2021-09-09
Al curriculum di Letta si aggiunge un record: fa rimpiangere Zinga
Quintessenza del robot sfornato dalle università di alto lignaggio, il segretario del Pd blinda le proprie certezze con l'intolleranza verso chi dissente. Fa l'ideologo, ha inasprito le liti e ignorato la realtà. Tanto da far rimpiangere ai dem addirittura ZingarettiOnusto com'è di titoli accademici, c'è da chiedersi se per il segretario del Pd, Enrico Letta, i soldi della sua bella educazione siano stati spesi bene. Insomma, torna il rapporto qualità prezzo? Nato a Pisa, si trasferì giovanetto a Strasburgo, compì i primi studi in francese e respirò l'aria europea. In Alsazia, oggi sede della celeberrima Ena, assimilò il culto per le Grandes écoles. Tornato in patria con questa infatuazione, capì che i natali a Pisa erano un segno astrale. Pisa, infatti, è la dimora italiana dell'accademismo d'élite fin dai tempi di Benito Mussolini e Giovanni Gentile. Enrico ne frequentò l'Università, laureandosi con lode nelle Scienze politiche che poi abbraccerà nella vita pratica. Successivamente, ottenne nella stessa città e nell'eguale materia un dottorato di ricerca nell'esclusiva Scuola superiore Sant'Anna, gemma nostrana degli studi superiori. Dai banchi passò alla cattedra, prima nello stesso Istituto di cui fu discente, poi a Parigi, meta obbligata delle menti sottili già dal secolo di Abelardo. Qui, insegnò una prima volta all'Ecole des hautes études commercial (2003) per poi rientrare in Italia. Tornò a Parigi tra il 2015 e il 2021 e tenne corsi a Sciences politiques. Erano gli anni dell'esilio con cui punì il Pd che aveva favorito Matteo Renzi nel sottrargli Palazzo Chigi al motto, «Enrico stai sereno». Veniamo ora al presente di quest'uomo dal curriculum sterminato. Rientrato in patria a marzo e riposto nel cassetto il broncio settennale, ha dato il cambio all'odontotecnico Nicola Zingaretti nella guida piddina. Ora, un super professore che sostituisce un diplomato dell'arcata mascellare in un'attività altamente immaginativa com'è la politica, dovrebbe surclassarlo. Da lui si aspetta una svolta del partito, una partenza a razzo, il delirio entusiasta degli iscritti. Il professor Letta ha invece sortito l'effetto di una rana gettata nello stagno che si è confusa tra i batraci suoi consimili. Dopo mezzo anno di segreteria del mega intellettuale, il Pd rimpiange il predecessore di pochi studi che nascondeva le sue lacune dietro il sorriso giocondo degli spiriti semplici. Zingaretti ha detto tutto e il suo contrario, non aveva una linea politica e nessuno lo ascoltava. Ne trasse le conclusioni e se ne andò. Per i quattro soldi che erano stati spesi nella sua formazione i conti tornano. Zero virgola gli era stato dato; zero virgola ha restituito. Come la mettiamo invece con Letta? Enrico è la quintessenza del robot sfornato dalle università di alto lignaggio dell'Occidente. Un'industria che uniforma i cervelli, li riproduce con lo stampino e lascia una sola impronta: l'orgoglio di credersi i migliori. Mangiano olivette negli stessi club, si vestono alternando tre toni di grigio, sono infarciti di stereotipi. Applicano l'imparato, l'intuizione è bandita, la fantasia soppressa. Il dubbio equivale a disordine e per non cadere in tentazione, blindano le loro certezze con l'intolleranza verso chi dissente. Letta è l'esemplare meglio riuscito di questo fallimento. Zingaretti lasciando la segreteria aveva invitato il Pd a smetterla con le liti e l'ideologia per concentrarsi sui bisogni del Paese. Letta ha invece inasprito le une, moltiplicata l'altra e ignorato la realtà che, per vero, non è mai stato il suo forte. Ricordo, dei dieci mesi in cui fu a Palazzo Chigi tra il 2013 e il 2014, due esempi della sua impalpabilità. Un dì portò l'intero governo a soggiornare in un convento toscano nello stile dei democristiani del secolo scorso. Evitò per pudore di chiamarlo ritiro spirituale e disse, pescando nel gergo calcistico, che la riunione serviva a fare «panchina» o qualcosa di simile per rinsaldare l'impegno a cambiare il Paese. Immaginava insomma una piccola pausa per una rincorsa di lunga durata. Non aveva capito nulla. Sotto di lui e il suo governo era già accesa una bomba a orologeria. In breve, infatti, la compagine saltò. Per dire il realismo. Un'altra volta gli fu posta la domanda - visto che non ne parlava mai nonostante i disastri - se la magistratura rappresentasse o no un problema. Era appena avvenuta (2013) l'espulsione dal Senato e dalla vita pubblica dell'ex premier, Silvio Berlusconi, sulla base di una sentenza di Cassazione, forse manipolata e oggi oggetto di revisione. Letta rispose che per lui andava tutto bene dimostrando la sensibilità di una patata bollita. La sua inconsistenza è dunque nota da tempo. Ora, però, dopo il bagnomaria nella Senna, se la tira da francese. La sua nuova passione sono i diritti, Les droits, antico vanto dei galletti. Così, berretto frigio in capo, ha indicato al Pd le sue prossime battaglie di civiltà: ius soli per gli immigrati, anticipo del voto a16 anni, elargizione di azioni ai dipendenti delle imprese. Prima di dire se ciò che propone sia ragionevole o no, è un fatto che questo fenomeno della politica ha fornito risposte a richieste che, nella società italiana, non aveva avanzate nessuno. Affibbiando al Pd tale programma, è come se lo avesse accompagnato ai margini del Sahara e, con una pacca sulle spalle, gli avesse detto: «Inoltrati e restaci secco». Così, dopo averlo disastrato, ora se ne vergogna e si candida deputato a Siena in una lista sua, senza i simboli del partito che governa così astrusamente. Quanto sopra, permette di rispondere con un secco «No» al quesito di partenza se siano state fruttuose le somme investite sugli studi del fallimentare Letta. Prima di concludere però un cenno al caso del sottosegretario leghista all'Economia, Claudio Durigon, di cui Enrico ha ottenuto la testa forzandolo alle dimissioni. Servirà a ricordare che un intellettuale si giudica anche dalla qualità degli argomenti che utilizza. La vicenda è nota. Durigon, deputato di Latina, in un comizio cittadino aveva auspicato che i Giardini pubblici, intestati nel 2017 ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, riprendessero l'antica denominazione di Arnaldo Mussolini, fratello minore del duce, onorando in altro luogo i due magistrati. Ne nacque il vespaio tipico di chi non ha il senso della storia. E fin lì, siamo alle solite. Ma Letta, l'uomo costato tanti marenghi, volle esasperarlo in odio alla Lega con cui pure governa e lanciò su Durigon l'invettiva di «apologia del fascismo» per preferire un Mussolini ai due magistrati martiri. Nell'Italia d'oggi, si sa, accusare di fascismo è condannare alla morte civile. È l'arma principe dei mentecatti in tv e del basso giornalismo che la utilizzano per uscire dai pasticci dialettici se un avversario li inchioda. Vedere però Letta, il prodotto delle grandi scuole, appiattirsi sulle mezze calzette nell'uso dei mezzucci ne dà una tinta di piccineria non solo intellettuale bensì morale. Da guardarsene anche gli amici, mi sento di dire. Come si fa a parlare di «apologia del fascismo» se si chiede il ritorno al vecchio nome dato nel 1932, all'inaugurazione della città pontina, e durato paciosamente fino al 2017? Furono dunque 85 anni di apologia fascista ininterrotta? Ma Letta ragiona? E tutta la canizza poi per Arnaldo Mussolini quasi fosse stato un testimonial dell'orbace? Fu un mite baciapile dalla breve vita, come verificherà il lettore dalla biografia. Avverto infine Enrico, nella sua visione intollerante e lacunosa dell'Italia, che pure l'attuale intestazione dell'area verde contiene un pizzico di fascismo, anzi di neo fascismo. Il giudice Borsellino fu infatti del Fuan, gli universitari del Msi, e non lo rinnegò mai. Coraggio segretario, si rimetta l'elmetto. Chissà che West Point le conferisca un diploma da aggiungere al suo superfluo medagliere.
(Ansa)
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Carlo Nordio, Matteo Piantedosi, Alfredo Mantovano (Ansa)