2021-03-22
Letta usa la scusa delle quote rosa per fare le purghe. E il Pd si ribella
Il neosegretario dem dice di volere capigruppo donna, in modo da liberarsi di Andrea Marcucci. In Europa però fa l'esatto contrarioDa rottamato a rottamatore, Enrico Letta sembra aver accettato l'incarico di segretario del Pd solo per avere il modo di regolare i suoi conti personali. Sette anni dopo essere stato fatto fuori da Matteo Renzi, che lo sostituì a Palazzo Chigi, Letta muove i primi passi da leader dem in una unica direzione: vendicarsi dello «stai sereno» dell'epoca e fare fuori dai posti di comando del partito tutti i renziani, confluiti nella corrente «Base riformista» guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti. Poco importa se per portare a termine il suo disegno, Letta fa esplodere la rabbia nel partito e si espone a vere e proprie figuracce, come quella rappresentata dal tentativo di mascherare l'epurazione di Graziano Delrio e Andrea Marcucci, capigruppo pd alla Camera e al Senato, con una operazione nel segno della parità di genere. «La guida del Pd», ha twittato ieri Letta pubblicando uno stralcio della sua intervista al Tirreno, «è tutta al maschile. Ho detto domenica che non va, lo ripeto. Ai gruppi di Camera e Senato suggerisco che dopo tre anni di guida maschile, gli ultimi due siano a guida femminile. I gruppi sono autonomi, a loro di scegliere con chi». Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo, il nipote di zio Gianni: la sua ipocrisia è pari solo alla sete di rivalsa cresciuta nel settennato di esilio. Altro che necessità di valorizzare le donne, altro che parità di genere: il problema di Delrio e Marcucci è uno solo, e si chiama Renzi, visto che il primo è considerato un nostalgico, seppure moderato, di Matteo, mentre il secondo è ancora un fedelissimo del leader di Italia viva in servizio permanente effettivo. Suscita ilarità più che stupore, la spiegazione di Letta al Tirreno: «Non posso immaginare che nel nostro partito», dichiara il segretario dem, «ci siano solo volti maschili al vertice. Non possiamo essere quelli con uomini al comando e donne vice, quando va bene. Servono leadership mischiate, specie adesso che in Europa ci sono Angela Merkel, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde». In sostanza, Delrio e Marcucci devono essere sostituiti non per demeriti o incapacità, ma per colpa della Merkel, della von der Leyen e della Lagarde. La mossa di Letta fa diventare incandescente l'atmosfera nel partito, e non manca chi pensa a trasformare l'elezione dei nuovi capigruppo in una «conta» per confermare Delrio e Marcucci, dando una spallata terribile al neosegretario. Difficile si arrivi a tanto, ma certamente tra i parlamentari del Pd il sentimento prevalente è quello dello sconcerto, per il merito della vicenda e per il metodo utilizzato da Letta. Salvatore Margiotta, senatore dem ed esponente di Base riformista, la corrente degli ex (?) renziani alla quale appartiene Marcucci, esce allo scoperto e sbugiarda il segretario: «Mi sfugge il nome», twitta Margiotta, «della donna del Pd eletta capogruppo al Parlamento europeo al posto di Benifei». Il riferimento è alla rielezione del capodelegazione del Pd al Parlamento europeo, Brando Benifei, riconfermato all'unanimità venerdì scorso dopo aver rimesso formalmente il suo mandato, dopo l'approdo di Letta alla segreteria del partito. Benifei non è una donna ma soprattutto è tutt'altro che renziano: subito dopo il megaflop elettorale del marzo 2018 attaccò l'allora segretario del Pd parlando della necessità di «archiviare la stagione dei vuoti plebisciti e degli uomini soli al comando». La domenica dei dem ha un altro momento di (involontaria?) comicità, stavolta tutto merito di quello statista che risponde al nome di Giuseppe Provenzano, vicesegretario del Pd: «Non posso dirmi amico di Letta», dice l'ex ministro per il Sud a Mezz'ora in più su Rai 3, «però lo sono di sua mamma, che lavorava nell'università dove studiavo. Quando si stava decidendo il cambio mi ha detto: dobbiamo dare una mano a Enrico. E io non mi sono sottratto». La mamma di Letta, la signora Anna, che convince il giovane Peppino, in realtà nominato vicesegretario in quanto espressione della corrente che fa capo ad Andrea Orlando, ad accettare, immaginiamo con quanto tormento interiore, la carica: siamo a livelli tali di propagandismo da rimanere sinceramente sconcertati. Così come sconcertati restano praticamente tutti gli esponenti del Pd leggendo l'intervista dell'altra vice Letta, Irene Tinagli: «Negli ultimi due anni», spiega la Tinagli alla Stampa, «il Pd è rimasto vittima di sé stesso, in una dinamica molto romana che porta a guardarsi l'ombelico». Furibonda la reazione nel partito: «Cara Irene Tinagli», ribatte a muso duro Stefano Vaccari, responsabile organizzazione della segreteria del Pd, «forse è il caso che prima di parlare sullo stato del partito alzi il telefono e ti informi su ciò che è stato fatto in questi due anni, anche per rispetto dei nostri dirigenti e militanti che sul territorio lo hanno rimesso in piedi. Non partiamo da zero oggi». «Ma la Tinagli», rincara la dose Enzo Foschi, vicesegretario del Pd del Lazio, «che dice che in questi due anni il Pd si è guardato l'ombelico è la stessa che ora è parlamentare europea grazie al fatto che abbiamo vinto le elezioni con una lista aperta e che lei apprezzava tantissimo? Smettiamola di farci del male». Certo che è la stessa, ed è anche la stessa che afferma che la sua nomina a numero due del Pd è stato «un segnale di grande apertura all'Europa». Altro che Mario Draghi: Berlino, Parigi, Madrid, quando hanno saputo della nomina della Tinagli hanno festeggiato con i fuochi d'artificio.