2022-04-24
L’Occidente vuole la vittoria ma non sa qual è
Foreign Affairs e Lucio Caracciolo criticano gli Alleati per la vaghezza strategica. Una soluzione? Cedere allo zar Crimea e Donbass, fissando a Odessa il confine per un nuovo contenimento. Tutti otterrebbero qualcosa ed eviteremmo l’escalation (o un Afghanistan).Luigi Di Maio evoca negoziati ma fa il falco: «C’è la guerra economica mondiale». Il ministro: «Nostri esperti accerteranno i crimini russi. Le armi? Rispettata l’Aula».Lo speciale comprende due articoli.Cosa vuole l’Occidente? Vincere. Cos’è la vittoria? Non si sa. Ieri, sulla Stampa, Lucio Caracciolo rimarcava che non è ancora chiaro neppure a cosa miri Kiev. Avanza perplessità anche Richard Haass su Foreign Affairs, che invita gli Alleati a «dare una definizione di successo prima che sia troppo tardi». L’enigma è il solito: siccome le armi sono uno strumento politico, quando s’imbracciano i fucili - o li si spedisce ai combattenti - bisogna aver presente un obiettivo strategico. Per ora, tragicamente oscurato dagli appelli di politici e stampa con l’elmetto e dal moralismo liberale con cui si cerca di nobilitare il nostro coinvolgimento nel conflitto. A proposito di politica e di strategia, l’ipotesi che andrebbe presto messa sul tavolo è quella di un «nuovo contenimento». Un approccio ispirato alla condotta americana durante la prima guerra fredda, elaborata dal diplomatico George Kennan. L’idea, applicata allo scenario ucraino, è piuttosto lineare: si tratterebbe di individuare un «baluardo», uno strongpoint, come lo definì John Lewis Gaddis nel suo dibattito con lo stesso Kennan. Attorno a quello, andrebbe disegnato il perimetro che a Mosca non sarebbe consentito valicare, pena «un’abile e vigile applicazione della controforza», per citare sempre lo studioso statunitense. Ma dove tracciare la linea? Uno spunto lo offre l’intervista di Dmitrij Suslov, pubblicata ieri sul Corriere della Sera. Il direttore del Centro di studi europei e internazionali di Mosca ha spiegato che Vladimir Putin non ha deciso se accontentarsi del Donbass o seguire la frangia massimalista della classe dirigente, la quale «non ha paura di una guerra protratta, non cerca alcun riconoscimento dell’Occidente, non pensa sia possibile abolire le sanzioni» e pretende la presa di Odessa. In tal modo, gli invasori sottrarrebbero all’Ucraina lo sbocco sul mare e stabilirebbero «una connessione diretta con la Transnistria, dove c’è anche un’altra popolazione russofona oppressa». Sarebbe la parziale realizzazione di ciò che paventa Volodymyr Zelensky, quando ammonisce: «La Russia vuole conquistare altri Paesi».È da qui che bisogna desumere le coordinate di un negoziato realistico. Da un lato, sarebbe irresponsabile corriere dietro ai nazionalisti ucraini, indisponibili a qualsiasi concessione territoriale. L’ha capito persino il falco Edward Luttwak: a Putin va offerta una via d’uscita praticabile. Dall’altro lato, tuttavia, non si deve lasciare a Mosca una posizione privilegiata, dalla quale essa possa minacciare ulteriori espansioni verso Ovest. Ecco perché la regione di Odessa sarebbe, se non lo strongpoint, almeno il cuscinetto per attuare una nuova strategia del contenimento. Cedere al Cremlino le aree fin qui occupate e la Crimea non altererebbe molto lo status quo: quelle zone non erano formalmente russe, ma di fatto non erano nemmeno controllate dal governo di Kiev. Soprattutto, un simile compromesso consentirebbe a tutti di cantare vittoria. L’Ucraina celebrerebbe il successo della propria resistenza e consoliderebbe il processo di nazionalizzazione; Putin non faticherebbe a vendere alla sua gente un successo, benché mutilato rispetto alle pretese iniziali; l’Occidente addomesticherebbe l’Orso e invierebbe un messaggio trasversale ai cinesi, in merito ai destini di Taiwan. Proprio ora che l’offensiva su Odessa si è intensificata, con i lanci di missili, diviene urgente rinvigorire le iniziative diplomatiche, facendo leva sull’entourage russo più dialogante. L’impresa non è impossibile: ad esempio, Sergej Lavrov s’è detto d’accordo con l’idea di individuare dei Paesi garanti della neutralità, ma anche della protezione dell’Ucraina. Un implicito riconoscimento della legittimità di un contenimento. Certo, la strada è in salita. Haass ha sottolineato che un trattato di pace, al momento, è una chimera e, nel breve periodo, ha individuato un obiettivo più contenuto: una «riduzione delle ostilità, con la Russia che non avrebbe in possesso più territorio di quello che controllava prima della recente invasione e che continuerebbe a evitare l’uso di armi di distruzione di massa». Sarebbe comunque difficile immaginare, nel Donbass, una tregua senza incidenti. Il fatto è che le alternative a una trattativa seria sono pessime. La prima è l’escalation. A parole, Washington e Bruxelles, intesa come Ue e come Nato, s’impegnano a impedirla. Dopodiché, ogni giorno il confine dell’azzardo si sposta un po’ più in là: siamo partiti dall’invio di armi per ridimensionare le aspirazioni di Putin e siamo approdati al proposito di sconfiggere lo zar sul terreno. Se il confronto Usa-Russia, per interposta Ucraina, non deve trasformarsi in guerra aperta, non aiutano affatto le ambiguità di Josep Borrell: sostenere «una delle parti, senza volerne far parte». Se questo è lo spirito, a separarci dall’abisso dello scontro totale con Mosca è solo la volontà del Cremlino di tenere fuori da una contesa dalla quale potrebbe ottenere, al massimo, la mutua distruzione. Pure la seconda prospettiva è deleteria. L’anglosfera punta a una guerra di logoramento, a un Vietnam che, invero, non danneggerebbe solo i russi. Sarebbe atroce in primis per gli ucraini, che continuerebbero a versare sangue senza la garanzia che, come è accaduto appunto in Vietnam e in Afghanistan, gli americani non levino le tende. Sarebbe pernicioso altresì per l’Occidente: un Putin alle corde potrebbe ricorrere ad armi non convenzionali. E se una débâcle ne determinasse la caduta, ciò non significherebbe per forza il ritorno al Cremlino di un fantoccio alla Boris Eltsin; allo zar potrebbe subentrare proprio quell’élite oltranzista di cui parlava Suslov al Corriere. Gli europei si ritroverebbero nel cuore del continente una grande potenza umiliata e imbevuta di revanchismo. L’ultima volta successe con la Germania. Non andò benissimo.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/loccidente-vuole-la-vittoria-ma-non-sa-qual-e-2657203098.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="di-maio-evoca-negoziati-ma-fa-il-falco-ce-la-guerra-economica-mondiale" data-post-id="2657203098" data-published-at="1650742640" data-use-pagination="False"> Di Maio evoca negoziati ma fa il falco: «C’è la guerra economica mondiale» Durante il suo intervento al congresso nazionale di Leu, il titolare della Farnesina Luigi Di Maio ha promesso: «Questi crimini, che abbiamo visto in Ucraina, non possono restare impuniti, i responsabili vanno perseguiti, portati di fronte alla giustizia, alle corti internazionali». Intenzione nobile ma che nasconde un problema che non può certo sfuggire al nostro ministro degli Esteri. Non occorre essere un luminare del diritto internazionale per sapere che lo statuto di Roma, grazie al quale la Corte penale internazionale è sorta, non è stato ratificato dalla Russia. La mancata ratifica permette a Mosca di non collaborare, dunque l’improbabile arresto di Vladimir Putin dovrebbe essere effettuato in un Paese straniero (che ha ratificato lo Statuto e su cui vige l’obbligo di collaborazione) durante una visita di Stato. Per rendere più credibile il suo proposito, nel corso del lungo intervento dal palco dell’auditorium Antoniarum di Roma, di fronte al collega Roberto Speranza, il ministro Di Maio ha annunciato: «Il governo italiano invia esperti per supportare la corte internazionale e per accertare i crimini di guerra e le violazioni del diritto internazionale. Sono esperti che potranno fornire assistenza alle autorità ucraine già nelle indagini». E ancora: «Un importante segno di solidarietà e sostegno coordinato dal nostro ambasciatore a Kiev, ora tornato, uno dei primi a tornare appena le condizioni di sicurezza lo hanno reso possibile». Dopo aver accantonato il tema giustizia, Di Maio ha proposto un’analisi geopolitica. «La guerra di Putin è di aggressione, ingiustificata e ingiustificabile, contro le norme di diritto internazionale, dobbiamo condannarla nei modi più fermi». Dunque, «ha creato un vulnus all’ordine internazionale». Al punto che «se guardiamo all’aumento dei prezzi, al caro energia e alla situazione del commercio internazionale la guerra in Ucraina è già una guerra mondiale. Lo è dal punto di vista economico». Quali sono i prossimi passi sullo scacchiere internazionale per cercare la cessazione del conflitto in corso? «La strada della diplomazia è in salita ma è l’unica soluzione che abbiamo. Non possiamo pensare di risolvere la crisi se non con la diplomazia e dobbiamo armarci di diplomazia». Peccato che poco dopo, con un barlume di realpolitik, Di Maio si lasci sfuggire: «Putin non sta dimostrando di volere la pace». Esclusi, dunque, i tavoli diplomatici (nonostante l’Italia abbia già ottenuto «il consenso di tutte e due le parti per essere garante dell’accordo su sicurezza e neutralità dell’Ucraina»), restano le armi. «Tutto il dibattito che in questo momento c’è» sull’invio di armi da parte dell’Italia all’Ucraina «riguarda ovviamente l’impegno che il Parlamento, nei limiti della risoluzione che ha approvato, ci ha dato circa un mese e mezzo fa». L’esponente del M5s ha la risposta pronta anche per chi gli domanda la sua posizione in merito all’ultima polemica: quella della possibile esclusione dei tennisti russi, sulla falsariga di quanto già fatto dagli organizzatori di Wimbledon, dagli imminenti Internazionali di Roma. «Noi ci adegueremo e ci coordineremo con tutti gli alleati. Perché l’obiettivo in questo momento è dimostrare l’unità dell’Unione Europea e di tutta la comunità internazionale che sta condannando la Russia per l’invasione dell’Ucraina».