La Lombardia è diventata la pecora nera del servizio sanitario nazionale. Colpa dei ritardi con cui è partita la campagna vaccinale e di un certo numero di errori nel servizio di immunizzazione, tra i quali quelli degli ultimi giorni, con persone anziane che per ricevere l'agognata iniezione sono state spedite anche a 145 chilometri di distanza (da Castenedolo, il paese di Brescia in cui sono nato, sono state mandate a Como, cioè a quasi due ore di macchina).
La Lombardia è diventata la pecora nera del servizio sanitario nazionale. Colpa dei ritardi con cui è partita la campagna vaccinale e di un certo numero di errori nel servizio di immunizzazione, tra i quali quelli degli ultimi giorni, con persone anziane che per ricevere l'agognata iniezione sono state spedite anche a 145 chilometri di distanza (da Castenedolo, il paese di Brescia in cui sono nato, sono state mandate a Como, cioè a quasi due ore di macchina). In altri casi, alle persone attese non è stata comunicata la prenotazione perché il sistema era andato in tilt (domenica a Cremona, sui 600 da vaccinare se ne sono presentati 60 e solo le chiamate in diretta di medici e infermieri hanno evitato che le dosi venissero buttate, consentendo di chiudere la giornata con 911 immunizzati). Spiace doverlo riconoscere perché la sanità lombarda è un'eccellenza, ma chiudere gli occhi di fronte al caos di queste settimane non si può. Dunque, non saremo certo noi a provare a sbiancare la pecora nera. Tuttavia, ci siano permessi alcune osservazioni, che, guardando i dati diffusi dal governo, balzano all'occhio. Ieri, secondo le cifre riportate sul sito di Palazzo Chigi che tiene il conto delle vaccinazioni, la campagna di immunizzazione aveva raggiunto quota 8.765.000 somministrazioni, 2 milioni e 787.000 delle quali con una seconda dose di vaccino. Le regioni con il maggior numero di dosi somministrate sono la Lombardia (1,4 milioni), il Lazio (896.000), l'Emilia-Romagna (752.000), la Campania (733.000) e via a scendere. Le cifre assolute però non vogliono dire nulla, perché ci sono regioni più popolose di altre e dunque il numero di vaccinati va calcolato in base agli abitanti. E qui, se si fanno i conti, le cose cambiano. Per restare alle più grandi, in cima alla lista figura la regione guidata da Stefano Bonaccini, seguita da Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Piemonte, Lazio, Toscana, Veneto, Lombardia, Puglia, Campania. C'è chi, come l'Emilia-Romagna, ha vaccinato il 17 per cento della popolazione con almeno una dose e chi sta al 13, ma diciamo che anche queste percentuali in fondo vogliono dire poco, perché ciò che conta è chi è stato vaccinato. E qui, sempre consultando il sito del governo, ci sono una serie di novità sorprendenti. Prendete per esempio il caso della Lombardia. Fra le persone vaccinate figurano circa mezzo milione di operatori sanitari e sociosanitari, oltre 400.000 over 80 (su 683.000 censiti dall'Istat), 108.000 ospiti di strutture residenziali, cioè anziani ricoverati in case di riposo, 158.000 impiegati che operano nell'ambito della sanità, 121.000 insegnanti e bidelli, 31.000 dipendenti delle Forze Armate e 80.000 vaccinati censiti come «Altro». Che cosa sia questo altro non è dato sapere, ma della categoria potrebbe far parte chiunque, forse anche gli imbucati, cioè quelli che hanno saltato la fila. E adesso prendiamo la Campania, dove i vaccinati sono 733.000, di cui 183.000 fra il personale sanitario e 226.000 tra gli over 80. Sapete quanti sono i vaccinati che risultano non censiti sotto le categorie che avrebbero dovuto godere della corsia preferenziale? 135.000. Più del personale scolastico, che somma 126.000 persone. Volete conoscere come stanno le cose in Calabria? Su 226.000 vaccinati, 75.000 sono medici e infermieri, 59.000 sono ultraottantenni e 52.000 classificati come «Altro». Ma il meglio lo si registra in Sicilia, dove su 705.000 persone immunizzate, 220.000 sono operatori sanitari, 150.000 sono anziani con più di 80 anni e 195.000 sono misteriosissime categorie non meglio identificate. Non si fa mancare un buon numero di vaccinati indefiniti anche la Toscana, dove pure ci sono state polemiche a non finire sui furbetti del vaccino, che hanno visto avvocati, politici e giornalisti saltare la fila: su 568.000 persone che hanno ricevuto almeno la prima dose, ci sono 64.000 signori registrati come «Altro», il doppio degli ospiti delle strutture residenziali e più della metà degli anziani ultraottantenni. Nel Lazio, la categoria misteriosa sfiora le 100.000 persone, quasi quanto il personale scolastico, un terzo di quello sanitario e degli ottuagenari, tre volte gli anziani delle strutture residenziali. In Veneto, su 709.000 vaccinati ci sono 223.000 operatori sanitari, 207.000 over 80, 66.000 ospiti di strutture residenziali e 114.000 classificati con il solito sistema: «Altro». Il Piemonte con 703.000 immunizzati di vaccinazioni non identificate ne ha 29.000, un decimo o quasi di quelle fatte agli ultraottantenni, la metà circa delle somministrazioni cui sono stati sottoposti gli ospiti delle case di riposo.Sappiamo di aver abusato della pazienza dei lettori, inondandoli di numeri e percentuali, tuttavia era necessario per capire che la Lombardia di errori ne ha collezionati un certo numero ma, se si vogliono guardare i fatti, non è l'unica pecora nera del gregge e probabilmente neppure quella da tosare. Si capisce che faccia politicamente comodo ergerla a simbolo di un disastro, come ha fatto ieri Carlo Verdelli, ex direttore di Repubblica, con un tweet. Ma l'esimio collega è lo stesso che quando guidava il quotidiano della sinistra radical chic, a proposito del Trivulzio, ovvero della casa di cura milanese che da due secoli assiste gli anziani meno abbienti, titolò in prima pagina a caratteri cubitali: «La strage nascosta». Una settimana fa i periti nominati dalla Procura hanno chiarito che non c'è stata alcuna strage nascosta e non esiste un caso Trivulzio, ma la notizia non è finita in prima pagina. Così come in prima pagina non hanno trovato posto la giunta di Corleone che ha saltato la fila di vaccini o i collaboratori del governatore campano che all'improvviso sono diventati collaboratori della struttura anti Covid e come tali con diritto a essere immunizzati. Sì, la Lombardia è una pecora nera, ma tra chi le punta l'indice contro ci sono pecore nere che neppure si vergognano di esserlo.
(IStock)
L’allarme: le norme verdi alzano i costi e favoriscono i gruppi che operano all’estero.
(Ansa)
Il colosso cinese offre un superbonus da 10.000 euro per i clienti che rottamano i vecchi modelli. La promozione sostiene il fatturato mentre calano gli utili e le immatricolazioni. Più forte la concorrenza dei marchi orientali che dominano il mercato.
Martha Argerich (Michela Lotti)
La leggendaria pianista argentina: «Suono troppo, ho molti dubbi e non so cosa fare del tempo che mi resta. Quest’arte però è grande come l’amore. Non può sconfiggere il male, ma ha il potere di toccare l’inconscio».
di Carlo Melato da Portoferraio, Isola d’Elba
La folta chioma color argento e le mani vigorose «forgiate per il pianoforte», come affermò Vincenzo Scaramuzza, tirannico maestro fissato con l’anatomia che la temprò quando era bambina. Il sorriso buono che ripara l’interlocutore dal fuoco che brucia dentro e il portamento da fata gentile che custodisce i terribili segreti del suono. Tutto secondo copione: Martha Argerich, a 84 anni, è l’inconfondibile leonessa di sempre. L’elemento spiazzante, a poco più di un’ora dal concerto più importante del Festival internazionale Elba isola musicale d’Europa - diretto dal vecchio amico George Edelman - è che la leggendaria pianista argentina, solitamente restia a farsi intervistare («Difficile parlare di musica, è la musica che parla», il suo primo comandamento), accetti l’invito proprio quando per lei sarebbe il momento di riposare. I suoi colleghi infatti corrono a nutrirsi dopo due ore di lavoro regalate alla curiosità del pubblico (spoiler: la serata si concluderà in un trionfo), nelle quali l’antidiva in purezza del concertismo mondiale è riuscita nel miracolo di dirigere attraverso le espressioni del suo viso.
La Argerich ci attende sullo sgabello. Con la mano destra regge una lattina di Coca-Cola che oscilla pericolosamente a pochi centimetri dalle corde e dai martelletti di uno Steinway gran coda, mentre la sinistra non riesce a smettere di cercare nuovi accordi, senza che questo distragga minimamente l’artista.
Le prove aperte sono un preludio di questo evento al Teatro dei Vigilanti di Portoferraio: prima il Quintetto per due violini, viola, violoncello e pianoforte op. 44 del suo «amico dell’anima», Robert Schumann, poi il Concerto per pianoforte, tromba e orchestra d’archi op. 35 di Dmitri Shostakovich, a 50 anni dalla morte del compositore russo.
«Schumann lo amo ancora moltissimo, è una persona eccezionale».
Ne parla come se fosse vivo...
«Adoro anche il concerto di Shostakovich, soprattutto in questo periodo difficile per il mondo. Sappiamo che il suo autore pagò sulla propria pelle i guai che gli causò Stalin. Il rapporto di forza tra il dittatore e il musicista fu davvero singolare (Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk - che il teatro alla Scala farà rivivere nella Prima di Sant’Ambrogio - costò al ventisettenne Dmitri una condanna pubblica sulla Pravda, alla quale seguirono censure, emarginazioni e violente pressioni psicologiche, ndr). Ma dobbiamo sottolineare l’eccezionale formazione da camera di questa sera».
L’Elba festival orchestra strings.
«Non consideriamolo “un ensemble di giovani”, anche se chiaramente sono tutti meno vecchi di me» (ride).
Età a parte, si sente una maestra in questo contesto, una guida?
«No».
Dai loro volti però traspare l’emozione di fare musica con lei: non è un privilegio?
«Così dicono… Comunque loro suonano benissimo. E c’è la prima tromba dell’orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, Alfonso Gonzales Barquin. Devo dire molto, molto bene...».
La sua espressione lascia intendere un «ma»…
«Beh, il pianoforte ha un suono duro, secco. L’accordatore però ha fatto i miracoli».
Durante le prove ha bisbigliato a lungo con i professori d’orchestra.
«Anche questo teatro è particolare…».
Porta la firma di Napoleone, ma è una piccola bomboniera da 250 posti. Sono le dimensioni a complicare l’acustica?
«L’ultima volta che ho partecipato al festival avevo un pianoforte Fazioli ed eravamo all’aperto. Ricordo un’arena meravigliosa e un caldo pazzesco. Oggi gli elementi sono tutti diversi… La verità è che sono io a sentirmi strana. Nei giorni scorsi ero così stanca che non sapevo nemmeno se sarei riuscita a raggiungere l’isola. Non sono in forma: oggi più o meno, in realtà non lo so…».
Rileggendo la sua biografia, L’enfant et les sortilèges di Olivier Bellamy, ci si accorge che il peso dell’agenda che trabocca di concerti, soprattutto dopo i precoci trionfi al Concorso Busoni e a quello di Ginevra all’età di 16 anni, non l’ha mai abbandonata. Moltissimi anni fa arrivò a procurarsi un taglio a un dito per trovare una tregua. In questa fase della sua vita il palcoscenico le è amico?
«Difficile rispondere. Vivo in uno strano stato: tante domande, sono perplessa riguardo a me stessa».
Cosa la preoccupa?
«Non sono contenta di suonare - e soprattutto viaggiare - così tanto. Non so perché lo faccio, ma da questo punto di vista sono sempre stata contraddittoria. Faccio cose che non ho voglia di fare e poi… mi piacciono. Strano no?».
Gli applausi e l’amore che il pubblico le dimostra sono un sollievo?
«Non sempre perché penso a ciò che verrà dopo. Vorrei avere più tempo libero e non essere soltanto una pianista. Mi piacerebbe scoprire altro…».
Cosa?
«Per capirlo servirebbe la libertà che mi manca. Sono vecchia ormai. Non so cosa fare del tempo che rimane».
Si dice che lei sia perfezionista con sé stessa, ma non con il prossimo. Il direttore d’orchestra Enrico Fagone mi ha confidato che rimane sempre colpito dalla generosità con la quale lei coinvolge musicisti dei quali ama abbracciare la fragilità. Condividere la musica con le persone care le dà gioia?
«All’amicizia tengo molto, è un aiuto reciproco. Per me è stato decisivo il rapporto con Claudio Abbado. Quando lo conobbi ero una bambina e lui un giovane pianista: il migliore in quella masterclass a Salisburgo con Friedrich Gulda. Eseguiva la parte solistica dei concerti mentre io vestivo i panni dell’orchestra all’altro pianoforte. Non poteva ancora immaginare che sarebbe diventato un grande direttore. Poi ricordo Maurizio Pollini. I nostri diversi stili ci colpirono a vicenda. Ci incontrammo al Concorso di Ginevra e ogni volta che ci penso mi viene da ridere…».
Perché?
«Uomini e donne gareggiavano separati (la Argerich vinse, il formidabile pianista italiano arrivò secondo nella categoria maschile, ndr). Claudio e Maurizio non ci sono più e mi mancano terribilmente».
Il festival dell’Elba ha visto anche sua figlia, Annie Dutoit Argerich, dare corpo e voce alla Ode a Napoleone di Lord Byron, trasfigurata musicalmente da Arnold Schönberg in una specie di dodecafonia dal volto umano. Byron, come Schönberg, sembra molto critico verso quel Bonaparte che su quest’isola lasciò il segno, se ne andò 210 anni fa per riconquistare il mondo, senza però sapere che nel suo destino c’era Waterloo.
«Una prova molto difficile, Annie è stata bravissima (bis in programma a Oxford il 22 gennaio 2026 per il compleanno dello scrittore romantico, ndr). La delusione di Byron è propria di chi ha tanto amato. Ne ho parlato a lungo con mia figlia e mi ha convinto» (ride).
«La tomba è stato il tuo unico dono per chi ti adorava», sentenzia il poeta a proposito dell’«uom fatale». Ricorda la disillusione di Beethoven o quella di Manzoni: «Fu vera gloria?». Anche lei, sul New York Times, si è chiesta: «Cosa siamo noi pianisti? Niente».
«È vero, anch’io mi domando a cosa serva la gloria. In un film di Pedro Almodóvar (Tutto su mia madre, ndr) una donna afferma: “Il successo non ha sapore, né odore”. È così. E, in qualunque campo, non è nemmeno stabile. Pensi a quanti presidenti vengono eletti e poi scaricati dal popolo».
Ma quindi a cosa serve la musica?
«È un miracolo, la meraviglia della vita. È come chiedersi a cosa serve l’amore. Nella mia esistenza ho conosciuto una persona a cui non piaceva la musica, di qualunque tipo e genere. Non mi è mai più capitato».
È un’arte che regge l’urto davanti al mondo in fiamme?
«È l’espressione di qualcosa che non conosciamo fino in fondo. Di sicuro ha un potere enorme. Fare musica insieme è fondamentale, parla all’inconscio. Basti pensare a cosa ha generato Daniel Barenboim con la sua West-Eastern Divan orchestra (formazione che riunisce musicisti proveniente da Israele, Palestina e non solo, ndr). È molto interessante. Purtroppo però non basta».
Da Est al Medio Oriente è il male a trionfare?
«Ho conosciuto la madre di un ostaggio israeliano, rapito a 22 anni. So che suonava il pianoforte, nel frattempo ne ha compiuti 24. Spero che sia ancora vivo. Sono sofferenze terribili…».
Qual è il vero compito degli artisti oggi? Schierarsi?
«In qualche modo è sempre stato così. Arturo Toscanini o Pablo Casals lo hanno fatto, altri no. I musicisti sono persone, non immagini. Rispondono alla loro coscienza».
C’è un luogo nel quale trova la pace?
«Nella musica di Ludwig van Beethoven. Sono alle prese con la Grande fuga».
Da bambina scrisse che il padre della musica era Johann Sebastian Bach. Il suo Dio Beethoven. Ha cambiato idea?
«No, ma oggi sono politeista» (ride).
Prima ha citato Gulda, che per lei ha rappresentato un vero e proprio maestro di libertà. Le ha trasmesso anche la passione per il jazz?
«Certo. Erroll Garner è meraviglioso, Art Tatum mi ricorda Rachmaninoff e poi adoro Chick Corea. Mi spiace che sia scomparso. Tra le nuove leve vado matta per la giapponese Hiromi».
Domenica ci sarà la finale del Busoni. Per la sua vita, la vittoria del 1957 fu la palla di neve che scatenò la valanga. Cosa augura ai partecipanti?
«Di vincere, non è detto che si debba essere travolti. A proposito, sono rimasta impressionata da una giovane pianista».
Il suo nome?
«Martina Meola, 12 anni, vive a Milano. Ero nella giuria del concorso “Jeune Chopin” e ci ha regalato una ballata del compositore polacco meravigliosa».
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Papa Leone XIV (Ansa)
Da domani, il pellegrinaggio Lgbt a Roma con messa («profetica», dice lui) di monsignor Savino. Prevost, però, non riceverà i fedeli omosex, anche se il loro ideologo, il gesuita Martin, giura: «Prevost è come Francesco». Mentre Zuppi lo tira per la stola sui migranti.