
Sentenza favorevole alla clausola del Ceta che prevede il ricorso ad arbitrati sovrastatali per le cause tra Paesi e imprese globali.Uno Stato può perdere la propria autonomia in tanti modi. Noi italiani ne abbiamo sperimentati di sopraffini grazie ai famosi «trattati». Nella top three: Maastricht 1992, Lisbona 2007, Fiscal compact 2012. Essi prevedono cessioni di sovranità a entità sovrastatuali in ambito soprattutto legislativo e monetario. Un nuovo passaggio è in atto a livello giudiziario, e a beneficio dei grandi capitali privati transnazionali. Questa sembra infatti la direzione intrapresa dalla Corte di giustizia dell'Ue con un parere reso il 30 aprile, Opinion 1/17 of the Full court, con il quale i giudici del Lussemburgo hanno solennemente dichiarato: «La sezione F del capitolo ottavo dell'accordo globale economico e commerciale tra il Canada, da una parte, e l'Unione europea e i suoi Stati membri, dall'altra, firmata a Bruxelles il 30 ottobre 2016, è compatibile con il diritto primario dell'Ue». Per capire il peso di questa pronuncia dobbiamo fare un passo indietro. Anche in questo caso, il problema lo ha creato un trattato: il Ceta, il patto transatlantico di partenariato commerciale tra Ue e Canada entrato provvisoriamente in vigore il 21 aprile 2017.Parliamo di una sorta di «clone» del famoso Ttip, ossia il trattato transatlantico tra Unione europea e Stati Uniti. Uno di quegli accordi negoziati sempre nel più assoluto riserbo, accusati di essere incuranti della tutela dei nostri prodotti nazionali e ispirati all'ideologia liberoscambista. Il Ceta, però, ha trovato sulla sua strada i belgi, i quali si sono impuntati, costringendo il loro governo a interpellare la Corte di giustizia. Nel settembre 2017, infatti, proprio lo Stato la cui capitale è Bruxelles - ironia della sorte, il cuore pulsante dell'Ue - sollevò dubbi, in particolare sulla compatibilità con il diritto dell'Unione di una clausola del Ceta, detta Ics (Investment court sistem). La clausola in questione è abbastanza simile alla Isds (Investor State dispute settlement), un tipico codicillo che spesso fa capolino nei trattati di tal fatta.Contempla l'istituzione di un sistema giudiziario alternativo a quello proprio di ciascuno Stato, e realizzato attraverso forme spurie di arbitrato transnazionale e sovrastatuale. Queste si concretizzano, di prassi, in un collegio costituito da giuristi esperti in diritto commerciale a cui possono rivolgersi le grandi corporation del business mondiale quando ritengano di essere state lese, nei loro diritti, dai provvedimenti di una nazione troppo «interventista». La Ics, rispetto alla Isds, prevede anche un grado d'appello. In ogni caso, vincolandosi alla clausola capestro, gli Stati accettano di subordinare al giudizio di tali tribunali speciali la prerogativa somma, ed esclusiva, di ogni autorità sovrana: quella di governare, di prendere decisioni sul proprio territorio, e di imporle a chiunque ci viva, ci operi o semplicemente vi si stabilisca o vi transiti per fare business. Infatti, un governo che adotti una misura sgradita al grande capitale apolide delle multinazionali può essere «citato in giudizio» e condannato a una pesante «compensazione» pecuniaria. Tradotto in soldoni, si parla, in caso di soccombenza, di risarcimenti multimilionari al netto delle ulteriori, e ingentissime, spese accessorie e legali per la procedura. Secondo le statistiche dell'Unctad (la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo), nel 60% dei contenziosi vincono le corporation. In base alle stime effettuate da un pool di organizzazioni aderenti alla campagna Stop Ceta, e citati nel report Diritti per le persone, regole per le multinazionali, negli ultimi tre decenni gli Stati hanno dovuto pagare la bellezza di 67,5 miliardi di dollari a causa di sentenze sfavorevoli e 16,9 per patteggiamenti.Ma erano gravi le censure del Belgio rigettate dalla Corte di giustizia? Altroché: gravi e ben motivate. È sufficiente una rapida scorsa delle principali: incompatibilità con l'articolo 20 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, secondo il quale «tutti sono uguali davanti alla legge» e con l'articolo 21 della stessa dove si stabilisce che, nell'ambito dei trattati, è vietata la discriminazione in base alla nazionalità (punto 52); incompatibilità con il diritto fondamentale di accesso a un tribunale indipendente, come sancito, in particolare, dall'articolo 47 della Carta (punto 56); difficoltà di accesso per le piccole e medie imprese al tribunale Ceta per i costi esorbitanti (punto 57); dubbi sull'imparzialità dei giudici perché non si impone loro di dichiarare le proprie attività esterne foriere di conflitti di interesse (punto 69). Ebbene, a fronte di tutte queste, e molte altre, rimostranze, la Corte di giustizia ha risposto che va tutto bene, perché la clausola Ics impedisce ai cosiddetti «tribunali degli investimenti» di rimettere in discussione «scelte democraticamente operate» in materia «di diritti fondamentali». Di conseguenza, quest'accordo non lede «l'autonomia dell'ordinamento giuridico dell'Unione». Peccato che leda la nostra. Occhio, perché sono in fase di avanzata negoziazione trattati analoghi con Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Singapore, Vietnam, Messico e Cile.E l'Italia? Autorevoli esponenti dell'attuale compagine gialloblù si sono già pronunciati contro la ratifica del Ceta. Tuttavia il commissario Ue Pierre Moscovici ha già avuto modo di dichiarare che, anche in caso di voto contrario di uno dei 27 Parlamenti nazionali europei, il Ceta si applicherà così com'è. Ci stiamo sempre più avvicinando a un sistema di diritto internazionale in cui la sovranità statuale non è più la regola, ma l'eccezione. Essa può essere esercitata, ma con giudizio e laddove sia gentilmente «garantita» da apposite clausole inserite nei trattati commerciali. In buona sostanza, i popoli, tramite i loro Parlamenti e i governi legittimamente eletti, avrebbero il potere di legiferare e di comandare a casa propria solo se, e nella misura in cui, ciò avvenga entro il perimetro delle «riserva indiana» stabilito dalle convenzioni di libero scambio.Appaiono fondati i motivi di preoccupazione rispetto alle conseguenze di questo pronunciamento. Queste clausole, infatti, se anche non confliggono con il diritto dell'Ue (come sostenuto dalla Corte di giustizia), cozzano violentemente con la nostra Costituzione che, all'articolo 11, consente esclusivamente «limitazioni» e giammai «cessioni» di sovranità, e soltanto ove necessarie a un ordinamento che assicuri «la pace e la giustizia fra le nazioni»; non il profitto e l'interesse delle multinazionali.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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