
Inviato di guerra da quando erano le bombe della Nato a piombare sull’Europa, appena al di là dell’Adriatico, nella polveriera balcanica. Toni Capuozzo ragiona senza elmetto: critica l’invasione dell’Ucraina, perché «la guerra è una follia», ma sa anche che le radici di questo conflitto sono profonde. E che l’Occidente ha le sue responsabilità.
S’è parlato di avanzata lenta, difficoltà logistiche, ingenti perdite di uomini e mezzi. Davvero quella di Vladimir Putin è l’Armata rotta?
«Anche se spesso vengono evocati i fantasmi del passato - i Sudeti, Adolf Hitler - questa è una guerra del nostro tempo, in cui conta moltissimo l’immagine».
Che idea si è fatto, quindi?
«Che la macchina militare russa non abbia deliberatamente premuto sull’acceleratore, com’è accaduto in Siria. Radere al suolo Kiev non è conveniente per la Russia - e anche un governo fantoccio dovrebbe fare i conti con una popolazione che ha dimostrato di sapersi opporre all’invasore, persino a mani nude. Ecco, una simile resistenza era sicuramente inattesa».
Però i russi si sono trattenuti?
«Finora, l’unico scenario somigliante a una guerra totale è stato quello di Mariupol».
L’ispirazione neonazista di certe frange della resistenza ucraina, come il battaglione Azov, dovrebbe preoccuparci?
«Per certi versi, questa è una guerra tra opposti fascismi. Quanto ai gruppuscoli ucraini, più che il battaglione Azov, che pure avrebbe impedito ad alcuni profughi di lasciare Mariupol, trovo preoccupante la presenza di organizzazioni quali Centuria, che è trasversale a tutte le forze armate ucraine e le rifornisce di cadetti».
Cosa c’è di allarmante?
«Andate a cercare su Google “Centuria e Washington University”: c’è un lungo rapporto americano sulle infiltrazioni fasciste nelle forze armate ucraine. Non è controinformazione…».
La Stampa ha rimosso alcuni articoli sui neonazisti di Azov.
«C’è una specie di unanimismo forzoso. La chiamata alle armi psicologica dell’informazione è parallela alle accuse di filoputinismo, rivolte a chi non la pensa come i grandi giornali e buona parte della tv».
A cosa attribuisce questo atteggiamento?
«A un complesso di colpa. Ma se tu ritieni che in Ucraina siano in gioco la democrazia e le sorti dell’Europa, allora dovresti dire: no fly zone».
Scoppierebbe la terza guerra mondiale.
«Appunto. E siccome nessuno è disposto a combatterla, si fa un lavoro di retrovia».
Nell’informazione?
«Certo. Ad esempio, non racconti mai quello che è successo in questi otto anni nel Donbass. Porti avanti un’operazione di cosmesi».
Questa è una guerra social?
«È un fatto decisivo: hai la macchina della propaganda che si riversa su quelle piattaforme e da quei canali filtrano pure testimonianze dirette».
Come si fa a distinguere il vero dal falso?
«Io dubito di tutto. Però, facciamo un esempio: chi difende un centro abitato è quello più interessato a far sì che non tutti i civili lo abbandonino, perché dopo quella città può essere rasa al suolo».
Quindi, che militari o paramilitari ucraini abbiano impedito l’evacuazione di gruppi di civili è credibile?
«È credibile dal punto di vista logico. Le interviste ai profughi di Mariupol, che riferivano proprio questo, erano plausibili. Dopodiché, se non sei sul posto, non puoi saperlo con certezza».
Non per sminuire i colleghi al fronte - ieri è morto un reporter americano - ma in tanti indossano il giubbotto antiproiettile e poi si limitano a rilanciare le agenzie, o il materiale che circola sulle chat.
«È molto difficile fare quel lavoro. E stiamo pagando anche i tagli all’informazione: se per anni non mandi giornalisti a seguire i conflitti, quando poi i conflitti scoppiano sei costretto a spedire inviati che li vedono per la prima volta».
L’Italia ha fatto bene ad armare gli ucraini?
«No. Intanto, quelle armi non cambiano la sorte del conflitto. E poi ci siamo bruciati la possibilità di svolgere un ruolo di mediazione. Immagini se avessimo fatto anche di più con i profughi, senza però inviare le armi».
Mario Draghi è stato sempre escluso dai vertici di Emmanuel Macron e Olaf Scholz con il presidente russo. Idem, Ursula von der Leyen.
«Quando Draghi dice: “Non abbiamo mai visto l’Europa così unita”, in un certo senso ha ragione. Ma non l’abbiamo nemmeno mai vista così impotente. Unita nell’impotenza».
E le frasi di Luigi Di Maio su Putin che è peggio di un animale?
«Un disastro. Con che faccia gli potremmo chiedere di trattenersi dall’invadere Kiev? Ma allora ha ragione Volodymyr Zelensky: dovremmo mandare gli aerei all’Ucraina. Se ti metti l’elmetto, non puoi darti malato. Non puoi fare la guerra per procura».
Si rischia di fomentare una Aleppo nel cuore d’Europa?
«In realtà, un pezzetto di Siria in Europa lo stiamo già trasportando: anzitutto, i 16.000 dell’esercito di Bashar Al Assad, che si sono uniti ai russi. Ma dall’altra parte, ci sono americani che stanno reclutando miliziani di Idlib, appartenenti al fronte di Al Nusra».
Gli estremisti islamici?
«Esattamente. E in Iraq, si stanno cercando combattenti tra i sunniti - gli sciiti sono vicini all’Iran e simpatizzano per la Russia. Parliamo di soggetti che hanno fiancheggiato lo Stato islamico. Stiamo in parte riproponendo lo scenario del conflitto in Siria: i ribelli islamisti contro le truppe di Assad, che si fanno la guerra in Europa».
I russi dicono che chi trasporta gli armamenti sarà un obiettivo. Teme un’escalation?
«Se un convoglio che porta le armi venisse attaccato in territorio polacco, si rischierebbe di accendere una miccia. Ogni giorno in più di guerra significa che aumenta la possibilità di incidenti e di internazionalizzazione del conflitto».
Il pericolo, insomma, è che si protragga a lungo una guerriglia stile Siria o Afganistan?
«C’è il rischio che il conflitto s’incancrenisca. Non mi sorprenderebbe, ad esempio, se anziché sferrare l’attacco finale a Kiev, i russi disponessero una sorta di assedio medievale, guadagnando nel frattempo terreno a Sud. L’altro rischio, appunto, è che la guerra si allarghi».
E la guerra è scoppiata per colpa dell’espansione a Est della Nato, o perché Putin ha fantasie imperialiste?
«Ricordo un rapporto dell’ambasciatore americano a Mosca del 2008: osservava che la questione Ucraina avrebbe potuto spingere la Russia a diventare aggressiva. E non ci scordiamo le tre esercitazioni Nato dell’anno scorso, evidentemente volte ad appoggiare l’esercito ucraino nell’eventualità di una lotta contro i secessionisti filorussi».
In una di esse, si verificò anche una schermaglia tra navi russe e inglesi.
«È chiaro che Putin non è uno stinco di stanco, ma la politica della stessa Ucraina è stata piuttosto avventuriera. Se so che il mio vicino ha un pitbull, non cerco di saltare la sua siepe… Quello che sta avvenendo è la cronaca di un disastro annunciato».
Però in pochi si aspettavano veramente l’invasione.
«Un conto è che sbagliassimo noi; un altro è che sbagliasse Zelensky. Non si mette a rischio il proprio popolo».
Esiste un punto di caduta diplomatico?
«Non si può non tener conto di ciò che sta succedendo sul terreno. L’idea putiniana di un cambio di regime mi pare tramontata, ma lo è anche l’integrità territoriale dell’Ucraina. Non è possibile ripristinare lo status quo ante».
Non basterà la neutralità dell’Ucraina?
«Secondo me no. Quella ormai verrà da sé, anche perché la Nato non può associare nessuno che sia in stato di guerra. E, al netto di possibili cessate il fuoco, un vero e proprio trattato di pace mi pare lungi da venire».
In Italia siamo diventati preda della psicosi russofoba.
«Il primo obiettivo in una guerra è disumanizzare il nemico. È anche una grande ingiustizia nei confronti della difficile libertà di pensiero che cerca di esercitare una parte della Russia. Rischiamo di far compattare ancora di più il Paese attorno al leader. Pagheremo un prezzo molto alto».
In termini economici?
«Anche. Ho visto spesso alberghi pieni della classe media russa, non di soli oligarchi. Ma quel che voglio dire è che, esattamente com’è accaduto con la pandemia, non ne usciremo migliori».
Cioè?
«Al di là del pensiero di Putin, il nemico siamo andato a cercarcelo. L’ultima volta sono stato in Russia per i Mondiali del 2018: un clima festoso, non erano certo le Olimpiadi di Berlino del 1936. Associare Putin a Hitler è una forzatura evidente».
Il paradosso è che lui era uno dei più occidentalisti dell’élite russa.
«C’è un versante dei fascismi, quello di Aleksandr Dugin, che vede nella Russia una diga contro la globalizzazione, il bastione delle tradizioni. È il senso del discorso del patriarca Kirill contro l’Occidente corrotto e decadente. E Putin rappresentava un argine rispetto a questo modo di vedere il mondo. Anche se, in Europa, c’è una destra che guardava proprio alla Russia di Putin come l’ultimo baluardo contro il globalismo».
Tornerà la cortina di ferro?
«Quello che tornerà del passato è che l’Europa, come dopo la seconda guerra mondiale, sarà un continente accovacciato sotto l’ala protettiva degli Stati Uniti. Anche se, paradossalmente, Joe Biden mi sembra più risoluto nell’escludere una guerra contro la Russia. Noi europei siamo più vocianti».
Più bellicisti, nella retorica.
«Appunto: nella retorica. Poi bisogna vedere chi ha davvero voglia di imbracciare il fucile».





