2020-12-18
L’Italia è pacifista a corrente alternata. Ripudia la guerra? Dipende contro chi...
L'articolo 11 sancisce un rifiuto tutt'altro che assoluto. Ogni iniziativa bellica può essere giustificata. Come ben sa la sinistra.«L'Italia ripudia la guerra». Questa è la perentoria affermazione con la quale si apre l'articolo 11 della Costituzione. Ad essa (e solo ad essa) fanno sistematicamente e rumorosamente richiamo, con alte strida, tutti i pacifistici a corrente alternata che abbondano nel campo della sinistra, ogni qual volta si profili una qualsiasi forma di partecipazione dell'Italia ad iniziative internazionali che comportino l'impiego della forza militare, sempre che, naturalmente, si tratti di iniziative promosse da governanti che siano, o si presumano, in una qualche misura, di destra. Così fu, ad esempio, in occasione della prima e della seconda delle due cosiddette guerre del Golfo, promosse dagli Stati Uniti sotto la presidenza, rispettivamente, dei due Bush, padre e figlio. La musica cambia completamente, però, quando le iniziative di carattere bellico siano promosse da governanti segnati dal crisma salvifico della sinistra. L'art. 11 della Costituzione, in tale ipotesi, viene, infatti, del tutto dimenticato, come si è potuto verificare, ad esempio, nel caso della cosiddetta «guerra umanitaria» del 1999, promossa dall'America del democratico e «progressista» presidente Bill Clinton (senza la benché minima copertura da parte dell'Onu), contro la Serbia, asseritamente colpevole di brutalizzare i poveri e indifesi abitanti della regione del Kosovo; guerra alla quale l'Italia, il cui governo era allora presieduto da Massimo D'Alema, partecipò attivamente con l'invio di aerei che, insieme a quelli americani e di altri Stati della Nato, effettuarono numerosi bombardamenti su Belgrado e altre città della Serbia, cagionando un cospicuo numero di vittime umane. Lo stesso avvenne quando, nel 2011, l'Italia diede il suo fattivo contributo alle operazioni militari che venivano condotte in Libia contro il regime di Gheddafi, su iniziativa congiunta del super democratico presidente americano Barack Obama (idolo della sinistra e premio Nobel per la pace) e del presidente francese Nicolas Sarkozy. Quest'ultimo era, in verità, considerato un esponente della destra, ma dal peso di tale peccato egli venne, nella circostanza, sgravato per effetto della grazia santificante che promanava dal suo collega d'oltreoceano. E si ricorderà che, nell'occasione, l'intervento dell'Italia fu soprattutto il risultato della pressione che sul governo, all'epoca presieduto da Silvio Berlusconi, fu esercitata dall'allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, proveniente dalle file dell'ex Partito comunista ed eletto con i voti della sinistra. Vi è da dire però che questo atteggiamento della sinistra, pur politicamente contraddittorio, non appare tuttavia in contrasto, sotto un profilo strettamente formale, con l'art. 11 della Costituzione, se lo si legge nella sua interezza. Esso, infatti, subito dopo l'affermazione riportata all'inizio, specifica che il «ripudio della guerra» è limitato al solo caso che la guerra sia intesa «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Si tratta, quindi, di un ripudio tutt'altro che assoluto, tanto è vero che, nell'implicito presupposto che non ricorra alcuna delle suddette ipotesi, gli articoli 78 e 87 della Costituzione prevedono espressamente, il primo, che le Camere possano deliberare «lo stato di guerra» e, il secondo, che il presidente della Repubblica lo dichiari, una volta che le Camere lo abbiano deliberato. Di qui la semplice e ovvia conseguenza che, quando non vi siano «controversie internazionali» (vale a dire contrapposte pretese di due Stati, l'uno nei confronti dell'altro, teoricamente suscettibili di arbitrato internazionale) e quando l'uso della forza militare sia volto (almeno secondo le dichiarate intenzioni) a difendere e non ad offendere la « libertà di altri popoli», la guerra diventa perfettamente legittima, se non anche doverosa. Il che è appunto quanto si sarebbe verificato, secondo la visione della sinistra, nei casi sopra ricordati degli interventi militari in Serbia ed in Libia mentre, secondo la stessa visione, non si sarebbe verificato nel caso delle due guerre del Golfo condotte contro l'Iraq di Saddam Hussein. Queste ultime, infatti, siccome non volute da governanti simpatici alla sinistra, sarebbero state da considerare, per ciò stesso, come «imperialistiche» e, quindi, vietate dall'art. 11 della Costituzione; opinione non condivisa, naturalmente, da quanti, muovendo da una diversa visione politica, legittimamente ritenevano, invece, che anche quelle guerre avessero come obiettivo la tutela di popoli la cui libertà era stata minacciata o, addirittura, soppressa dal dittatore iracheno e che la partecipazione a esse non fosse, quindi, in contrasto con la norma costituzionale. Allargando, però, a questo punto, il discorso al di là dei casi specifici sopra ricordati, dovrebbe apparire chiaro come, in realtà, non vi sia quasi alcuna iniziativa bellica che, volendo, non possa essere giustificata presentandola, più o meno plausibilmente, come finalizzata ad obiettivi non confliggenti con i divieti posti dall'art. 11 della Costituzione. E tra di essi non vi sarebbe che l'imbarazzo della scelta. Del resto, anche in passato, le iniziative belliche dell'Italia (in linea, peraltro, con la tradizione di tutto il mondo occidentale, fin dall'antichità), sono state quasi sempre sostenute da motivazioni che, in sé e per sé considerate, se fossero sottoposte oggi al vaglio del vigente precetto costituzionale, avrebbero anch'esse ottime possibilità di superarlo. Si pensi, tanto per fare un esempio (tra gli innumerevoli che sarebbero possibili), a quello che viene comunemente ritenuto come un caso tipico di guerra di aggressione, e cioè la guerra intrapresa dall'Italia fascista contro la Grecia, nell'ottobre del 1940. Ebbene, se si dà una scorsa ai giornali dell'epoca, si scopre che essa fu preceduta da una intensa compagna propagandistica dalla quale gli italiani, oltre ad apprendere con stupore l'esistenza dei fino ad allora pressoché sconosciuti Ciamurioti (popolazione di etnia albanese, ma il cui territorio era in larga parte ricompreso in quello della Grecia), ebbero anche notizia del fatto che gli stessi poveri Ciamurioti sarebbero stati oggetto di inenarrabili violenze e sopraffazioni da parte dei perfidi Greci. Di qui la rappresentata, urgente necessità, per l'Italia (essendo il Re d'Italia anche Re d'Albania), di accorrere con le armi in loro difesa, «spezzando le reni» alla Grecia. Si sa come poi la cosa andò a finire. Il bello (o il brutto) è che lo stesso sarebbe potuto avvenire anche se fosse stato allora vigente l'art. 11 della Costituzione, senza che per questo esso potesse dirsi formalmente violato. Sia consentito concludere, quindi, con un semplice e modesto consiglio: chi ama veramente la pace si guardi bene dal fare affidamento sul «ripudio della guerra» consacrato nella nostra Carta fondamentale; potrebbe andare incontro a cocenti delusioni.Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)