2022-06-11
L’olio di Puglia illuminava i palazzi di Londra
Olio di Puglia. Nel riquadro, ricarica di un lampione a olio nella Londra vittoriana (IStock)
Sino a metà Ottocento era l’«oro» di Gallipoli a fare il prezzo alla Borsa d’Inghilterra e la stessa regina Vittoria lo preferiva. Orazio, in epoca romana, magnificava il grano della regione. Sfornava «il miglior pane del mondo», un centinaio di varietà.La Puglia è una regione con un patrimonio di risorse ancora da scoprire, al di là degli stereotipi del turismo balneare o da quanto ci hanno cantato testimonial quali Albano Carrisi, con la nostalgia (canaglia) del suo Negroamaro o la felicità trasmessa dal Bianco Salentino. Nel 2021 il mare che bagna le sue coste premiato come il più pulito d’Italia. Lo spot promozionale della Regione Puglia considerato il migliore a livello nazionale. Sulle riviste specializzate del turismo vacanziero la regione dei trulli indicata a forte attrazione nel ritorno alla normalità. Diventa conseguente andarne ad esplorare le diverse bellezze, comodamente seduti a tavola. Molte delle note a seguire hanno trovato base documentale grazie a uno dei suoi narratori più attenti, Luigi Sada, autore di svariati libri, tra cui La Cucina pugliese (Newton Compton). Una «cucina che esprime al meglio un grande respiro mediterraneo», antologia di realtà diverse. Dalla pianura del Tavoliere, leader nella produzione di grano, al Gargano, come l’altopiano delle Murge, ricco di offerte, a partire da quelle casearie, o ancora il Salento, con il suo olio, tanto da rappresentare il quaranta per cento della produzione nazionale. Autentici tesori di archeologica rurale i trappeti ipogei, ampie cavità sotterranee naturali dove un tempo le macine dei frantoi, trainate da pazienti muli, distillavano l’oro verde al riparo dalle periodiche razzie di armate diverse. Olio che deve molto all’evoluzione tecnologica, non tanto nel lavorare al meglio la Garganica Salentina o la Bella Cerignola, ma perché, sino a metà Ottocento, questo olio, prodotto in maniera molto artigianale, badando più alla quantità che alla qualità, prendeva le rotte marittime, come olio lampante, per illuminare le vie delle capitali europee, tanto che era l’oro di Gallipoli a fare il prezzo alla Borsa di Londra ed era la stessa regina Vittoria che lo preferiva agli altri per dare luce ai suoi palazzi. Puglia ricca di giacimenti diversi, tanto che già Orazio, in epoca romana, magnificava il suo grano che dava luogo «al miglior pane del mondo», ad iniziare da quello di Altamura, il primo ad ottenere la prestigiosa Dop a livello europeo per la sua categoria, nel 2003. Ci sarebbero millanta storie da raccontare su di lui, molto versatile sia al forno che in cucina, una per tutte quella della vaccaredda, una pagnottina dalla forma a ferro di cavallo che nella simbologia rurale rinviava alle forme delle mammelle vaccine. Di pezzatura inferiore al formato classico veniva donata a qualche compaesano in difficoltà ma, in determinati momenti, era il dono dei figli ai genitori per ringraziarli di quanto avevano fatto, «allattandoli» a suo tempo per farli crescere.Luigi Sada, nei suoi archivi, ha registrato oltre un centinaio di varietà tuttora preparate giornalmente dai vari fornai di paese. Una curiosità le pettole, piccole polpettine di pane fritte. Leggenda vuole che, in un tempo lontano, una madre di famiglia, dopo aver impastato acqua e farina, si dimenticò di riporre le varie pagnotte nel forno, presa dalle chiacchiere con le vicine. Tornata in cucina oramai era troppo tardi. Fece di necessità virtù e, una volta modellate tante piccole palline, le gettò nell’olio bollente. Ai figli che volevano conoscere tanta buona novità le ribattezzò «pettole», ossia la versione mignon della «pitta», la tradizionale focaccia. Molto versatili in cucina, con il baccalà, ma anche olive o pomodori, come a Bari, dove dovete chiedere delle «popizze». Identitarie, tanto da celebrare Santa Cecilia a Taranto, come San Martino a Lecce o vederle al centro della tavola, la vigilia di Natale, a Foggia. Chi non ha sentito, almeno una volta, uno dei più classici refrain made in Puglia: «e finì tutto a tarallucci e vino», a sintetizzare il termine di una vicenda in cui i protagonisti si ritrovano a festeggiare in cordiale compagnia? Questi caratteristici anellini di pasta croccante hanno origine rinascimentale, nati per necessità in tempi di carestia, quando non ci si poteva permettere generose pagnotte. Si sono evoluti, tanto da poterli trovare sia dolci che salati, valorizzati da assemblaggi che possono andare dal finocchio al peperoncino, passando pure per il capocollo. Nel Gargano li potete trovare neri, abbronzati dal vin cotto. Dal pane alla pasta l’evoluzione è conseguente, tanto che «le varie tipologie di pasta rappresentano una sorta di sublimazione della eccellenza regalata dal pane». Andando a spanne, in Puglia, potete incrociare oltre duecento tipologie di pasta diversa, alla faccia di quei foresti che arrivano in Italia attratti dalla leggenda del paese di spaghetti e mandolino. Anche perché, girando per le piazze del Salento, scoprirete la magia danzante di pizzica e tamburello, magari dopo esservi pappati un bel piatto di ciceri e tria, un intrigante «esempio di archeologia vivente». Alla traduzione dello Zingarelli ciceri sta per ceci e tria è una specie di tagliatella che marcia a paso doble, bollita e fritta, e qui sta il colpo d’ala che fa la differenza. Tradizione li vuole a celebrare San Giuseppe, anche se poi ve li potete pappare a tutto calendario. La versione laica recita che, in realtà, era un modo per svuotare la dispensa di quanto avanzato per far posto agli arrivi dei nuovi raccolti. Frutto di contaminazioni diverse, come sottolinea Massimo Vaglio, considerato che la costa salentina era crocevia di commerci tra le flotte veneziane che provenivano da nord e i velieri arabi che arrivavano dalla Sicilia. Questo a giustificarne l’etimo laddove itriyah, in arabo, starebbe a significare pasta secca, il miglior modo di conservarla per i popoli nomadi. Una liturgia di preparazione intrigante. I ceci lessati e in parte schiacciati con una forchetta. Le trie a bollore in acqua. Poi, alla fine, il tutto arricchito con trie fritte (frizzuli) e relativa croccante libidine calorica. Vi è la variante dei massa e ciciri, dalla forte simbologia religiosa. Qui entra in gioco anche il cavolo nero. Era un piatto che la famiglia preparava per farne omaggio agli ospiti meno fortunati. La cottura ritmata da silenziosi pater noster. Poi, una volta assemblate le diverse componenti, si mettevano a riposare nei limmi, bacinelle di terracotta, per il tempo di dieci Ave Maria. Secondo tradizione la famiglia protagonista di questo rito culinario non doveva mangiare assieme agli ospiti, ma eventualmente consumare poi quanto sarebbe avanzato. Tradizione che rimanda alle tavole di San Giuseppe, ancora fortemente viva nel Salento. Le sue origini risalenti al medioevo quando i nobili locali, in omaggio al santo, offrivano un momento di comune condivisone conviviale. Una liturgia precisa, con relativi riferimenti. Grosse ciambelle di pane con l’effige del santo al centro. La pasta e ceci un inno alla primavera, il pesce fritto rimando al miracolo della moltiplicazione dei pesci. Le dolci cartellate altro rinvio alle fasce di Gesù Bambino poi trasformate nella corona di spine. Nelle case gli ospiti potevano essere tre (rinvio alla Sacra Famiglia), come tredici (Gesù e gli Apostoli). Il parroco di casa in casa a dare la benedizione a tanto ben di Dio. Capotavola un ideale San Giuseppe, a lui la cabina di regia di tutto il procedere da una pietanza all’altra, scandito dal triplice battito della forchetta sul bordo del piatto. Alla fine del rito è concesso ai «santi» (in questo caso i commensali) portarsi a casa, se gradito, quanto avanzato tra un triplice battito e l’altro di forchetta.