2025-05-23
L’opposizione attende l’aiuto dei giudici per veder deragliare pure il dl Sicurezza
Una bocciatura da parte della Corte costituzionale viene data per scontata, visto che ormai va abitualmente oltre i suoi limiti.Presidente di sezione emerito della Corte di CassazioneC’è qualcosa di singolare e di inquietante nel fatto che la maggior parte delle critiche di ispirazione, grosso modo, «politica», avanzate nei confronti del dl Sicurezza, attualmente all’esame del Parlamento per la conversione in legge, si basano essenzialmente non su di una sua più o meno giustamente ritenuta contrarietà alle aspettative o ai legittimi interessi della maggioranza degli elettori - come sarebbe naturale in una dialettica aderente ai principi di una normale democrazia - ma sulla prospettazione della sua pressoché inevitabile bocciatura da parte della Corte costituzionale, una volta che questa fosse chiamata a decidere sulla sua applicazione. In particolare si dà per quasi scontato che la Consulta, alla prima occasione utile, in linea con un indirizzo ormai da tempo affermatosi, non potrebbe non dichiarare l’incostituzionalità del dl in questione, pur se convertito in legge, per evidente difetto del requisito della «straordinaria necessità e urgenza» che, ai sensi dell’art. 77 della Costituzione, è necessario perché il governo possa esercitare il potere di emettere, sotto forma di decreto, «provvedimenti provvisori con forza di legge». E si è pure (non a caso) evocato, nel parere espresso dal Csm il 14 maggio scorso, il potere che la Consulta si è autoattribuita (con la sentenza n. 86 del 2024) di esercitare il proprio sindacato anche sull’entità delle pene previste dal legislatore per singoli reati, verificandone la compatibilità con i principi costituzionali - da essa liberamente interpretati - di «ragionevolezza» e tendenziale finalità della pena alla rieducazione del condannato, il primo desunto dal principio di uguaglianza, previsto dall’art. 3 della Carta, e il secondo affermato nell’art. 27. Nulla di male in tutto ciò se non fosse per il fatto che, con tali indirizzi, la Corte costituzionale si è resa, sostanzialmente, arbitra di esercitare, in materia penale, un potere discrezionale tale da sovrapporsi, annullandolo, a quello che dovrebbe essere proprio solo del legislatore. Il che si pone in radicale contrasto con l’art. 28 della legge n. 87 del 1953, recante «norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale», il quale vieta espressamente a quest’ultima «ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento». Né la legge né la Costituzione, però, prevedono rimedio alcuno a fronte dell’eventuale violazione di tale divieto. Si spiega, quindi, come mai la Consulta abbia potuto permettersi di ignorarlo ogniqualvolta lo abbia voluto. Il che si è appunto verificato, con riguardo alle questioni sull’entità delle pene, a cominciare almeno dalla sentenza n. 341 del 1994 con la quale fu dichiarata incostituzionale, per la sua ritenuta eccessività, la previsione della pena minima di sei mesi di reclusione per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale. Tale indirizzo è stato poi mantenuto e, anzi rafforzato, fino all’epoca attuale, come dimostrato, ad esempio, dalle sentenze nn. 86/2024, 120/2023 e 68/2012, con le quali è stata dichiarata l’incostituzionalità della mancata previsione, negli articoli 628, 629 e 630 del codice penale che puniscono, rispettivamente, la rapina, l’estorsione e il sequestro di persona a scopo di estorsione, di una riduzione della pena per il caso in cui il fatto sia da considerare «di lieve entità». Con il che la Corte ha creato, per le suddette figure di reato, di propria iniziativa, una speciale attenuante della quale il legislatore, nel legittimo esercizio del suo potere discrezionale, non aveva avvertito né la necessità né l’opportunità. Ancor più in contrasto, se possibile, con il divieto di cui al citato art. 28 della legge n. 87/1953 appare poi il potere che, come già accennato, la Corte costituzionale si è autoattribuito - a far tempo almeno dalla sentenza n. 29 del 1995 per arrivare a quella n. 146 del 2024 - di dichiarare l’incostituzionalità dei decreti legge, nonostante la loro intervenuta, regolare conversione in legge qualora, a suo insindacabile giudizio, sia mancato, fin dall’origine, il requisito della «straordinaria necessità ed urgenza» previsto dall’art. 77 della Costituzione. L’assoluta arbitrarietà della ritenuta esistenza di un tale potere - quale che sia o possa essere stato l’abuso, da parte dei vari governi, del potere di decretazione d’urgenza - dovrebbe apparire manifesta ove si consideri che la Costituzione non pone al Parlamento alcuna condizione alla quale debba essere subordinata la conversione del decreto legge in legge, se non quella costituita dal rispetto del termine tassativo di 60 giorni. Ciò significa che anche l’attribuzione o meno di una qualsivoglia rilevanza all’eventuale difetto del requisito in questione rientra nel «potere discrezionale», di natura esclusivamente politica, che il Parlamento è chiamato a esercitare a fronte della richiesta di conversione di un dl, con conseguente esclusione di ogni e qualsiasi possibilità di postumi interventi da parte della Corte costituzionale. Ma il Parlamento è, per definizione, il più diretto rappresentante della volontà popolare. Il fatto che un altro organo, quale, nello specifico, la Corte costituzionale, esorbitando dai suoi poteri, ponga nel nulla le deliberazioni da esso adottate altro non esprime, quindi, se non disprezzo di quella volontà. Un disprezzo del tutto analogo a quello che, guarda caso, viene sempre più apertamente manifestato anche da parte dei politici e degli intellettuali operanti nell’ambito di quella che si potrebbe definire come la «sinistra istituzionale», notoriamente caratterizzata dal diffuso convincimento della propria genetica superiorità su quanti a essa non appartengano, come ben messo in luce, tra gli altri, da un pensatore intellettualmente onesto, pur se proveniente anch’egli dalla sinistra, come Luca Ricolfi. Difficile non pensare, quindi, che un simile convincimento non si sia annidato e non operi anche tra le mura del palazzo della Consulta. Se così è, non dovrebbe, allora, considerarsi blasfemo l’auspicio che, a salvaguardia del principio della sovranità popolare che tuttora, piaccia o non piaccia, è alla base della nostra Costituzione, si dia luogo a interventi normativi, anche a livello costituzionale, tali da impedire agli inquilini del suddetto palazzo di continuare a debordare da quegli stessi limiti che già ora, in base alla legge vigente, dovrebbero essere - ma non sono - da essi osservati.
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