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2023-04-09
«L’Isis è rinato e tornerà a colpire». Nel pentolone social ribolle il terrore
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Getty Images
Domenico sui social ha un soprannome: Mohammed al Itali. La foto del suo profilo è un talebano che sventola una bandiera con uno slogan arabo. E per l’immagine di copertina ha scelto una mappa delle storiche conquiste islamiche in Europa e in Africa. Il primo post è dedicato a una notizia: «L’Isis pubblica la foto di Luigi Di Maio con Antony Blinken e minaccia: Conquisteremo Roma». Adil, suo amico social, commenta: «Purtroppo hanno ragione. Roma verrà conquistata». E se Giovanna replica con un «poveri illusi», corredando il commento con delle faccine sorridenti, Adil è serio: «Ride bene chi ride ultimo». E chiude la conversazione. Domenico Mohammed si è convertito nel 2016: «È stata la mia rinascita», scrive, «ho capito che tutti gli uomini nascono musulmani e se vogliono raggiungere il paradiso devono tornare alla Vera Fede». Per lui «la donna del Paradiso» è totalmente coperta di nero. E ritiene il Covid «una punizione di Allah». Posta video sul giorno del giudizio e proclama: «L’Italia è il mio Paese e l’Islam è la mia anima». Fin qui la sua bacheca social sembra principalmente un luogo in cui Domenico racconta la sua esperienza con la nuova fede. Finché, andando indietro alla fine del 2021, si trova qualcosa di inquietante: «Aspetto la chiamata per difendere la legge di Dio dai miscredenti. Solo la sharia e niente altro». Un concetto che sembra un punto di comunione per una buona fetta della comunità islamista in Italia. Gli esperti di intelligence ma anche della materia religiosa stimano in oltre 4.000 i profili social di chi propaganda Maometto in chiave estrema, ma di certo sono molti di più. Molti di questi profili sono connessi direttamente. O tramite un altro profilo. E spesso sfuggono ai monitoraggi ufficiali. Domenico per esempio è in relazione con tale Sajida, un magrebino che vive in Italia e usa una tigre ruggente come foto del profilo. E tra gli amici di Sajida è possibile trovare Ahmad, triestino con un profilo particolarmente anonimo ma che un’agenzia d’intelligence israeliana che collabora con il Mossad ha inserito in un dossier sulla propaganda del Califfato in Italia. Nella ragnatela italiana è uno snodo importante Ahmad. È in relazione con tale Jibril, che vive a Lecce. La sua posizione la si intuisce già dal primo post: «La crisi del mondo moderno e forme di idolatria contemporanee in pochi fotogrammi». E da un pulpito, in abito tradizionale, il venerdì dispensa sermoni ai suoi seguaci. Tra i suoi amici c’è Radouane che ha ingaggiato una personale battaglia con i cinesi che discriminano chi frequenta le moschee. E si arriva a Sulayman, che propone corsi di alfabetizzazione di arabo online e che è presente nei gruppi Facebook Convertirsi all’Islam, La chiamata e Moslim, ambienti virtuali frequentati da diversi estremisti appartenenti alla rete italiana. Da Nord a Sud l’Italia sembra ormai piena di megafoni della propaganda estremista, soprattutto di quella salafita. Said vive a Ferrara: la sua foto di copertina è una mano con l’indice alzato verso il cielo, un simbolo usato da molti estremisti perché indica l’unicità di Dio. Scrive: «In testa a tutto c’è l’Islam, il suo pilastro è la preghiera, la sua sommità è il Jihad». Loredana, pugliese di origini, ora vive a Londra. È molto attiva nel sociale: promuove raccolte fondi per gli orfani palestinesi e dispensa preghiere per i combattenti caduti per la causa. Ma esalta anche le ricorrenze delle epiche battaglie vinte sul campo dal profeta Muhammad e dai suoi uomini. Altro profilo particolarmente interessante è quello di Boussaha, un algerino che scrive in italiano e che appare come molto legato alle teorie salafite. Fa riferimento alla «spada di Allah» e sulla questione femminile si presenta come un estremista, condannando chi vuole «che la donna musulmana sia come la donna occidentale». Anche Alfredo dalla Puglia ha ingaggiato la sua battaglia sulla donna musulmana, alla quale ha dedicato decine di post di questo tenore: «Le donne musulmane hanno diritto ad avere un uomo che le soddisfi sessualmente».
E ancora: c’è Sunnah, salafita pure lui. A proposito di chi ha festeggiato il Natale e il capodanno scrive: «Se pensano di averci fatto arrabbiare o di averci preso in giro sbagliano. Prendete in giro solo voi stessi». Ismael, invece, da Ancona ricorda a tutti i suoi amici che «l’Isis è rinato e sta tornando all’attacco». Pubblica notizie su Al Shabaab ancora in forze e sui foreign fighters italiani partiti per la Siria. Sumaya, invece, sulla foto del profilo ha impresso «io scelgo Pd». Parla ai suoi contatti della finanza islamica e su una foto dell’operazione antiterrorismo dopo la strage di Charlie Hebdo indica come terrorista il poliziotto francese e come musulmano il terrorista a terra. Sull’immagine, a scanso di equivoci, campeggia uno slogan di matrice islamista: «Nel caso ti sentissi confuso».
In Germania c’è l’allerta massima
Lo scorso 22 marzo è stato arrestato a Essen (Germania) il trentaduenne Asmael.K, richiedente asilo siriano che, dopo essere arrivato in Germania nel 2019 attraverso la rotta dei migranti del Mediterraneo, viveva sotto falso nome con i suoi fratelli nella città della Renania settentrionale-Vestfalia. L’uomo è stato riconosciuto da un rifugiato che ha avvisato le autorità tedesche che colui che si presentava come una vittima del regime di Bashar al-Assad in realtà era conosciuto a Raqqa (capitale siriana dell’Isis) come «Il boia dell’Isis» nelle cui fila era entrato fin dal 2013. L’uomo dopo essere stato interrogato è stato arrestato e portato in carcere in quanto «è fortemente sospettato di appartenere ad un’organizzazione terroristica all’estero». A 24 ore dal suo arresto il procuratore generale tedesco Peter Frank ha affermato durante una conferenza stampa che nelle scorse settimane sono state presentate accuse contro due sospetti islamisti accusati di aver pianificato attacchi per conto dell’Isis: «Erano in contatto con l’Isis-K, la branca locale dello Stato islamico particolarmente attiva in Afghanistan». Per il procuratore «il pericolo di attentati non è affatto scongiurato e lo mostra anche il numero delle minacce islamiste che superano ancora le 500 a livello nazionale», inoltre delle 451 nuove indagini dell’anno scorso, 236 erano legate al terrorismo islamista. A preoccupare le autorità di Berlino è il fatto che negli oltre 25 attentati sventati negli ultimi due anni, in almeno quattro occasioni gli attacchi erano stati pianificati oltre che con le bombe e le armi, anche con l’utilizzo di armi chimiche-batteriologiche e dei droni. Altro aspetto che preoccupa in Germania è la crescita di coloro che si definiscono «salafiti», ovvero coloro che appartengono a quella corrente di pensiero che predica la versione più estrema dell’Islam. Se è vero che la maggior parte dei salafiti che si rifanno all’esempio dei pii antenati non sono violenti, tutti i jihadisti - Osama bin Laden, Abu Bakr al-Baghadi- sono salafiti che hanno come figura di riferimento il teologo siriano Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328, e considerato un sostenitore della jihad e della necessità di applicare le norme della sharia. Nonostante la sconfitta militare dell’Isis il suo brand continua a fare proseliti soprattutto tra i giovani e i giovanissimi anche nel vecchio continente ed in particolare, oltre alla già citata Germania, in Austria, Francia, Belgio, Inghilterra, Italia, Svizzera, solo per elencare i Paesi più importanti. Le nuove leve europee del califfato si radicalizzano e fanno proseliti grazie ai social network come il francese Abu Adam al-Faransi che si definisce un soldato di Allah e che su Facebook pubblica video e immagini di propaganda al pari di altre migliaia di persone che si fanno ritrarre mentre imbracciano un mitragliatore oppure mentre condividono video e audio di propaganda dell’Isis. Lo stesso accade nei canali Telegram come Le Rappel profite au croyant (Il promemoria è utile al credente). Il fenomeno riguarda anche moltissime donne (spesso convertite) che a loro volta diffondono contenuti estremi e provano a coinvolgere altre donne. Ora le cellule del califfato dopo Twitter e Facebook sono sbarcate anche su TikTok dove è facile coinvolgere i giovanissimi affascinati dalla propaganda jihadista. Se è vero che la propaganda corre sul web, un ruolo fondamentale lo hanno i predicatori itineranti provenienti dai Balcani e dal Golfo Persico che talvolta arrivano con valige piene di contanti che servono poi a costruire moschee e centri islamici che nascono come funghi in tutta Europa. Tra i predicatori più irriducibili e pericolosi c’è senza dubbio il convertito belga Jean Louis Denis, classe 1974, già membro della disciolta organizzazione Sharia4Belgium, condannato nel 2016 a cinque anni di carcere perché colpevole di aver diffuso propaganda jihadista. Secondo la Corte ha indottrinato e reclutato giovani musulmani di Bruxelles per andare a combattere in Siria. Con lui sono falliti tutti i tentativi di de-radicalizzarlo e una volta uscito dal carcere ha ricominciato a girare per le strade e a diffondere l’odio religioso. Nel dicembre 2019 il sindaco di Molenbeek Catherine Moureaux ha pubblicato un’ordinanza di polizia che gli vieta di recarsi nel quartiere. Jean Louis Denis non si è certo perso d’animo e si trasferito a Londerzeel (Fiandre) dove vive la madre malata. Dato che non lavora come tutti gli estremisti islamici ha tutto il tempo di avvicinare giovani disperati attorno alle stazioni dei treni. Dopo qualche mese di silenzio nel febbraio 2023 Denis è stato arrestato per eccesso di velocità a Tourou (Benin) per poi essere immediatamente espulso dal Paese dal procuratore speciale del Tribunale per la repressione dei reati economici e del terrorismo (Criet). Presto sentiremo ancora parlare di lui.
«I social e la rete sono diventati il luogo ideale per creare proselitismo»
«Il profilo degli adepti è eterogeneo e va da arabi della new generation fino ad arrivare a italiani che per fragilità cercano risposte e rivincita sociale avvicinandosi a dottrine estreme», spiega alla Verità il professore Sergio Caruso, psicologo criminologo e direttore scientifico di un master in scienze forensi e criminologia. Caruso è un esperto di estremismo islamista e di recente, a Roma, ha curato la direzione scientifica di un convegno con esperti della polizia di Stato e del mondo accademico.
Ci sono dei segnali che permettono di riconoscere chi si sta radicalizzando?
«Di solito si presenta un'estrema modificazione delle abitudini e dell'aspetto fisico degli adepti. Uso questo termine comune agli ambienti settari, poiché i meccanismi sono simili. È un processo che avviene prevalentemente online, attraverso l'esposizione alla propaganda ideologica violenta promossa da reti estremiste. La radicalizzazione aumenta le probabilità che le persone a rischio sostengano il terrorismo e che possano persino commettere gravi atti criminali».
Sui social viene propagandata, anche da italiani convertiti, una visione del mondo sembra non trovare punti di contatto con l’Occidente.
«I social e la rete sono diventati i luoghi ideali per creare proselitismo e per far passare ogni genere di messaggio per il semplice fatto che ormai si vive più online che nella società reale».
La donna per esempio, soprattutto dai salafiti, come dimostrano alcuni post sui social che ha scoperto la Verità, viene ancora vista come l'esclusiva custode della famiglia. Veste di nero. È tutta coperta. Non le pare strano che anche degli italiani convertiti sposino questo modo di interpretare la condizione femminile?
«Il salafismo è un movimento che vuole un ritorno a un islam puro, scevro di modernizzazioni e simile a quello delle prime generazioni di musulmani vissuti ai tempi del profeta Mohammed. Anche in italia molte donne sono vittime di questo pensiero arcaico e fuori contesto, in cui la libertà di ogni culto è parallela alla libertà psico-fisica di chi lo pratica. Il problema non è indossare il burqa, ma è avere la libertà di toglierlo».
Dalla propaganda fino alle attività jihadiste, spesso anche le donne spesso hanno svolto un ruolo fondamentale.
«Alcune donne si sentono guerriere, martiri, che contribuiscono attivamente alle attività criminali e anche ad attentati, altre si occupano di fare rispettare i precetti più estremi, altre ancora si occupano di proselitismo e indottrinamento. Nel 2002 40 terroristi ceceni delle cosiddette Brigate islamiche sequestrarono 850 civili, in quel caso abbiamo conosciuto le donne con la cintura esplosiva. Donne letali e vendicative. Ci furono quasi 200 morti».
E poi c'è il caso di Maria Giulia Sergio, che criminologicamente appare particolarmente interessante.
«In Italia fece scalpore. Si era ribattezzata Fatima. Questa tecnica di brain washing in criminologia ha un nome ben preciso: depersonalizzazione. E serve a distruggere l'identità di un individuo. Fatima è una delle tante ragazze occidentali partite dall’Europa per unirsi all’Isis».
Dopo aver conosciuto quel mondo online.
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Le agenzie di intelligence preoccupate dall’attivismo di estremisti e convertiti: dal sogno di conquistare Roma al procacciamento di nuovi fedeli, sono 4.000 i profili monitorati. E c’è chi scrive: «Aspetto solo la chiamata...». Berlino teme che ci siano attacchi dopo l’arresto del «boia del Califfato», arrivato sulle rotte dei migranti del Mediterraneo. Per i pm il pericolo sono le armi chimiche.«Il profilo degli adepti è eterogeneo e va da arabi della new generation fino ad arrivare a italiani che per fragilità cercano risposte e rivincita sociale avvicinandosi a dottrine estreme», spiega alla Verità il professore Sergio Caruso, psicologo criminologo e direttore scientifico di un master in scienze forensi e criminologia.Lo speciale contiene tre articoli. Domenico sui social ha un soprannome: Mohammed al Itali. La foto del suo profilo è un talebano che sventola una bandiera con uno slogan arabo. E per l’immagine di copertina ha scelto una mappa delle storiche conquiste islamiche in Europa e in Africa. Il primo post è dedicato a una notizia: «L’Isis pubblica la foto di Luigi Di Maio con Antony Blinken e minaccia: Conquisteremo Roma». Adil, suo amico social, commenta: «Purtroppo hanno ragione. Roma verrà conquistata». E se Giovanna replica con un «poveri illusi», corredando il commento con delle faccine sorridenti, Adil è serio: «Ride bene chi ride ultimo». E chiude la conversazione. Domenico Mohammed si è convertito nel 2016: «È stata la mia rinascita», scrive, «ho capito che tutti gli uomini nascono musulmani e se vogliono raggiungere il paradiso devono tornare alla Vera Fede». Per lui «la donna del Paradiso» è totalmente coperta di nero. E ritiene il Covid «una punizione di Allah». Posta video sul giorno del giudizio e proclama: «L’Italia è il mio Paese e l’Islam è la mia anima». Fin qui la sua bacheca social sembra principalmente un luogo in cui Domenico racconta la sua esperienza con la nuova fede. Finché, andando indietro alla fine del 2021, si trova qualcosa di inquietante: «Aspetto la chiamata per difendere la legge di Dio dai miscredenti. Solo la sharia e niente altro». Un concetto che sembra un punto di comunione per una buona fetta della comunità islamista in Italia. Gli esperti di intelligence ma anche della materia religiosa stimano in oltre 4.000 i profili social di chi propaganda Maometto in chiave estrema, ma di certo sono molti di più. Molti di questi profili sono connessi direttamente. O tramite un altro profilo. E spesso sfuggono ai monitoraggi ufficiali. Domenico per esempio è in relazione con tale Sajida, un magrebino che vive in Italia e usa una tigre ruggente come foto del profilo. E tra gli amici di Sajida è possibile trovare Ahmad, triestino con un profilo particolarmente anonimo ma che un’agenzia d’intelligence israeliana che collabora con il Mossad ha inserito in un dossier sulla propaganda del Califfato in Italia. Nella ragnatela italiana è uno snodo importante Ahmad. È in relazione con tale Jibril, che vive a Lecce. La sua posizione la si intuisce già dal primo post: «La crisi del mondo moderno e forme di idolatria contemporanee in pochi fotogrammi». E da un pulpito, in abito tradizionale, il venerdì dispensa sermoni ai suoi seguaci. Tra i suoi amici c’è Radouane che ha ingaggiato una personale battaglia con i cinesi che discriminano chi frequenta le moschee. E si arriva a Sulayman, che propone corsi di alfabetizzazione di arabo online e che è presente nei gruppi Facebook Convertirsi all’Islam, La chiamata e Moslim, ambienti virtuali frequentati da diversi estremisti appartenenti alla rete italiana. Da Nord a Sud l’Italia sembra ormai piena di megafoni della propaganda estremista, soprattutto di quella salafita. Said vive a Ferrara: la sua foto di copertina è una mano con l’indice alzato verso il cielo, un simbolo usato da molti estremisti perché indica l’unicità di Dio. Scrive: «In testa a tutto c’è l’Islam, il suo pilastro è la preghiera, la sua sommità è il Jihad». Loredana, pugliese di origini, ora vive a Londra. È molto attiva nel sociale: promuove raccolte fondi per gli orfani palestinesi e dispensa preghiere per i combattenti caduti per la causa. Ma esalta anche le ricorrenze delle epiche battaglie vinte sul campo dal profeta Muhammad e dai suoi uomini. Altro profilo particolarmente interessante è quello di Boussaha, un algerino che scrive in italiano e che appare come molto legato alle teorie salafite. Fa riferimento alla «spada di Allah» e sulla questione femminile si presenta come un estremista, condannando chi vuole «che la donna musulmana sia come la donna occidentale». Anche Alfredo dalla Puglia ha ingaggiato la sua battaglia sulla donna musulmana, alla quale ha dedicato decine di post di questo tenore: «Le donne musulmane hanno diritto ad avere un uomo che le soddisfi sessualmente».E ancora: c’è Sunnah, salafita pure lui. A proposito di chi ha festeggiato il Natale e il capodanno scrive: «Se pensano di averci fatto arrabbiare o di averci preso in giro sbagliano. Prendete in giro solo voi stessi». Ismael, invece, da Ancona ricorda a tutti i suoi amici che «l’Isis è rinato e sta tornando all’attacco». Pubblica notizie su Al Shabaab ancora in forze e sui foreign fighters italiani partiti per la Siria. Sumaya, invece, sulla foto del profilo ha impresso «io scelgo Pd». Parla ai suoi contatti della finanza islamica e su una foto dell’operazione antiterrorismo dopo la strage di Charlie Hebdo indica come terrorista il poliziotto francese e come musulmano il terrorista a terra. Sull’immagine, a scanso di equivoci, campeggia uno slogan di matrice islamista: «Nel caso ti sentissi confuso».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lisis-rinato-tornera-a-colpire-2659758280.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-germania-ce-lallerta-massima" data-post-id="2659758280" data-published-at="1681027773" data-use-pagination="False"> In Germania c’è l’allerta massima Lo scorso 22 marzo è stato arrestato a Essen (Germania) il trentaduenne Asmael.K, richiedente asilo siriano che, dopo essere arrivato in Germania nel 2019 attraverso la rotta dei migranti del Mediterraneo, viveva sotto falso nome con i suoi fratelli nella città della Renania settentrionale-Vestfalia. L’uomo è stato riconosciuto da un rifugiato che ha avvisato le autorità tedesche che colui che si presentava come una vittima del regime di Bashar al-Assad in realtà era conosciuto a Raqqa (capitale siriana dell’Isis) come «Il boia dell’Isis» nelle cui fila era entrato fin dal 2013. L’uomo dopo essere stato interrogato è stato arrestato e portato in carcere in quanto «è fortemente sospettato di appartenere ad un’organizzazione terroristica all’estero». A 24 ore dal suo arresto il procuratore generale tedesco Peter Frank ha affermato durante una conferenza stampa che nelle scorse settimane sono state presentate accuse contro due sospetti islamisti accusati di aver pianificato attacchi per conto dell’Isis: «Erano in contatto con l’Isis-K, la branca locale dello Stato islamico particolarmente attiva in Afghanistan». Per il procuratore «il pericolo di attentati non è affatto scongiurato e lo mostra anche il numero delle minacce islamiste che superano ancora le 500 a livello nazionale», inoltre delle 451 nuove indagini dell’anno scorso, 236 erano legate al terrorismo islamista. A preoccupare le autorità di Berlino è il fatto che negli oltre 25 attentati sventati negli ultimi due anni, in almeno quattro occasioni gli attacchi erano stati pianificati oltre che con le bombe e le armi, anche con l’utilizzo di armi chimiche-batteriologiche e dei droni. Altro aspetto che preoccupa in Germania è la crescita di coloro che si definiscono «salafiti», ovvero coloro che appartengono a quella corrente di pensiero che predica la versione più estrema dell’Islam. Se è vero che la maggior parte dei salafiti che si rifanno all’esempio dei pii antenati non sono violenti, tutti i jihadisti - Osama bin Laden, Abu Bakr al-Baghadi- sono salafiti che hanno come figura di riferimento il teologo siriano Ibn Taymiyya, vissuto tra il 1263 e il 1328, e considerato un sostenitore della jihad e della necessità di applicare le norme della sharia. Nonostante la sconfitta militare dell’Isis il suo brand continua a fare proseliti soprattutto tra i giovani e i giovanissimi anche nel vecchio continente ed in particolare, oltre alla già citata Germania, in Austria, Francia, Belgio, Inghilterra, Italia, Svizzera, solo per elencare i Paesi più importanti. Le nuove leve europee del califfato si radicalizzano e fanno proseliti grazie ai social network come il francese Abu Adam al-Faransi che si definisce un soldato di Allah e che su Facebook pubblica video e immagini di propaganda al pari di altre migliaia di persone che si fanno ritrarre mentre imbracciano un mitragliatore oppure mentre condividono video e audio di propaganda dell’Isis. Lo stesso accade nei canali Telegram come Le Rappel profite au croyant (Il promemoria è utile al credente). Il fenomeno riguarda anche moltissime donne (spesso convertite) che a loro volta diffondono contenuti estremi e provano a coinvolgere altre donne. Ora le cellule del califfato dopo Twitter e Facebook sono sbarcate anche su TikTok dove è facile coinvolgere i giovanissimi affascinati dalla propaganda jihadista. Se è vero che la propaganda corre sul web, un ruolo fondamentale lo hanno i predicatori itineranti provenienti dai Balcani e dal Golfo Persico che talvolta arrivano con valige piene di contanti che servono poi a costruire moschee e centri islamici che nascono come funghi in tutta Europa. Tra i predicatori più irriducibili e pericolosi c’è senza dubbio il convertito belga Jean Louis Denis, classe 1974, già membro della disciolta organizzazione Sharia4Belgium, condannato nel 2016 a cinque anni di carcere perché colpevole di aver diffuso propaganda jihadista. Secondo la Corte ha indottrinato e reclutato giovani musulmani di Bruxelles per andare a combattere in Siria. Con lui sono falliti tutti i tentativi di de-radicalizzarlo e una volta uscito dal carcere ha ricominciato a girare per le strade e a diffondere l’odio religioso. Nel dicembre 2019 il sindaco di Molenbeek Catherine Moureaux ha pubblicato un’ordinanza di polizia che gli vieta di recarsi nel quartiere. Jean Louis Denis non si è certo perso d’animo e si trasferito a Londerzeel (Fiandre) dove vive la madre malata. Dato che non lavora come tutti gli estremisti islamici ha tutto il tempo di avvicinare giovani disperati attorno alle stazioni dei treni. Dopo qualche mese di silenzio nel febbraio 2023 Denis è stato arrestato per eccesso di velocità a Tourou (Benin) per poi essere immediatamente espulso dal Paese dal procuratore speciale del Tribunale per la repressione dei reati economici e del terrorismo (Criet). Presto sentiremo ancora parlare di lui. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lisis-rinato-tornera-a-colpire-2659758280.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="i-social-e-la-rete-sono-diventati-il-luogo-ideale-per-creare-proselitismo" data-post-id="2659758280" data-published-at="1681125747" data-use-pagination="False"> «I social e la rete sono diventati il luogo ideale per creare proselitismo» «Il profilo degli adepti è eterogeneo e va da arabi della new generation fino ad arrivare a italiani che per fragilità cercano risposte e rivincita sociale avvicinandosi a dottrine estreme», spiega alla Verità il professore Sergio Caruso, psicologo criminologo e direttore scientifico di un master in scienze forensi e criminologia. Caruso è un esperto di estremismo islamista e di recente, a Roma, ha curato la direzione scientifica di un convegno con esperti della polizia di Stato e del mondo accademico.Ci sono dei segnali che permettono di riconoscere chi si sta radicalizzando?«Di solito si presenta un'estrema modificazione delle abitudini e dell'aspetto fisico degli adepti. Uso questo termine comune agli ambienti settari, poiché i meccanismi sono simili. È un processo che avviene prevalentemente online, attraverso l'esposizione alla propaganda ideologica violenta promossa da reti estremiste. La radicalizzazione aumenta le probabilità che le persone a rischio sostengano il terrorismo e che possano persino commettere gravi atti criminali». Sui social viene propagandata, anche da italiani convertiti, una visione del mondo sembra non trovare punti di contatto con l’Occidente.«I social e la rete sono diventati i luoghi ideali per creare proselitismo e per far passare ogni genere di messaggio per il semplice fatto che ormai si vive più online che nella società reale». La donna per esempio, soprattutto dai salafiti, come dimostrano alcuni post sui social che ha scoperto la Verità, viene ancora vista come l'esclusiva custode della famiglia. Veste di nero. È tutta coperta. Non le pare strano che anche degli italiani convertiti sposino questo modo di interpretare la condizione femminile?«Il salafismo è un movimento che vuole un ritorno a un islam puro, scevro di modernizzazioni e simile a quello delle prime generazioni di musulmani vissuti ai tempi del profeta Mohammed. Anche in italia molte donne sono vittime di questo pensiero arcaico e fuori contesto, in cui la libertà di ogni culto è parallela alla libertà psico-fisica di chi lo pratica. Il problema non è indossare il burqa, ma è avere la libertà di toglierlo».Dalla propaganda fino alle attività jihadiste, spesso anche le donne spesso hanno svolto un ruolo fondamentale.«Alcune donne si sentono guerriere, martiri, che contribuiscono attivamente alle attività criminali e anche ad attentati, altre si occupano di fare rispettare i precetti più estremi, altre ancora si occupano di proselitismo e indottrinamento. Nel 2002 40 terroristi ceceni delle cosiddette Brigate islamiche sequestrarono 850 civili, in quel caso abbiamo conosciuto le donne con la cintura esplosiva. Donne letali e vendicative. Ci furono quasi 200 morti».E poi c'è il caso di Maria Giulia Sergio, che criminologicamente appare particolarmente interessante.«In Italia fece scalpore. Si era ribattezzata Fatima. Questa tecnica di brain washing in criminologia ha un nome ben preciso: depersonalizzazione. E serve a distruggere l'identità di un individuo. Fatima è una delle tante ragazze occidentali partite dall’Europa per unirsi all’Isis». Dopo aver conosciuto quel mondo online.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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