2023-01-07
L’inutile fissa dei 30 all’ora in città. Col (finto) green vessano gli autisti
La riduzione dei limiti di velocità è un dogma imposto dall’Onu nel nome della sicurezza e della sostenibilità In realtà, penalizza i nostri centri storici e non risolve, anzi può aggravare, il problema dell’inquinamento.Sarebbe ora di finirla con gli esempi farlocchi a proposito di traffico, urbanistica e ambientalismo che ci vengono propinati, spesso usando come modelli da imitare altre città. Non c’è settimana nella quale non si senta paragonare il «pessimo» traffico italiano con quello perfetto che esisterebbe in Danimarca, Svezia, Francia, Olanda, dove tutto sarebbe più ecologico e il comportamento dei cittadini esemplare e virtuoso, a cominciare dal fatto che essi pedalano più degli italiani. Peccato che, a ben guardare, ci si accorge che l’orografia di certe nazioni non presenta né Alpi, né Appennini, e men che meno tali Paesi hanno un numero di Comuni storici come il nostro, abbarbicati su cime e cucuzzoli, con strade antiche e tortuose spesso mai del tutto rinnovate. Inoltre, sovente i nostri centri abitati hanno un’urbanistica monocentrica (come Milano), dove per andare da una periferia all’altra si è costretti ad attraversare il centro oppure a girarci intorno. Si fa presto a dire «in Svezia», ma guarda caso si scorda che lassù vivono soltanto dieci milioni di persone in un territorio che è molto più esteso di quello italiano, e che le loro poche città principali sono costiere. Tra le stupidaggini degli ultimi anni, ma che fanno tendenza in Italia, c’è la mania dilagante di voler abbassare il limite di velocità cittadino a 30 chilometri l’ora. E di volerlo fare non soltanto in determinati quartieri iper urbanizzati, quelli da movida per intenderci, o magari laddove ci sono strade strette e tortuose - e avrebbe anche un senso farlo - ma su tutto il territorio, rallentando il flusso di veicoli anche sulle (ex) strade a scorrimento veloce, con la scusa della sicurezza. Pensando, erroneamente, che la velocità sia la causa di tutti i mali e che il pericolo d’incidente sia il maggiore disincentivo alla circolazione delle biciclette. Quando pare, invece, sia la consapevolezza di poter subire il furto del mezzo. Eppure, anche noi italiani, almeno quando ci sono le condizioni, sappiamo pedalare. Ferrara è da sempre una città «per ciclisti» ma non ci sono montagne da scalare; Varese è una delle capitali europee del ciclismo sportivo ma tra le sue castellanze ben pochi osano sfidare salite e discese per andare al lavoro. Il punto è che il green washing, come gli anglosassoni chiamano la tendenza a lavarsi la faccia per sembrare ecologici, ha contaminato anche organizzazioni internazionali come l’Onu e la mania dei 30 all’ora ha una data nascita precisa. Il 17 maggio 2021, durante la Sesta settimana globale della sicurezza stradale organizzata dalle Nazioni Unite, fu lanciata l’operazione «Strade per la vita #Love30», durante la quale, mostrando i risultati di studi un po’ misteriosi, venivano evidenziati presunti vantaggi delle strade urbane a bassa velocità, presentati «come cuore di ogni comunità». A cominciare dal fatto che secondo loro il tasso di sopravvivenza di un pedone investito a 50 e a 30 chilometri l’ora passerebbe dall’80 al 99%. Innegabile che, se auto e camion non ci fossero proprio, nessuno potrebbe essere investito. Ma la cronaca insegna che si muore anche se travolti da un adulto in monopattino. La settimana di #Love30 invitava i responsabili politici ad agire ponendo limiti a 30 all’ora «dove le persone vivono, lavorano e giocano». Dichiarando che le strade a bassa velocità renderebbero le città «sicure, sane, verdi e vivibili». In quella sede furono anche raccolti impegni precisi per riuscire nell’intento. E i nostri rappresentanti promisero divieti e limitazioni. Poco importa se a 30 all’ora un camion frigorifero che porta viveri ai ristoranti staziona il triplo del tempo in una stessa area aumentando - e non diminuendo - la concentrazione delle emissioni, e pace che chi pedala si trovi la pista ciclabile disegnata in piena carreggiata, tra pedoni disorientati, automobilisti arrabbiati e monopattini in equilibrio precario. Ecco dunque dove nascono le follie urbanistiche come l’interruzione dei rettilinei per costringere a frenare, la riduzione della larghezza delle carreggiate, l’installazione di autovelox, l’innalzamento dell’altezza e della larghezza dei marciapiedi. E anche gli spartitraffico in cemento, che al buio o con la nebbia fanno strage di motociclisti. Persino i dossi dissuasori, specialmente su strade strette, e presi ad alta velocità fanno letteralmente decollare le automobili. Sia chiaro: è giusto che la strada non sia soltanto un luogo ad appannaggio dei veicoli a motore e in particolare delle automobili, ma non è certo rendendo la vita impossibile ai conducenti che si risolve il problema, perché questi provvedimenti non stanno né dando i risultati sperati, né riportano i bambini a giocare per le strade. Inutile accanirsi, dovranno sempre esserci vie pedonalizzate ma anche viali a scorrimento veloce per coprire le distanze in tempi opportuni. Gli effetti li stiamo vedendo: a fronte di un inquinamento che non scende - se non lentamente negli anni, grazie a motori più ecologici - i centri delle nostre città stanno diventando centri commerciali senza più residenti, senza più negozi d’utilità (ferramenta, drogherie, calzolai) ma soltanto con marchi di moda globalizzati. E con tanti automobilisti arrabbiati. La mobilità personale è una delle maggiori conquiste della società moderna e bisogna difenderla rendendola compatibile con l’ambiente, non dichiarandole guerra. A cominciare dal dare maggiore importanza all’educazione stradale, senza rinunciare ai 50 chilometri all’ora.