
È stato grazie a Giovanni «Nino» Benvenuti, morto ieri all’età di 87 anni, celebrato dal 2015 nella Walk of fame dello sport tricolore al Foro Italico di Roma, che noi boomer abbiamo scoperto la boxe. Quando c’era solo la Rai, prima con la radio e poi con la tv in bianco e nero. Benvenuti. Il nostro Cassius Clay. Una gragnuola di titoli. Campione olimpico dei pesi welter (1960). Campione mondiale superwelter (1965-66). Campione europeo pesi medi (1965-67). Campione mondiale stessa categoria (1967-70). E poi: nel 1967 protagonista del Fight of the year, incontro dell’anno, il primo dei suoi tre match con Emile Griffith. Nel 1968 Fighter of the year, combattente dell’anno. Nel 1969 vincitore del Round of the year, l’11°, quando stende con un ko lo sfidante Luis Manuel Rodriguez al Palaeur di Roma.
Così il Corriere della Sera del 24 novembre: «9.617 spettatori paganti, per un incasso di 94,662 milioni di lire. Tra i vip a bordo ring: Virna Lisi, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Giuliano Gemma, Marcello Mastroianni, Helenio Herrera». Nel 1970 sarà il match con l’argentino Carlos Monzon, che Benvenuti perse, a vincere di nuovo il titolo di Fight of the year.
Proprio con Monzon disputerà il suo ultimo incontro, nel 1971 a Montecarlo, per cercare di riprendersi il titolo di campione mondiale dei medi. Un duello passato alla storia per l’asciugamano scagliato sul ring dall’angolo dell’azzurro. Racconterà Benvenuti: «Doveva essere la rivincita, e invece fu la riperdita. Avevo 33 anni. Alla terza ripresa, se ricordo bene, presi un colpo dietro la nuca che mi mandò sulle ginocchia in avanti. Il mio manager Bruno Amaduzzi lanciò subito l’asciugamano sul ring; asciugamano, peraltro, che già aveva in mano fin dalla prima ripresa. Ma io stavo bene, e lo calciai via dal ring. Troppo tardi». Un’uscita di scena («ma aveva ragione Amaduzzi, che fu paterno e protettivo con me») che non deve oscurare la marcia trionfale compiuta nel decennio precedente, da quando Benvenuti si aggiudicò la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma, a 22 anni. All’epoca erano già 10 anni che tirava di boxe. Passionaccia che gli era stata trasmessa più dal nonno Francesco che dal padre Fernando, il quale, dopo qualche timido tentativo, aveva desistito. Senza tutta via impedire al figlio di provarci.
Benvenuti aveva così cominciato a 12 anni e mezzo nella cantina di casa, a Isola d’Istria, un paesino di 6.000 anime, italiano quando vi nacque lui, poi passato sotto l’amministrazione jugoslava nel 1954 (e definitivamente annesso con il trattato di Osimo nel 1975). «I primi pugni li ho dati a un sacco di iuta pieno di frumento che avevo appeso a una trave. M’ero messo anche un paio di calzettoni alle mani per non farmi male. E, in più, avevo steso delle corde intorno a delle colonne di cemento, costituendo non un quadrato, ma un triangolo. Quello fu il mio primo ring». Immagini, atmosfere, odori e sapori di altri tempi. Passato nemmeno un anno, ecco la prima vittoria: a 13 anni, anno 1951, contro un ragazzo di 16, con standing ovation del pubblico, e quel ragazzone di un metro e 79, di 74 chili («Col tempo non sono cambiato. Lo dico con una punta di civetteria. Quando mi chiedono come io faccia a mantenermi così, rispondo: mi sono scelto i genitori giusti», ah, la genetica), portato in trionfo sulle spalle. La carriera di Benvenuti toccherà il suo apice con il trittico realizzato con Griffith. Sconfitto a casa sua, in quell’incredibile cornice rappresentata dal Madison Square Garden di New York: «Una vittoria che mi spalancò le porte dell’universo».
Era il 1967, in Italia erano le 4 del mattino, Paolo Valenti faceva la radiocronaca, a seguirla: 20 milioni di italiani, così fu calcolato. «Ma anche sul posto c’era un incredibile tifo, di nostri connazionali lì emigrati ma anche di molti volati in America per sostenermi. Tanto che Griffith al termine mi disse: eri tu che giocavi in casa».
I due si scontrarono altre due volte. Nel secondo match, Benvenuti era demotivato e fu sconfitto, ma rimanendo in piedi: «Paradossalmente feci il mio più bel combattimento. Perché a un certo punto avevo la mano, la costola e il naso rotti». Nel terzo, fu lui a mandare al tappeto Griffith al nono round, e rivinse: «Per me fu l’apoteosi».
Benvenuti andò spesso controcorrente. Anche con coraggio. In uno sport considerato «da poveri», perché era il mezzo con cui i meno abbienti potevano riscattarsi grazie solo alla forza fisica, lui proveniva da una famiglia benestante, aveva fatto il ginnasio «e perciò non nutrivo rivalse. Il pugilato mi piaceva, semplicemente. Mi veniva naturale. Non mi costava fatica».
E a chi gli chiedeva: perché piace la boxe, che in fondo non è altro che violenza dell’uomo sull’uomo, lui replicava che nell’uomo è insita la paura: «Il pugilato rappresenta il coraggio di riconoscerla e di volerla sfidare con lealtà».
Lealtà, già. Una parola desueta. Questo spiega anche perché lui abbia mantenuto rapporti fraterni con gli avversari, «non puoi non diventare amico di un pugile con cui hai condiviso la bellezza di 45 round!».
A Griffith, padrino di cresima di Giuliano, uno dei suoi cinque figli, Benvenuti fu vicino quando, con uno spiazzante coming out, dichiarò la sua omosessualità, in un mondo certo meno sensibile di oggi alle prese di posizione Lgbt (e del resto, per la sua relazione extraconiugale con la donna che poi sarebbe diventata sua moglie in seconde nozze, Benvenuti si vide annullare l’udienza in Vaticano con Papa Paolo VI nel 1968). Volò in Argentina a trovare in carcere Monzon, condannato per aver ammazzato la sua terza moglie, per sincerarsi del suo stato di salute.
Sempre su sua iniziativa, ci fu la pace con Sandro Mazzinghi, che con lui aveva perso due incontri, di cui per decenni non aveva accettato il verdetto. Benvenuti e la sua famiglia furono scacciati da casa loro dai «titini» jugoslavi, il che spiega il suo dichiararsi «uomo di destra», animato da uno spirito «nazionalista» su cui Lotta continua, dopo la sua sconfitta con Monzon, infierì vergognosamente con uno dei suoi tanti «gioielli» giornalistici: «Niente di più facile che il Msi gli offra qualche posto di responsabilità in una squadra di picchiatori». Nel 2007, quando in un’intervista alla Gazzetta di Parma gli fu domandato: come vorrebbe che gli italiani ricordassero le sue imprese? Rispose: «Come molti mi dicono, quando ripensano al mio incontro di 40 anni fa con Griffith a New York: Nino, quella notte c’ero anch’io».






