2022-11-17
«L’Occidente bolla i nemici come virus in agguato o fascisti venuti dal passato»
Alessandro Colombo (Imagoeconomica)
Per il docente Alessandro Colombo, «ormai raccontiamo il mondo solo in modo ansiogeno. La guerra in Ucraina fa paura perché entrambe le parti hanno perdite: non ci eravamo abituati». Alessandro Colombo, professore di Relazioni internazionali all’Università di Milano, ha appena pubblicato per i tipi di Raffaello Cortina uno dei saggi più densi e rilevanti degli ultimi anni: Il governo mondiale dell’emergenza. Si può dire che sia, in estrema sintesi, un libro sull’evoluzione dell’ordine liberale che mostra come si sia passati dall’ottimismo della «fine della storia» all’inquietudine vissuta dall’Occidente che affronta un’emergenza dopo l’altra. Professore, iniziamo dall’abbattimento del muro di Berlino di cui giorni fa abbiamo ricordato l’anniversario. È in quei giorni del 1989 che il «nuovo ordine mondiale» inizia a dispiegarsi. Che visione del mondo si affermò in quel periodo? «Credo ci fosse una combinazione che allora parve fortunata, ma che probabilmente non lo è stata fino in fondo. Da un lato si è potuto beneficiare di una condizione permissiva senza precedenti: gli Stati Uniti e i loro alleati si sono trovati senza forze che potessero controbilanciarli nel sistema internazionale, una situazione totalmente anomala dal punto di vista storico. Per lungo tempo l’ordine internazionale era stato il prodotto di un equilibrio tra potenze che potevano essere due, come nella seconda metà del Novecento, o più di due come in precedenza. Per alcuni anni ci siamo invece ritrovati con un vincitore e i suoi alleati che non solo erano privi di competitori, ma ne erano anche pienamente consapevoli». Questa situazione anomala che cosa ha comportato? «Ha fatto sì che il cosiddetto nuovo ordine mondiale sia stato l’ultimo grande - fallimentare io credo - esperimento di ingegneria sociale del Novecento». Prima ce n’erano stati altri: i totalitarismi. «Il Novecento ci ha restituito una serie infinita di progetti di ingegneria sociale e la potenza vincitrice che aveva combattuto contro tutti questi progetti in nome dell’impossibilità dell’ingegneria sociale, una volta vinto, ha dato vita a quello che probabilmente è stato il più grande progetto di ricostruzione del mondo. Di questo si trattava. Il nuovo ordine mondiale era un progetto di riforma complessiva della convivenza internazionale, non era semplicemente un progetto di stabilizzazione internazionale dopo la guerra fredda. C’era proprio il tentativo di rifondare tutto partendo dalle radici, dal punto di vista politico, ideologico, istituzionale, dei linguaggi». Tutto ciò all’inizio fu vissuto con grande entusiasmo. « È stata la fase in cui studiosi, commentatori e politici hanno creduto che il XXI secolo sarebbe stato completamente diverso dal precedente, e non avrebbe visto conflitti significativi». È sembrato a un certo punto che gli Usa avessero le chiavi della storia e si è affermata l’idea che «non ci fosse alternativa» alla democrazia liberale, la quale ci avrebbe condotto - come scrisse Christopher Lasch - al paradiso in Terra. Era una visione religiosa, in qualche modo. E tutti coloro che non la accettavano erano descritti come «medievali» o incapaci di accettare la modernità. «Era e resta una visione religiosa. Lei ha citato il modo in cui abbiamo trattato la minaccia terroristica all’indomani dell’11 settembre. In quel contesto i terroristi venivano definiti come dei soggetti provenienti dal Medioevo. È lo stesso modo in cui, da alcuni anni, definiamo la Federazione Russa o la Cina. In particolare della Russia si dice che abbia una visione ottocentesca delle relazioni internazionali. L’Occidente si è appropriato del tempo e nel tempo storico c’è soltanto una modalità, un modo di stare nel mondo. Per cui tutti coloro che non adottano questa modalità devono per forza venire da un altro mondo, dal passato o comunque dai margini». Funziona così sul piano delle relazioni internazionali, ma anche all’interno delle democrazie liberali. Tendiamo a definire i movimenti antisistema o i contestatori come «medievali», oppure «fascisti». «Sì. Abbiamo questa idea di un fascismo totalmente anacronistico, ridotto a una caricatura, ma anche utilizzato come una clava. Questa concezione del fascismo ha fatto parte del linguaggio dei Paesi euroamericani. Non dimentichiamo che nell’epoca della guerra globale al terrore, per mobilitare la comunità internazionale contro il terrorismo islamico, si usava parlare di fascismo islamico. Oggi Putin viene rappresentato come una sorta di leader parafascista. È un uso molto rozzo della storia, ma ci dice molto di noi. In fondo continuiamo a vivere nell’orizzonte della fine della storia, e tutti coloro che non lo condividono devono per forza venire da qualche fase precedente, perché un dopo per definizione non esiste». Il paradiso in Terra però non si è realizzato. Anzi abbiamo la sensazione di vivere assediati, costantemente a rischio, minacciati da continue emergenze. «Questo ormai è il nostro modo di raccontare il mondo. Basta leggere i documenti pubblicati quest’anno dall’Ue, dalla Nato e dagli Usa: sono esplicitamente ansiogeni. Il fatto è che queste minacce non sono mai minacce tradizionali nel senso di un soggetto che si pone sul nostro stesso piano e che vuole cose diverse da noi. Queste minacce hanno sempre a che fare o con l’emergere di virus, in senso proprio (la pandemia) o metaforico (le false notizie, alcuni soggetti che consideriamo patologici). C’è sempre una sproporzione abissale tra il modo in cui rappresentiamo noi stessi e quello in cui rappresentiamo le nostre minacce e credo che ciò stia contribuendo molto alla goffaggine con cui queste minacce vere o presunte vengono gestite». In effetti siamo abituati a patologizzare il nemico. Soprattutto quello interno, di cui siamo sempre in cerca. Abbiamo avuto prima i no vax, poi i putiniani… E poiché il nemico interno è in agguato, allora bisogna esercitare sorveglianza costante. «C’è una iterazione continua della retorica dell’insicurezza e parallelamente assistiamo alla crescita di strumenti vari di sorveglianza, molto diversi da quelli del passato perché diffusi. Tale sorveglianza si estende a tutti i livelli, in tutti i nostri ambienti di lavoro. Succede anche nell’ambiente accademico, che vive di caccia alla patologia. E ovviamente nell’ambiente giornalistico: la grande stampa è sempre a caccia di soggetti che siano in collusione con la minaccia di turno. Putiniani, no vax… E prima ancora c’erano coloro che non erano sufficientemente entusiasti della guerra globale al terrore… C’è sempre questa idea di andare a caccia di un nemico interno che sta agendo da cavallo di troia del nemico esterno. C’è una mobilitazione permanente alla ricerca di questi soggetti, doppiamente infidi perché non fedeli e perché fanno il gioco del nemico, che può essere virale o politico (ad esempio le mitiche “autocrazie”)». Da una parte, si può dire che il nostro mondo sia davvero più insicuro rispetto al passato: aumentano i crimini, il disagio. Ma è pure vero che abbiamo una disabitudine totale al rischio, una componente che il liberalismo trionfante aveva promesso di eliminare. «Questo modello culturale aspira alla cancellazione totale del pericolo, del rischio. Lo viviamo come uno scandalo. Ma se vogliamo troppa sicurezza, quella sicurezza non l’avremo mai. Questa concezione influisce, ad esempio, sul mondo in cui stiamo raccontando la guerra in Ucraina. Gli Stati Uniti e i loro alleati sono ricorsi molto spesso all’uso della forza, ma le loro guerre sono sempre state considerate “a costo zero”, la nostra parte subiva perdite irrisorie. Una delle cose per noi inconcepibili, che ci rende quasi intollerabile quello che sta avvenendo in Ucraina è che questa sia una guerra in cui da entrambe le parti si hanno perdite, anche molto significative. È la brutalità della guerra, che fa della guerra una cosa seria. Dagli anni Novanta ci siamo abituati a parlare della guerra come se fosse una cosa poco seria, ma la guerra è esattamente quella che vediamo in Ucraina: non è a costo zero. E tutto sommato è un bene che sia così, perché una guerra a costo zero è una guerra a cui si ricorre in maniera totalmente irresponsabile, come spesso si è fatto». Non prendendo sul serio la guerra non prendiamo neanche in considerazione la pace, perché in fondo a noi non costa niente stare sul divano a dire «distruggiamo la Russia». «A tale riguardo si continua a citare un’espressione di Clausewitz, il quale era pienamente consapevole del legame fra la guerra, la pace e la politica. Egli diceva che in ogni guerra c’è un punto culminante della vittoria ed è quello oltre il quale tutto quello che facciamo è inutile o dannoso. Il punto culminante della vittoria è dettato dalla politica. La guerra non finisce quando facciamo schiantare il nemico, la guerra deve finire quando dal punto di vista politico andare oltre diventa irrazionale. Da come sento parlare certi leader della situazione in Ucraina, ho la sensazione che il rapporto tra guerra e politica sia saltato totalmente: la guerra non è più uno strumento politico bensì morale».
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