2019-11-29
Da Librandi 800.000 euro a Open. E Renzi lo fece eleggere con il Pd
L'Espresso rivela i versamenti dell'imprenditore (ora in Iv) tra il 2017 e il 2018, quando Matteo Renzi lo candidò con successo alle politiche. Tra i benefattori pure lo stampatore Vittorio Farina.Avrebbe forse dovuto contare fino a dieci, Matteo Renzi, prima di firmare in diretta Facebook la querela contro il nostro giornale che ha raccontato com'è che da semplice senatore sia riuscito a diventare una macchina da soldi con un fatturato simile a quello di una piccola-media impresa. Avrebbe così scoperto che il filone investigativo, nato da una doppia segnalazione dell'antiriciclaggio di Bankitalia sui 700.000 euro che gli sono stati prestati dalla famiglia Maestrelli (e poi restituiti) per l'acquisto della super villa da 1,4 milioni di euro, riserva numerosi altri spunti. Come quello che - rivela L'Espresso - riguarda il più munifico finanziatore della fondazione Open. Un imprenditore di livello internazionale, che ha un piccolo impero nell'illuminazione, ora parlamentare di Iv. Ovvero, l'ex montiano Gianfranco Librandi che tra il febbraio 2017 e il giugno 2018 ha versato nei conti correnti della creatura renziana circa 800.000 euro attraverso due sue aziende, la Tci Telecomunicazioni Italia e la Tci elettromeccanica. A distanza siderale (300.000 euro) troviamo la famiglia Maestrelli e gli Aleotti, patron della industria farmaceutica Menarini, perquisiti, tre giorni fa, dalla Procura di Firenze ma non indagati. Un assegno da 100.000 euro è stato staccato anche da Vittorio Farina, magnate della stampa e già socio di Gigi Bisignani, mentre tre bonifici (160.000 euro) sono stati autorizzati dal Comitato basta un sì con la causale «restituzione finanziamento». Taglienti le considerazioni che si leggono nelle carte. Il sistema delle «erogazioni liberali», scrive la banca nella segnalazione di operazione sospetta, potrebbe essere «utilizzato anche in funzione di tramite, per interrompere la riconducibilità di somme di provenienza illecita agli effettivi titolari con finalità di riciclaggio, oppure il passaggio di denaro di cui illecita sia eventualmente la finalità corruttiva». Un rischio che, per gli investigatori, è ancor più stringente alla luce del fatto che la maggior parte dei finanziamenti ad Open «deriva da donazioni di imprenditori privati che, spesso, sono coinvolti in vicende giudiziarie legate ad illeciti di natura fiscale-finanziaria».Per giustificare il prestito e la sua restituzione, Renzi ha anche spiegato di aver venduto la villa di Pontassieve. In realtà il rogito, firmato nella locale sede della Banca di credito cooperativo, risale al maggio di quest'anno e ha portato nelle casse della famiglia dell'ex premier la bella somma di 830.000 euro stanziata da una famiglia del piccolo comune sulla riva destra dell'Arno. Anche in questo caso il fu Rottamatore ha dimostrato di avere fiuto per gli affari. Infatti aveva acquistato la casa nel 2004 al prezzo di 660.000 euro. La plusvalenza si deve anche alla capillare ristrutturazione effettuata dalla ditta dell'ex collaboratore Andrea Bacci. Ma non solo. «Il giardino, che nella perizia di stima del 2004 era di 900 metri, nel rogito del 2019 è diventato di 1000 metri, senza togliere spazio alla casa» ha notato carte alla mano il geometra Massimo D'Andrea. «L'ex premier è riuscito a capitalizzare anche in un periodo di grande crisi».L'Espresso spiega inoltre che, un mese e mezzo prima di vedersi accreditato il maxi-bonifico dai Maestrelli, Renzi ha ricevuto un prestito infruttifero da Marco Carrai, suo amico di vecchia data.E mentre quest'ultimo è all'estero per lavoro, tra Qatar e Parigi, il suo legale Filippo Ciai ha annunciato la presentazione della richiesta al tribunale del riesame di annullamento dei sequestri eseguiti a carico dell'imprenditore, già componente del Cda di Open, nell'ambito dell'inchiesta sulla fondazione. A Carrai sono stati portati via diversi cellulari, un tablet e un po' di documentazione.Un'inchiesta che procede blindata. Infatti in questi mesi non è ancora diventato di pubblico dominio nemmeno il decreto di perquisizione di settembre. Ma nell'ultimo, quello di martedì, sembra sia contenuta una ricostruzione minuziosa dell'inchiesta, necessaria per giustificare una seconda perquisizione (autorizzata dal gip) nei confronti di un avvocato di chiara fama come Alberto Bianchi. Ieri si è fatto sentire pure Luca Lotti: «Le ricostruzioni apparse oggi su alcuni quotidiani in merito alle spese sostenute dalla Fondazione Open sono inesatte e fuorvianti. Il quotidiano La Verità scrive addirittura che sono indagato, anche se questo non risulta né a me né ai miei legali. Come ho già spiegato ieri, non ci sono carte di credito o bancomat intestati a parlamentari e la Fondazione ha sempre agito nella totale correttezza. Nello specifico: per quanto riguarda la mia attività, esistono soltanto semplici e regolari indennizzi delle spese che ho sostenuto nello svolgimento del mio ruolo di membro del Cda della Fondazione Open. Tutto, ribadisco, si è sempre svolto nell'assoluta trasparenza, tutti i costi sono tracciati, dettagliati e messi nero su bianco, oltre ad essere indicati nei bilanci della Fondazione stessa e per questo vagliati dai sindaci revisori». La Guardia di finanza, martedì, ha perquisito anche l'ufficio del revisore dei conti della Open Marco Fazzini, nel cui studio è domiciliata anche la Digistar Srl, la società di comunicazione e consulenza di Renzi, aperta nel maggio del 2019, ma che risulta ancora inattiva. Nel lungo elenco di smentite bisogna ricordare anche quella dell'imprenditore Alfredo Romeo che, attraverso i suoi avvocati, ha ribadito che nessuna delle società che fanno capo a lui è stata coinvolta nelle attività di verifica e ispezione svolte dalla Guardia di finanza sui finanziamenti alla Open.
Manifestazione a Roma di Ultima Generazione (Ansa)