2022-06-04
L’Ue studia la stangata ai servizi finanziari
Entro il 2023 la Commissione europea concluderà la revisione del regime delle esenzioni Iva al settore degli investimenti e assicurativi. L’imposizione andrebbe ulteriormente a penalizzare un comparto che già soffre della concorrenza straniera.Il risparmio gestito è sempre più (tar)tassato. Per i big italiani del settore competere ad armi pari con la sempre più agguerrita presenza dei gruppi stranieri che vogliono mettere le mani sulla ricca torta di masse da amministrare sta diventando complicato, sia perché - come abbiamo scritto ieri - difficile farsi ascoltare in Europa sia perché nel proprio Paese le società devono fare i conti con normative contraddittorie e appunto con un sistema di tassazione che spesso opera in maniera retroattiva alimentando l’incertezza. Insomma, è come correre una maratona con una zavorra di chili in più rispetto agli avversari. E la situazione potrebbe peggiorare ulteriormente.Oggi, infatti, la maggior parte dei servizi finanziari e assicurativi è esente dall’imposta (per ragioni per lo più legate alla difficoltà tecnica di calcolare la base imponibile) ma all’inizio del 2021 la Commissione europea ha avviato una consultazione pubblica sulla revisione del regime delle esenzioni Iva applicabili ai servizi finanziari e assicurativi. Questa consultazione fa parte di un processo che dovrebbe concludersi, entro il 2023, con una proposta di modifica, da parte appunto della Commissione, della vigente direttiva 2006/112/Ce. Spetterà poi al Consiglio dell’Ue, al Parlamento europeo e agli Stati membri, seguendo l’ordinario iter legislativo, decidere sul futuro dell’Iva nel settore dei servizi finanziari e assicurativi. Si sta dunque discutendo una revisione della Direttiva europea sull’Iva proponendo in alternativa di rimuovere l’esenzione per tassare i servizi finanziari e assicurativi, o mantenerla, ma modificando la sua portata attraverso una tassazione limitata ad alcuni tipi di servizi. Il settore è preoccupato per gli effetti negativi della tassazione del risparmio e ha raccomandato una serie di alternative per ridurre il peso dell’imposta sui servizi finanziari e assicurativi. Nel frattempo, il comparto fa già i conti con un problema di disincentivi ai manager italiani che spesso preferiscono andare a lavorare per le grandi firme straniere. Essere un unicum in questo campo non funziona perché si tratta di un’industria che vive di eccellenza ma anche di standardizzazione. In Italia, invece, ci sono tasse «uniche» che non vengono applicate in altri Paesi europei, nonché incomprensibili per chi viene da fuori, come quella applicata alle remunerazioni di dirigenti e quadri collegata alla capacità di portare a casa le performance, ovvero di fare business. Il Dl 78/2010 (convertito nella legge 122/2010) ha previsto un’addizionale del 10% agli emolumenti variabili corrisposti a dirigenti e collaboratori del settore finanziario sotto forma di bonus e stock options per la parte degli stessi che eccede il triplo della parte fissa della retribuzione. In base a questa legge, quindi, l’eventuale importo da assoggettare al prelievo aggiuntivo andrà individuato «a prescindere da eventuali rateazioni del premio di erogazione dello stesso dovendo ritenersi applicabile l’addizionale nell’ipotesi in cui, sommando i premi che maturano nel periodo d’imposta, risulti superato il triplo della retribuzione fissa prevista per il medesimo periodo, fermo restando che l’applicazione del prelievo sarà effettuata al momento della erogazione del premio».Con una circolare (la numero 41) emessa il 5 agosto 2011, però, l’Agenzia delle entrate ha però aumentato la stretta e previsto che l’aliquota addizionale del 10% venga applicata sull’ammontare che eccede l’importo corrispondente alla parte fissa della retribuzione. Tradotto, con un esempio: se un dirigente prende 100 euro di fisso e ha un bonus variabile legato alla sua performance o incassa delle stock option per 105 euro scatta lo stesso; prima scattava solo se il variabile arrivava a 320.Resta il tema di fondo: la ricchezza finanziaria degli italiani è uno dei punti di forza del Paese, ma potrebbe e dovrebbe essere sfruttata meglio scommettendo su una grande industria nazionale del risparmio gestito. Secondo il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, occorrono operatori più grandi: è preoccupante che nelle nostre public company gli investitori rilevanti siano regolarmente fondi esteri. E occorre anche creare le condizioni perché le imprese italiane crescano e possano emettere titoli appetibili per fondi comuni e fondi pensione: i dati pubblicati nella relazione dicono che sia le azioni che le obbligazioni di imprese italiane detenute dai fondi sono una frazione minuscola rispetto a quelle estere. Per evitare lo spreco di una grande risorsa, però, ognuno deve fare la sua parte: le società dell’asset management devono puntare sulla trasparenza e non adagiarsi nella semplice ricerca di commissioni. Ma le istituzioni devono approfondire come si opera in questo settore e fare in modo che il quadro normativo e fiscale non diventino una zavorra. Altrimenti lo Stato rimarrà concentrato a tutelare più il proprio debito che il risparmio dei cittadini.