2022-09-27
Lotta e governo: Lega ostaggio dell’ambiguità
Giancarlo Giorgetti (Imagoeconomica)
Il leader sa che l’esperienza con Mario Draghi l’ha logorato, eppure la rivendica: una contraddizione destinata a paralizzare il Carroccio. Ripartire dai promotori di larghe intese e green pass, però, sarebbe controproducente. I veterani: «Usiamo il nostro 8% sui territori».«Aveva ragione Giulio Cesare, meglio primi nelle Gallie che secondi a Roma». A via Bellerio, mentre Matteo Salvini prova a giustificare la batosta nel salone attiguo, un vecchio leghista da battaglia rispolvera una classica battuta di Umberto Bossi per spiegare l’arcano: «Quando la Lega perde di vista la sua gente e perde il vento che spira dalle valli, perde anche l’anima». Sociologia pura, adesso nelle Gallie e a Roma comanda Fratelli d’Italia che ha doppiato gli alleati conquistando storiche roccaforti come la Lombardia e il Veneto, in barba alla narrazione mainstream della «volontà governativa del ceto produttivo del Nord». Frase vuota, che non rappresenta nessuno, se non chi la scriveva a nastro come «Il mattino ha l’oro in bocca» di Jack Nicholson in Shining, dentro reportage plastificati e funzionali solo a puntellare il governo di Mario Draghi. Mentre la Lega «responsabile, moderata, educata al bon ton istituzionale» che piaceva agli editorialisti, a Giancarlo Giorgetti, a Luca Zaia, a Massimiliano Fedriga si avviava a sostenere banchieri, notabili, contabili e vecchie zie euroliriche violentando il proprio Dna, il vento degli elettori diventava bonaccia, il consenso si prosciugava annichilito da decisioni sinistre, globaliste, autoritarie. Firmi il green pass per uscire di casa e lavorare? Un anno dopo perdi anche il totem Ponte di Legno e vieni doppiato da Giorgia Meloni pure a Gemonio dove abita il Senatur. Avalli la vaccinazione obbligatoria dei sanitari, ti appiattisci sui governatori chiusuristi e stai a guardare mentre i celerini picchiano chi protesta pacificamente? Un anno dopo ti fermi al 16% nella fortezza di Cassano Magnago (con Fdi al 30%) e devi abbandonare anche il simbolico pratone di Pontida, travolto dalla cannibalizzazione dei Fratelli. In Veneto stesso destino: Fdi 32,7%, Lega 14,7%. Ti accodi alla rielezione cattodem di Sergio Mattarella al Quirinale e ti dimentichi per strada l’autonomia? Sette mesi dopo vali la metà a Venezia come a Verona e sugli altipiani. Per avere le risposte bastano quei due numeri sul foglio che oggi Zaia rigira fra le mani. «Il voto degli elettori va rispettato, perché, come diceva Rousseau nel suo Contratto sociale, Il popolo ti delega a rappresentarlo. E quando non lo rappresenti più ti toglie la delega». Punto esclamativo del governatore, che aggiunge: «È innegabile come il risultato ottenuto dalla Lega sia assolutamente deludente, e non ci possiamo omologare a questo cercando semplici giustificazioni». Vero, ma i motivi del flop non sono neppure introvabili. In generale la partecipazione all’esecutivo con l’uomo forte di Bruxelles simbolo del multilateralismo, con gli inaffidabili pentastellati e con gli storici nemici del Pd invece di essere un trampolino è stata una tomba. Ha ragione Salvini quando dice: «È stata premiata l’opposizione di Giorgia». È però spiazzante quando aggiunge: «Ma rifarei la scelta di entrare nel governo anche se non è stato semplice». In realtà il governo dei «competenti» non ha portato alla Lega nessun vantaggio, anzi. Sembra che oggi il segretario difenda la scelta per non dover bocciare una campagna claudicante senza messaggi identitari. In questo senso è stata più identificabile e concreta quella di Giuseppe Conte, che si è intestato il regicidio e lo ha rivendicato come una medaglia incassando un dividendo pari a quello del reddito di cittadinanza. Poiché l’ambiguità non paga, capire quale Lega affronterà la sfida dura e affascinante del governo di centrodestra è fondamentale per il partito e per lo stesso esecutivo. Nel frattempo le acque si agitano. Ieri Paolo Grimoldi, l’ultimo segretario della Lega lombarda, ha chiesto le dimissioni di Salvini su Facebook: «Un disastro assoluto. Trovo singolare che una forza che si definisce autonomista abbia gestito tutta la campagna elettorale solo con commissari imposti dall’alto. Bisogna subito avviare il congresso. Dignità impone dimissioni immediate». Il leader non è preoccupato perché ha un grande vantaggio, per esempio, rispetto a Enrico Letta: avverte i mal di pancia ma non ha correnti da placare. E i militanti sono ancora con lui. L’urgenza di una verifica congressuale arriva anche da un’ala della Liga veneta, mentre l’ex sottosegretario alla Difesa, Raffaele Volpi, lascia parlare un dipinto: La caduta di Icaro di Jacob Peter Gowy pubblicata sul suo profilo Facebook. Salvini ha annunciato che concederà i congressi locali e nazionale entro il 2023 ma sa di non essere in bilico per un altro motivo, molto semplice: a retrocedere dal 17% all’8,8% la Lega alle politiche sono state le scelte indotte dai «governisti» e dai governatori. Lasciare a loro le chiavi del partito sarebbe una contraddizione in termini. Con i rapporti di forza cambiati sarà molto importante la dialettica con gli alleati. Difficile che il Capitano possa chiedere di nuovo il Viminale, difficile che abbia mano libera nel rilanciare Attilio Fontana alla corsa per Palazzo Lombardia, difficile che l’autonomia sia una passeggiata con lady Meloni a rappresentare la parte statalista della coalizione. Ma proprio da questo obiettivo primario può ripartire la lunga marcia della Lega. È sempre il vecchio senatore a spiegarlo: «Quando gli elettori in libera uscita capiranno che il radicamento, l’identità, la cura dei territori sono valori soprattutto nostri, comincerà la partita di ritorno». Poi aggiunge con un sorriso: «È più facile essere incisivi con l’8% fra amici che con il 17% in mezzo ai nemici». L’importante è riaprire le finestre per tornare a sentire il vento. E ritrovare l’anima.