2024-09-11
Rinchiudono i giovani e poi vietano i social
La fuga nelle illusioni non salva dalla realtà del mondo (iStock)
L’Australia vuole imporre un’età minima (14 o 16 anni) per usare le piattaforme. La misura arriva dopo gli studi che confermano i danni causati da Dad e lockdown ai cervelli dei ragazzi, alienati dalla realtà e maggiormente esposti alla dipendenza dal Web.Jonathan Haidt, psicologo della New York University considerato fra i più influenti pensatori del mondo, è finito in cima alla classifica dei libri del New York Times con un saggio appena pubblicato anche in Italia con il titolo La generazione ansiosa. Spiega, senza nascondere l’inquietudine, che «la Generazione Z è diventata la prima della storia ad attraversare la pubertà con in tasca un portale che la distoglieva dalle persone vicine e la attirava verso un universo alternativo esaltante, instabile, che creava dipendenza e non era adatto a bambini e adolescenti. Ottenere il successo sociale in quell’universo richiedeva ai ragazzi di dedicare gran parte delle energie, continuamente, alla gestione del proprio brand online. Era necessario per ottenere l’approvazione dei coetanei, che è l’ossigeno dell’adolescenza, e per evitare lo shaming online, l’incubo dell’adolescenza. I teenager della Gen Z trascorrevano ore e ore ogni giorno a scrollare i felici e rutilanti post di amici, conoscenti e influencer. Guardavano un crescente numero di video generati dagli utenti e intrattenimenti trasmessi in streaming, riprodotti automaticamente e proposti da algoritmi pensati per trattenerli online il più a lungo possibile». Questi ragazzini e ragazzine, continua Haidt, «trascorrevano molto meno tempo a giocare, parlare, toccare o anche solo guardarsi negli occhi con amici e familiari, riducendo la partecipazione a comportamenti sociali corporei che sono fondamentali per uno sviluppo sano».La conclusione del ragionamento è brutale: «I membri della Gen Z sono, quindi, le cavie di un modello di crescita radicalmente nuovo, lontano dalle interazioni del mondo reale tipiche delle piccole comunità in cui si sono evoluti gli esseri umani. Possiamo definirla la «Grande Riconfigurazione dell’infanzia». Come se fosse la prima generazione a crescere su Marte. La Grande Riconfigurazione non riguarda solo i cambiamenti delle tecnologie che modellano le giornate e la mente dei bambini. C’è un altro elemento: la disastrosa, per quanto animata da buone intenzioni, tendenza all’iperprotezione e alla limitazione dell’autonomia dei bambini nel mondo reale. Per crescere in modo sano, i bambini hanno bisogno di una dose massiccia di gioco libero. È una necessità evidente in tutte le specie di mammiferi. Le piccole sfide e gli ostacoli che si presentano durante il gioco costituiscono una sorta di immunizzazione che prepara i bambini ad affrontare in seguito difficoltà molto più grandi. Tuttavia, per una serie di motivazioni storiche e sociologiche, il gioco libero iniziò a tramontare negli anni Ottanta del secolo scorso e il suo declino accelerò nel decennio successivo. Nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Canada, gli adulti iniziarono a presumere che, uscendo di casa da solo, un bambino avrebbe attirato rapitori e maniaci sessuali. Il gioco all’aperto senza supervisione diminuì nello stesso momento in cui il personal computer si diffondeva come allettante strumento per il tempo libero». Le conseguenze di tutto ciò, a parere di Haidt, sono drammatiche: hanno portato alla creazione in vitro di una generazione che soffre e appare in larga parte inadatta alla vita, o comunque decisamente problematica. Del fatto che la situazione sia allarmante, in realtà, abbiamo preso atto ormai da tempo. Ciò su cui vi sono poche certezze è invece il modo di reagire ai disastrosi effetti collaterali della rivoluzione digitale.Una via possibile è quella che ha scelto di percorrere il governo australiano, il quale ha pensato di vietare l’uso delle piattaforme social ai minorenni. L’idea è quella di stabilire per legge una soglia di ingresso a 14 o alla peggio 16 anni. A quanto pare tutto è nato da una iniziativa del governo locale del South Australia, il quale - tramite un rapporto di 276 pagine stilato dall’ex giudice dell’Alta Corte Robert French - ha presentato il progetto di una legge che penalizzi le società che gestiscono i social media ogni volta che consentono ai minori di 14 anni di accedere alle piattaforme.A quel punto è intervenuto anche il primo ministro australiano Anthony Albanese, secondo cui esiste la necessità di un «approccio nazionale alla questione». Come scrive il Daily Telegraph, Albanese «ha promesso di togliere i bambini dai loro telefoni e iPad e riportarli nei campi da calcio, nelle piscine e nei campi da tennis». Al netto dei toni enfatici, il primo ministro australiano ha pronunciato parole condivisibili: «Vogliamo che i ragazzi abbiano esperienze reali con persone reali perché sappiamo che i social media stanno causando danni sociali. Questa è una piaga. Sappiamo che ci sono conseguenze sulla salute mentale». Soprattutto dopo aver letto gli studi di Haidt, è difficile dargli torto. Restano però due notevoli problemi sul tavolo. Primo: potrebbe essere troppo tardi. È difficile imporre un freno ai social senza smantellare l’intera rivoluzione digitale, cosa che nessuno ha seriamente intenzione di fare. Tra l’altro, il processo di manipolazione delle giovani menti negli ultimi anni ha subito una pazzesca accelerazione. Come se non bastassero i social ad alienarli ci si sono messe pure le restrizioni sanitarie. Secondo uno studio realizzato da alcuni ricercatori della Washington University, «i lockdown dovuti al Covid, la chiusura delle scuole, l’annullamento delle attività sportive e l’obbligo di restare a casa hanno fatto invecchiare prematuramente il cervello degli adolescenti». Secondo gli studiosi i cervelli di ragazzini e ragazzine si sarebbero in poco tempo deteriorati notevolmente, senza contare la conseguente esplosione di «problemi comportamentali, disturbi alimentari, ansia e depressione». Questi sono i danni dalle società della sorveglianza e della reclusione. Ma è difficile pensare che basti un divieto - per quanto visceralmente condivisibile - a invertire la tendenza. E qui arriviamo all’altro aspetto problematico della faccenda. È possibile curare un male con altre dosi dello stesso male? Secondo Haidt, la civiltà digitale soffre di iperprotettività. A ben vedere, il divieto di social nasce proprio all’interno di questa logica protettiva, e rischia di rivelarsi l’ennesimo escamotage per deresponsabilizzare i genitori, che dovrebbero essere gli unici titolari della gestione dei figli. Tanto più che, sulla carta, piattaforme come Facebook e TikTok già proibiscono l’ingresso fino ai tredici anni e in Europa già esistono forme di limitazione. Il codice della Privacy italiano, ad esempio, stabilisce che non ci si possa iscrivere ai social fino a 14 anni, mentre i regolamenti europei fissano la soglia minima a 16 anni. Nella realtà, nessuno di questi divieti è rispettato. Che fare, dunque? Nel suo saggio, Haidt propone una sorta di approccio ibrido. Più che limitare l’uso dei social è sano porre un freno all’uso dello smartphone tout court, iniziativa che può essere portata avanti dalle famiglie. Ha senso imporre alle aziende tecnologiche di svolgere ulteriori verifiche sull’età degli utenti, pena severa punizione (col rischio però che si introducano altre forme di controllo anche sugli adulti). Ha senso pure fissare limiti nelle scuole all’uso dei dispositivi digitali. Ma tutto questo non può prescindere da un potente moto di responsabilità. Si può anche impedire a un ragazzino di accedere ai social, ma se non gli si insegna - con l’esempio - a stare nella natura, a esercitare la fantasia, a leggere e a vincere le paure, ogni tentativo si rivelerà perdente. Per guarire l’ansia serve coraggio, quello che manca soprattutto agli adulti.
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.