2020-01-15
L’eutanasia è la morte del diritto e della pietà
Il malato va consolato, non ucciso, perché ogni sofferenza può essere lenita se è condivisa con qualcuno disposto a farsene carico. Invece il suicidio assistito è la scorciatoia per rimanere indifferenti al bisogno altrui. Anziché curare, ci limitiamo a fornire il veleno.Per Natale ci hanno fatto uno strano regalo. Grazie alla sentenza Cappato, il suicidio assistito e l'eutanasia entrano neanche tanto in punta di piedi nel nostro ordinamento. Chiunque abbia la volontà di voler porre fine alle sue sofferenze dovrebbe avere il diritto di farlo. Detto così suona logico, in realtà ci sono due parole della frase che sono due trappole mortali. Nel senso letterale del termine. Una è la parola sofferenza, l'altra è la parola volontà. Sofferenza e dolore non sono sinonimi, il dolore è una sensazione fisica, mediata dal fascio spinotalamo corticale, e su cui si può intervenire, sempre; esiste una terapia del dolore ogni anno più completa e complessa. La sofferenza è invece mentale: la sofferenza per essere malati, o ciechi o menomati. La sofferenza può spingere a desiderare di morire anche una persona senza menomazioni fisiche. Le persone amate, che amano e che credono, tollerano meglio il dolore e possono risolvere la sofferenza. È un'informazione biochimica: amando, sentendosi amati e pregando si fabbricano endorfine che, oltre a potenziare il sistema immunitario, leniscono sia la sofferenza sia il dolore, come dimostrato dalle enormi statistiche dei neuropsichiatri Stephen Seligman e David Servan Schreiber. Lo pneumoncologo Enzo Soresi nel suo libro Il cervello anarchico riporta di aver personalmente osservato un fenomeno ben conosciuto: gli effetti benefici sul dolore della preghiera a distanza. Se non senti nessun amore forte su di te, se nessuno si batte per te, se non credi in Dio, la sofferenza può essere insopportabile.La parola sofferenza è una parola trappola perché dà l'impressione di qualcosa di stabile. La sofferenza può essere curata e lenita. O anche aumentata dall'indifferenza, dal ricordarti che sei un peso. Curare e lenire la sofferenza è difficile, richiede tempo ed energia, un tempo infinito che non lascia spazio a niente altro, un'energia smisurata che solo una persona con un forte equilibrio e a sua volta sostenuta può dare. Richiede competenze tecniche che non si improvvisano. Ho visto all'opera «lenitori» di sofferenza, ricordo i Comici Camici, bravissimi psicologi che travestii da clown consolano i bambini del reparto oncologico dell'Ospedale Bambin Gesù e i loro genitori, che mi spiegavano come la priorità sia, sempre, contenere la collera. Ho il rimpianto di essere stata una pessima figlia e un pessimo medico nell'agonia sia di mio padre sia di mia madre, lui morto di cancro al pancreas, lei di Sla, una paralisi progressiva totale. Non avevo equilibrio, in quel periodo ero ancora atea, gli atei sono degli scorticati, con i neurotrasmettitori a terra, cronicamente annegati nel vittimismo, non avevo le competenze tecniche per consolare un malato terminale, nessuno mi aveva spiegato che occorre ripetere innumerevoli volte al giorno che li amiamo e che la loro vita è un valore immenso ed ero troppo immersa nella disperazione per capirlo da sola. I discorsi sulla «sofferenza inutile», nell'ateismo la sofferenza è sempre inutile, i discorsi sulla «necessità logica» di evitarla sembrano logici, ma non c'è nessuna logica. Un malato deve essere consolato, non ucciso.L'altra parola trappola è la parola volontà. La volontà umana non è un monolite, ma un riflesso di luce sull'acqua, cambia di istante in istante, cambia a seconda di chi ci ha parlato come ben sanno i pubblicitari e gli esperti in propaganda politica. L'istinto di sopravvivenza è un istinto primario. Voler morire è sempre una scelta parziale, c'è sempre una parte di noi che urla «no, voglio vivere», che cerca disperatamente qualcuno che ci consoli, che ci dica: «La tua vita è preziosa, anche così, tu sei prezioso». Il paziente che dice «piuttosto che vivere così meglio morire», in realtà sta cercando qualcuno che migliori la sua vita, non qualcuno che prenda la dichiarazione alla lettera.Nel tragitto che il signor Marco Cappato e il signor Fabiano Antoniani hanno fatto insieme fino alla cosiddetta clinica in Svizzera, in realtà uno squallidissimo appartamento, Cappato ha detto al signor Antoniani che lo amava, che la sua vita era preziosa? Chiunque abbia seguito pazienti terminali, il signor Antoniani non lo era, o anche pazienti cronici e pazienti gravi, sa che quando un paziente dice «voglio morire», in linguaggio cifrato vuol dire: «Vi prego consolatemi, fatemi sentire amato». Il signor Antoniani in seguito a un pauroso incidente stradale era diventato cieco e tetraplegico. Se mi trovassi nella stessa situazione continuerei ad amare la vita e continuerei a voler vivere, quindi non mi sembra né logico né inevitabile che il signor Fabiano desiderasse morire. Il signor Cappato ha ricordato al signor Antoniani tutto quello che si può fare anche in condizioni di cecità e di tetraplegia? Si può amare, si può essere amati, si può meditare, si può pregare, si può cercare Dio e Lo si può trovare, anzi in condizioni così estreme è molto più facile trovarlo. Si può pensare la Divina Commedia e, sia pure con lenta e infinita fatica, la si può dettare. Si può continuare ad amare la musica, la si può ascoltare e si potrebbe, scrivere musica. Nelle sue ultime ore di vita, il signor Fabiano è stato in presenza di qualcuno che lo ha consolato? Nessuno si faccia illusioni. Finiti i discorsi aulici, dopo le parole autodeterminazione e libertà, ci sono i quattrini, l'infinito fiume di quattrini che si risparmieranno se le vite dei malati cronici verranno soppresse. È necessario un fiume di solidarietà umana e di umana simpatia per riempire di serenità anche le vite dei malati cronici, sono necessari specialisti, terapisti, insegnanti: una fiala endovena è molto più semplice e dannatamente più economica.In tutti i paesi dove il suicidio assistito è permesso, si è scivolati con simpatia e rapidità all'eutanasia del non consenziente, nel giro massimo di una decina di anni, come è ovvio che sia.Per tutti noi che nei prossimi mesi, anzi nei prossimi anni, scenderemo in campo per difendere il diritto di non essere ammazzati, è fondamentale conoscere linee teoriche di legge. Il libro Il diritto di essere uccisi: verso la morte del diritto a cura del professore Mauro Ronco si pone, a tutti gli effetti, come un vero e proprio strumento utile per superare con argomenti solidi e ben motivati le suggestioni e i condizionamenti che da più parti occupano i commenti e le riflessioni su un tema così delicato.«La dolorosa questione dell'eutanasia è uno degli ambiti nei quali chi giudica deve essere ben consapevole dei propri limiti, e deve essere capace di superare suggestioni condizionamenti emotivi e mediatici»: sin dalla presentazione a cura del dottor Alfredo Mantovano, vice presidente del centro studi Rosario Livatino, è chiaro l'intento del ponderoso volume, perché noi siamo immersi in condizionamenti emotivi e mediatici, e tutta questa infernale macchina si muove su condizionamenti emotivi e mediatici, in un campo dove è necessario al contrario essere lucidi. L'eutanasia nazista ha aperto la porta al genocidio. La porta all'eutanasia è stata aperta dal suicidio assistito. Il suicidio assistito era propagandato da un filmetto, Io accuso, dove una donna malata di una forma iniziale di un Alzheimer pretendeva la morte e accusava lo stato che gliela negava. Il principio da cui muovere, come suggerito dall'intervento del professor Antonio Ruggeri che introduce l'intera opera, è quello secondo il quale ogni persona, per il mero fatto di essere tale, concorre al progresso materiale o spirituale della società. Nelle necropoli dell'età della pietra troviamo scheletri che denunciano patologie gravissime e croniche, e quindi la tenerezza infinita dell'accudimento. La ruota è probabilmente stata inventata dal padre di un figlio incapace di camminare. Dove le persone fragili e deboli sono soppresse, la civiltà si ferma. Una volta saltata la diga della sacralità della vita, tutto può essere travolto. La ricerca medica si fermerà. Perché curare le demenze, le paralisi, la cecità?Ogni vita umana, in altre parole, è una risorsa «preziosa e imperdibile» per l'intera umanità. Una risorsa che ci permetterà di inventare la ruota, oppure più modestamente l'idromassaggio (fu inventato da un idraulico, il signor Candido Jacuzzi, per stimolare il figlio cerebroleso) e insegnerà a noi «forti» la tenerezza e la pazienza. Il volume può dirsi anche coraggioso, affrontando il tema della «dignità» della persona e chiarendo tra i tanti aspetti, un comune duplice errore: la dignità della persona, innanzitutto, non si risolve interamente nella autodeterminazione del soggetto. La dignità è intrinseca a ogni essere umano.In secondo luogo, non è accettabile confondere il concetto di dignità con il differente concetto di qualità della vita. La qualità della vita è un concetto che non tiene conto della capacità principe della creatura umana: l'adattabilità. All'interno di un corpo malato la mente e l'anima si adattano in nuovi equilibri, che sono incomprensibili a chi guarda da fuori, rinchiuso nel proprio pregiudizio che nessuna gioia sia possibile. È stato usato l'urlo di dolore di un uomo disperato, Fabiano, per affermare la menzogna che esistono situazioni dove solo la disperazione è possibile. Nel corso dell'opera si rinvengono necessarie critiche ed alcune puntuali riflessioni in ordine alla Legge 219 del 2017, ovvero normativa italiana in tema di Dat.Nel volume sono proposte precise osservazioni relative alla tecnica decisoria adottata dalla Corte Costituzionale, completando e rendendo organico un lavoro sul tema del fine vita avviato da tempo dal Centro Studi Rosario Livatino, con numerosi workshop e, nondimeno, con l'atto di intervento nel giudizio costituzionale nel quale è stata emessa l'ordinanza numero 207.L'opera, grazie anche ai contributi, tra gli altri, del dottor Giacomo Rocchi e del professor Luigi Cornacchia, non si limita alla mera lettura, se pur accompagnata dal richiamo ermeneutico delle Corti nazionali e delle Corti europee, delle norme interessate e della verifica della loro adeguatezza rispetto a pretese innovazioni sanitarie. Viene, infatti, proposta una ricerca delle radici ideologiche della disponibilità della vita umana e della cosiddetta autodeterminazione: si ricostruisce in questo modo il filo ideologico e, in senso lato, culturale, che lega il darwinismo ottocentesco, l'eugenismo del XX secolo, alla base di regimi e prassi totalitari, e l'attuale collocazione dei confini alla vita alla stregua di una pretesa «qualità» della vita stessa. Il libro è utile per giornalisti e giuristi, ma soprattutto per uomini politici. Nessuno si faccia illusioni: una volta abbattuta la sacralità della vita, la strada è in discesa. Curare è più complesso e più caro che accompagnare gentilmente alla morte, con personale sorridente in stanze deliziosamente tinte pastello. E l'uomo che impedisce a una suicida il suo gesto abbracciandola sarà condannato per intralcio all'autodeterminazione. Un ringraziamento al professor Ronco per questo volume.
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