Davide Rondoni, lei sta con Marcello Veneziani o con il ministro della Cultura, Alessandro Giuli?
«Io sto con Davide Rondoni. Sono amico di Veneziani e anche di Giuli, così come ho tanti amici in ambienti culturali diversi dal mio perché ritengo la capacità di amicizia, che non coincide con il consenso, uno degli insegnamenti più preziosi».
Tornando a Veneziani e Giuli?
«Credo che Veneziani abbia il diritto di criticare, ma forse da un intellettuale mi aspetterei anche delle proposte. Perciò posso capire che di fronte a una critica senza appello il ministro abbia mostrato le unghie».
Ha torto Veneziani quando dice che con il governo Meloni per gli italiani è cambiato poco o nulla?
«Bisogna vedere quanto è largo il campo di osservazione. Per esempio, la posizione dell’Italia in Europa è più forte di prima e questo rappresenta una speranza per un’Europa altrimenti votata al fallimento. Poi mi pare che iniziative importanti siano state prese nel campo della lotta alle dipendenze e nell’attenzione ad alcune esigenze del ceto medio. Certo, occorre fare di più per incentivare i giovani che sono la vera questione dell’Italia di oggi. Su questo punto mi aspetto delle proposte. Soprattutto, confido in alcuni radicali cambiamenti della scuola e dell’università. Anche su questo l’iniziativa degli intellettuali sarebbe opportuna».
Veneziani esorta a dire e fare qualcosa di destra come, in campo opposto, Nanni Moretti invitava D’Alema a dire qualcosa di sinistra?
«Non credo che Veneziani sia così banale, credo che voglia spronare a un’accelerazione. Poi, insisto, non esiste una cultura di destra e una di sinistra».
Il fatto di appartenere alla stessa area elimina il diritto di critica?
«Intanto bisogna capire che cos’è un’area culturale. Esistono aree politiche in cui convivono culture molto diverse».
All’interno della destra ci sono culture differenti?
«Ovviamente. Ma noi analizziamo sempre la cultura dal punto di vista della politica, come se la cultura si compisse nella politica. Mentre invece è il senso critico nei confronti dell’esistenza. Per esempio, ci sono culture che riconoscono il trascendente e culture che non lo riconoscono. Oppure culture che vedono nello Stato il massimo livello della vita pubblica e altre no».
La critica di un intellettuale o quella di un giornale d’area possono essere fonte di arricchimento?
«Se sono intelligenti, certamente».
Come ha trovato la replica del ministro Alessandro Giuli?
«Giuli è un uomo che ama il gesto elegante».
Ottimo eufemismo.
«Ama i gesti un po’ esagerati che appartengono alla sua estetica. Quindi capisco che abbia voluto fare un gesto del genere in risposta a una critica assoluta e, per alcune cose che sta realizzando, un po’ ingenerosa».
Sarebbe stato un segnale di maturità raccogliere la provocazione e invitare Veneziani a suggerire delle riforme o delle iniziative soddisfacenti?
«Non siamo di fronte a due bambini, quindi è inutile dettare il manuale di comportamento».
Ha ragione Franco Cardini quando dice che non ci sono più i Giuseppe Berto e gli Alfredo Cattabiani e il livello intellettuale della destra è crollato?
«Non so a quale perimetro si riferisce Cardini. Come ho già detto non considero destra e sinistra come campi culturali, ma come campi politici. All’amico Cardini dico di stare attenti a non incorrere nel rischio che molti anziani hanno di idealizzare i tempi della loro giovinezza».
È inevitabile che dopo decenni di egemonia della sinistra un cambio di orientamento radicale comporti assestamenti e contraccolpi anche nell’area culturale di riferimento?
«Se ci fosse stata l’egemonia culturale di sinistra non ci sarebbe stato Berlusconi al governo per vent’anni e non ci sarebbe Giorgia Meloni adesso. C’era forse una maggiore organizzazione degli apparati, ma questo non è cultura».
La maggioranza silenziosa esisteva e non aveva voce se non al momento del voto.
«Alessandro Manzoni ci insegna che il succo della storia lo tirano Renzo e Lucia, due ragazzi del popolo, e non i direttori dei giornali. Questo è un avvertimento su ciò che consideriamo cultura. Penso che mia nonna Peppa fosse molto più intelligente sulla vita di tanti blasonati editorialisti di giornale».
Che opinione ha dell’ultimo raduno di Atreju?
«Non c’ero mai stato prima e quest’anno sono andato perché mi hanno invitato per una conferenza. Non mi permetto di dare giudizi assoluti, mi è parsa una manifestazione popolare».
Giordano Bruno Guerri dice che Meloni preferisce una squadra compatta «con una fede enorme nel silenzio assertivo». Per questo, davanti a una critica il ministro ha reagito in modo così duro?
«Mi sembra offensivo pensare che ci siano intellettuali che prediligono il silenzio assertivo. Faccio un esempio: all’ultima conferenza nazionale sulle dipendenze, Giorgia Meloni ha concluso il suo intervento citando un mio articolo in cui spronavo il governo a fare di più per i giovani».
Che cosa propone per i giovani?
«Constato un paradosso: i nostri giovani sono competitivi e vincenti in tutti gli sport, ma poi sembra che per lavorare a certi livelli debbano andare all’estero. Cioè: abbiamo ragazzi bravi, ma non li facciamo correre. Perciò, avanzo due proposte scomode. La prima: rivedere gli ordini professionali perché favoriscano i giovani invece di rallentarli. La seconda: togliere il valore legale al titolo di studio».
Con quale obiettivo?
«Riconoscere l’energia dei nostri ragazzi e non mortificarli. Invito Giuli, Veneziani e Cardini a unirsi in questa battaglia per una giovane Italia».
La Rai è il test del cambiamento prodotto da un governo: qual è il suo giudizio sulla Rai attuale?
«Mi pare di vedere qualche fiction di buona qualità ed esperimenti interessanti di nuovi programmi. Poi preferisco parlare di poesia più che di televisione».