuttavia, un margine d'incertezza va conservato perché i colpi di scena abbondano. L'ex presidente che si proclama innocente vorrebbe ricandidarsi alle elezioni di ottobre. Nato nel 1962 a San Paolo, Mainardi è sposato con Anna e padre di Tito e Nico. Tito soffre di una paralisi cerebrale, causata da un grave errore medico al momento del parto. Assistito dall'avvocato e amico Romolo Bugaro (anche scrittore di successo, vedi La Verità del 10 dicembre 2017), ha ottenuto un risarcimento milionario, utilizzato in parte per le cure e in parte per l'acquisto della casa in cui vive, dalla quale si gode una vista che ricorda i dipinti del Canaletto. A pagina 53 di La caduta (Einaudi, traduzione di Tiziano Scarpa), il libro in cui ha raccontato la storia di Tito, Mainardi ha riprodotto una veduta di Giovanni Antonio Canal del 1738 su Ca' Dario e Palazzo Corner, corredata di una freccia con didascalia: «Io sono sempre alla stessa finestra, sto cullando Tito mentre guardo il Canal Grande».Come ha accolto il verdetto della Corte suprema contrario al ricorso di Lula?«Sono felicissimo, la democrazia brasiliana è diventata più matura. I potenti non possono più rubare impunemente».L'esecuzione dell'arresto è slittata: possono esserci ancora sorprese?«Bisogna vigilare, in passato non sono mancate. Ma non credo. Il giudizio della Corte rappresenta il punto d'arrivo di Lava Jato, la Mani pulite brasiliana. Per noi è il compimento di molti anni di lavoro».All'inizio Lula sembrava protagonista della primavera brasiliana.«Così lo dipingevano, ma io l'ho attaccato dal primo giorno».Ha cercato di farlo cadere «per sport. C'è chi pesca. C'è chi caccia. Io no. Io cerco di far cadere Lula», parole sue: che cosa non la convinceva?«Quella sullo sport è una battuta. Fin dall'inizio i pochi oppositori temevano che Lula portasse il Paese nel peggior bolivarismo. Io lo vedevo come un furfante che cerca di mantenersi al potere».Non ha fatto nulla di buono?«Ha goduto di un momento favorevole dell'economia mondiale e il Brasile è cresciuto per quattro cinque anni. Poi si è scoperto un buco finanziario enorme. La distribuzione di denaro, le elemosine ai poveri, i finanziamenti pubblici alle aziende in cambio di tangenti hanno presentato il conto. Raffinerie costate miliardi non sono state costruite».Com'è proseguita la sua campagna?«Il fatto che le prime denunce abbiano subito trovato conferma mi ha dato forza. Oltre cento imprenditori hanno patteggiato. Gli interventi sul magazine Veja hanno sempre avuto una certa risonanza. Poi c'era Manhattan connection, il programma che va in onda su Globo news. Infine è arrivato il sito: con Mario Sabino, amico del liceo e numero due di Veja, abbiamo fondato O' Antagonista. Il primo post dell'1 gennaio 2015, giorno d'inizio del secondo mandato di Dilma Rousseff, ne chiedeva l'impeachment. Sembrava un'ipotesi lontana, ma c'erano le indagini di giudici molto seri. Alcuni procedimenti contro Lula attingono alle inchieste dei nostri reporter».Il Paese però è diviso, come la Corte suprema che si è pronunciata con 6 voti favorevoli a 5. Lula ha sostenitori anche tra i magistrati.«Perché sono stati beneficiati da lui e da Dilma Rousseff. Dal 2009 in Brasile la sentenza viene eseguita dopo il secondo grado di giudizio. Il terzo e quarto grado verificano eventuali vizi di forma e, considerati i tempi, sono spesso un tentativo per arrivare alla prescrizione».È possibile che prima delle presidenziali Lula trovi altri modi per rimettere in discussione la condanna?«Sarebbe preoccupante stravolgere la legge per salvare un criminale politico. Potrebbe persino finire con un golpe militare: alcuni ambienti dell'esercito fanno sapere che non accettano di essere governati da un condannato».Come si conduce una campagna così delicata sul Web?«I miei venti giornalisti sono tutti in Brasile. Le fonti si sentono più libere con le app che con i contatti personali perché i messaggi vengono eliminati e sono più difficili da intercettare. Nel mese di febbraio O' Antagonista ha avuto 5,2 milioni lettori unici e 104 milioni di pagine lette. La media è di 400.000 lettori giornalieri, ma in questi giorni arriva anche a 600.000. Abbiamo dato molte notizie per primi, rubando lettori ai giornali». Perché l'accusatore del «padre della sinistra brasiliana» vive a Venezia?«Quando ci sono arrivato ero giovane e non avevo ancora scritto niente, ma sapevo che volevo vivere qui. È stata una scelta dettata da fattori casuali, affettivi e ovvi: basta affacciarsi. Gran parte della mia vita è veneziana, non sono un prodotto importato».Ma è più noto in Brasile che in Italia.«Sono conosciuto per i miei articoli su Veja. E per Manhattan connection».Come funziona?«Mi riprendo con la telecamera nello studio e invio i materiali alla redazione che li monta e li trasmette il giorno dopo insieme a quelli dei tre colleghi che stanno a New York».Prima era scrittore e commentatore sulla carta stampata.«Quando ho avuto necessità di guadagnare di più, all'attività poco redditizia di romanziere e di commentatore sul giornale, ho aggiunto il lavoro in televisione. Però, anziché New York, ho scelto Rio de Janeiro perché lì c'erano le condizioni giuste per curare mio figlio».Non poteva essere curato in Italia?«Il sistema sanitario italiano è pedante e burocratizzato. Tito aveva bisogno di una fisioterapia massiccia, ore di logopedia e di esercizi per le mani, in un ambiente partecipe. Vivevo qui vicino, ma quando mi hanno offerto il lavoro, abbiamo chiuso baracca e siamo andati in Brasile senza sapere se e quando saremmo tornati».Scrive che è bravo ad andarsene dal Brasile: niente saudade?«Il Brasile mi spinge lontano da quando avevo 15 anni. Ho bazzicato tre continenti, poi il progetto si è realizzato a Venezia. Sarà sangue da immigrato, la mia famiglia ha vagato dall'Italia al Portogallo a Israele fino a San Paolo».Il suo rifiuto è iniziato ben prima dell'avvento di Lula.«Viene da più lontano. Uno dei miei primi libri s'intitola Contro il Brasile. Ho sempre avvertito la necessità di cambiare, di cercare strade nuove. È un sentimento più esistenziale che esteriore».Dopo alcuni anni a Rio de Janeiro è tornato a Venezia anche se in Brasile era molto popolare. «A Rio siamo stati bene, abbiamo fatto le cure per Tito ed è nato Nico. Rio è cosmopolita, ma io preferisco il campanile, l'isolotto. Non sono vanitoso e anche se la popolarità fa piacere non mi manca essere riconosciuto per strada. L'attività professionale militante inaridisce, volevo staccarmi dalla politica e fare qualcosa di diverso. Allora ho scritto La caduta».Che inizia così: «Tito soffre di paralisi cerebrale. Imputo la paralisi cerebrale di Tito a Pietro Lombardo». A sua moglie che davanti all'ospedale confessò di aver paura lei rispose che, con una facciata come quella della Scuola Grande di San Marco realizzata da Pietro Lombardo, «accetto persino un figlio deforme». Sembra una sfida al destino?«Era una provocazione, non sono superstizioso. Il testimone principe è qui e mi rimprovera ancora oggi. Ma credo nella prevalenza della bellezza, dell'ingegno, della creatività. La facciata di Lombardo è essa stessa una sfida ai concetti estetici della sua epoca. Ho ceduto a questo impulso estetizzante. Altre volte avevo sperimentato la mia ironia senza conseguenze; pensavo che le mie parole in quel momento erano innocue e continuo a crederlo».Non è pentito di quella provocazione sebbene abbiate avuto in eredità una dura prova?«Né per me né per mia moglie la paralisi di Tito è stata un calvario. Visto da fuori lo può sembrare, ma da dentro è qualcosa di molto meno minaccioso, si impara a gestire la quotidianità. Grazie anche a Tito, che è un ragazzo allegro e spensierato, viviamo un'esperienza che ci migliora e, a volte, persino ci diverte. Ho scritto il libro solo per raccontare questo. Certo, Tito mi ha insegnato a essere più prudente nel fidarmi delle mie certezze intellettuali, estetiche, di opinione».È cittadino italiano, ha votato?«Ho la doppia cittadinanza e votato per il pareggio. Volevo che nessuno vincesse e restasse Paolo Gentiloni. Un governante non ingombrante, migliore di Renzi, di Berlusconi, Salvini e Grillo. Se la politica incide meno, rovina meno».Ma la povertà aumenta.«Non ne sono sicuro. Quando abbiamo avuto governi forti si è creato un debito enorme, che erediteranno le nuove generazioni. Non credo che la scorciatoia dello sviluppo passi da governi invadenti. Preferisco avere un governante anonimo, che non si mischi con la mia vita». Ma che sarebbe ostaggio delle tecnocrazie e dei poteri forti.«Se la politica è debole può diventare più forte la società. Una società forte non ha bisogno di governanti invadenti».Che cosa pensa dei populismi?«Non li amo. Sono spesso capeggiati da potenziali caudilli».
Emmanuel Macron (Getty Images). Nel riquadro Virginie Joron
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L'evento organizzato dal quotidiano La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Sul palco con il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin, il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, il direttore Ingegneria e realizzazione di Progetto Terna Maria Rosaria Guarniere, l'Head of Esg Stakeholders & Just Transition Enel Maria Cristina Papetti, il Group Head of Soutainability Business Integration Generali Leonardo Meoli, il Project Engineering Director Barilla Nicola Perizzolo, il Group Quality & Soutainability Director BF Spa Marzia Ravanelli, il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il presidente di Generalfinance, Boconi University Professor of Corporate Finance Maurizio Dallocchio.
Kim Jong-un (Getty Images)