2019-02-11
Leggero come il pane
Quando scegliamo il cibo principe della nostra tavola, non facciamoci prendere troppo dalla retorica del lievito. Quella mollica rigonfia e piena di buchi sarà pure squisita, ma è dovuta a particolari «funghi» che potrebbero piacere poco al nostro organismo. Non è un caso se l'alimentazione italiana ne fa a meno da sempre: dal carasau alle pagnotte regionali, basso è meglio.Li chiameremo «pani nani», perché sono quei pani di altezza assai minore rispetto al consueto. Solitamente, non vengono in mente appena si parla di pane, anzi... Soprattutto negli ultimi tempi, le caratteristiche del pane che più paiono interessare sono le farine (impazziamo per quelle di grani antichi, integrali, biologiche, macinate a pietra), l'alveolatura (ormai sono come i diamanti, più gli alveoli sono grandi, meglio è), il tipo di lievitazione (la lenta è santificata, la normale criminalizzata), l'agente lievitante (lievito di birra o pasta madre, l'ultima riscuote molto più successo e se volete farvi criticare come se aveste ammazzato qualcuno, nominate il lievito chimico veloce per salati). Questa curiosa smemoratezza del pane non lievitato accade per vari motivi. Prima di tutto, la massificazione determinata dalla produzione industriale di ciò che ormai mangiamo: è una omologazione che cancella forme altre, minoritarie e locali, privilegiando e imponendo quelle più comuni. Poi, esiste anche una massificazione nella produzione gourmand o alternativa, «scuola» culinaria nella quale si è affermata una vera e propria ossessione per pani, panini e finanche pizze gonfi come palloni. E così, dando per scontato che il pane vero e buono sia solo quello lievitato, dal discorso collettivo sul cibo e dalla quotidianità sono stati cassati i pani bassi, la cui caratteristica fondamentale è proprio quella di non contenere agenti lievitanti. Come mai non li contengono? Eccezione? No, regola. E già. Si dimentica spesso, o forse non si sa, che il pane nasce non lievitato. Il pane azzimo, rigorosamente non lievitato, si realizzava con farina (integrale) e acqua. Fine degli ingredienti. Si impastava, si stendeva e si cuoceva su pietre roventi oppure sulla cenere calda, sfruttando il calore che quest'ultima ancora conteneva dentro di sé. Il pane azzimo bannock, di farina di orzo o di segale, diffuso in Irlanda, Scozia e Inghilterra del Nord, è documentato fin dall'anno 1000, ma in tutto il mondo le tracce di pani azzimi locali sono anche molto molto più antiche. Anche il pane al quale fanno riferimento alcune religioni è il pane azzimo. Non è di certo la pagnotta pugliese di Altamura Dop e Igp detta skuanète, magari di pezzatura da cinque chili (ne esiste anche una versione «bassa», detta a cappidd d'prèvte, ma l'impasto è sempre lievitato). La religione ebraica, infatti, consuma pane azzimo (è il matzah) durante la settimana pasquale. L'ostia della Chiesa cattolica è un pane azzimo. Starete immaginando l'ostia bianca e sottilissima e chiedendovi cosa abbia a che fare con il pane. Beh, è un pane. Che, attualmente, è realizzato con molta più acqua (l'ostia presenta un'idratazione più o meno del 200%) che farina. Ma quando, nell'Ultima cena, Gesù istituisce la comunione, indica come suo corpo un pane, che in quel momento era il pane azzimo: «Ora, mentre essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli dicendo: “Prendete e mangiate; questo è il mio corpo"» (Matteo 26, 26). A questo proposito, è interessante la diatriba che ha riguardato la possibilità di usare pane fermentato come pane sacro, nota come controversia degli azzimi. Il patriarca di Costantinopoli, Michele Cerulario, negli anni intorno al 1050, accusò la Chiesa latina di usare il pane azzimo per l'eucaristia, e non quello fermentato, come si fa nel rito bizantino. Da parte sua, la Chiesa latina considerava che siccome Gesù aveva istituito il sacramento dell'eucaristia durante la settimana pasquale, nella quale, appunto, le prescrizioni ebraiche prevedevano di consumare il pane azzimo, il pane eucaristico doveva essere un pane non fermentato. La diatriba venne più o meno risolta nel concilio di Lione del 1274 e in quello di Firenze del 1439: la Chiesa cattolica romana e quella ortodossa erano ormai lontane e la prima affermò che si potevano usare sia il pane azzimo, sia quello fermentato. Tuttavia, si usa l'ostia, che è un sottilissimo e iperidratato pane azzimo. Il pane non fermentato appartiene, dunque, più che legittimamente alla storia della panificazione. Se il bannock è ancora consumato (anche in versione sempre bassa ma contenente lievito) non solo dove lo era più di mille anni fa, ma anche presso le tribù indigene del Nord America e del Canada, sono infiniti gli altri pani non fermentati delle altrui e della nostra cucina. Vediamo i nostri. Il più famoso pane non lievitato italiano è sicuramente la piadina romagnola. Alcune ricette contemporanee la snaturano contemplando l'uso di un pizzico di lievito o, al limite, di bicarbonato, ma secondo norma non ci va. Nella Descriptio provinciæ Romandiolæ del 1371, il cardinal legato Anglico de Grimoard ne descrive - per la prima volta - la ricetta: «Si fa con farina di grano intrisa d'acqua e condita con sale. Si può impastare anche con il latte e condire con un po' di strutto». Le origini della piadina, prima della canonizzazione scritta della sua ricetta, sono probabilmente collegate con il pane dei tempi degli Etruschi e dei Romani e il suo strumento di cottura dedicato è un piatto di terracotta detto teglia oppure il testo, una specie di padella in metallo o pietra refrattaria senza bordi, sulla quale si cuoce prima un lato e poi l'altro. La piadina, o piada, si mangia calda, al posto del pane lievitato a tavola e, ancora più spesso, ripiegata in due e ripiena di affettati, verdure e formaggi (la più classica è con lo squacquerone) nelle zone di Forlì, Cesena, Ravenna, Rimini, Pesaro, Urbino, Imola. Parente della piadina è il cassone, anche chiamato cascione, calzone, crescione; in sostanza una piadina prima farcita e piegata a mezzaluna e soltanto dopo cotta. Avete presente il calzone napoletano? Si tratta della stessa forma, ma il calzone è fatto con pasta lievitata, il cassone con un impasto non lievitato. I ripieni più diffusi sono con erbe come spinaci e bietole, aggiunti o meno di formaggio grattugiato o ricotta, nel caso del crescione verde. Il crescione rosso invece contiene mozzarella e pomodoro e un eventuale ulteriore strato di salumi. La piadina esiste anche dolce. Il 4 febbraio si festeggia a Forlì la patrona Madonna del fuoco e in quest'occasione si prepara la piadina della Madonna del fuoco, anche detta pane della Madonna del fuoco, che contiene zucchero e semi di anice.Altro pane nano leggendario, apprezzato da gourmet che non svendono la memoria e la tradizione alle manie del momento, appartenente al territorio regionale di Umbria e Marche: è la crescia. Nell'urbinate si chiama crescia sfogliata (o piadina sfogliata) e, se vogliamo mantenere la piadina come termine di paragone, si tratta di una sorta di piadina stratificata. Sta alla piadina originale come la frittata giapponese tamagoyaki - che sviluppa lo spessore della frittata in cottura, elevando strati verticali striscia per striscia fino a riempire la forma della padella - sta a una normale frittata. La crescia sembra un'invenzione della cucina creativa, non ci stupiremmo se ci dicessero che si tratta della piadina romagnola secondo Gualtiero Marchesi. Perché con l'avvento della nuova cucina, la concezione in un certo senso scultorea e, in generale, «artistica» del piatto è diventata norma. Ma la crescia non ha niente a che fare con le creazioni contemporanee. La crescia sfogliata nasce dall'ingegno popolare e non coevo, avendo probabilmente origine rinascimentale. Si realizza con un impasto che oltre ad acqua e farina prevede uova, latte, strutto (qualcuno usa il burro), sale e pepe. Il panetto impastato si stende, si spalma di strutto, si arrotola molto stretto su sé stesso e poi si arrotola intorno a sé stesso a chiocciola. La chiocciola si stende nuovamente e, cuocendo, la sua pasta si sfoglierà. Esiste da sempre una piccola querelle: è nata prima la crescia o la piadina? Direbbe Gigi Marzullo: è la piadina una crescia semplificata o è la crescia una piadina complicata? Non conosciamo la risposta, non sappiamo se l'una abbia eventualmente influenzato l'altra o viceversa, ma è certo che le divergenze superano le affinità. La tecnica della sfogliatura caratterizza profondamente la crescia, rendendola un pane nano decisamente unico, accostabile sì alla piadina, ma non troppo. Proprio per la sua sfogliatura. Dal Rinascimento, l'impasto sfogliato farà lunga strada e si affermerà come tecnica di realizzazione più di dolci (la torta millefoglie, le sfogliatelle ricce napoletane, i cannoncini ripieni, i croissant francesi eccetera) che di salati, ma per la crescia sfogliata rimane fondamentale. Si mangia, al solito, come pane accanto a un companatico o direttamente a panino, piegata a mezzaluna e farcita di salumi, formaggi e verdure. Il crostolo di Urbania è una versione di crescia che si cuoce preferibilmente alla brace, che talvolta non ha uova, latte e pepe e quindi è più leggero della crescia. Nel Montefeltro esiste anche il crostolo di polenta, che un tempo si preparava unendo alla farina di grano tenero la polenta rimasta attaccata al paiolo, freddata, seccata e imbibita di acqua (senza uova, latte e pepe). Ora, si usa la polenta fresca. A Pesaro, la crescia è vonta o sfojeta. La crescia vonta è spessa, a volte ripiena, la crescia sfojieta è rettangolare e formata da tanti strati. Fuori dal territorio di Pesaro e Urbino, verso Ancona, la crescia perde la sfoglia e si fa con la pasta da pane. La crescia, insomma, è tanto importante quanto poco nota: pensate che, in questi territori, si è usata anche una moneta chiamata cresciolo. Non perché fosse fatta di impasto di crescia, naturalmente, ma perché era tonda come tonda è la crescia, seppure di diametro molto inferiore. Ma la crescia non si ferma alle Marche. In Umbria troviamo la crescia di Gubbio, altrimenti detta torta al testo o torta bianca (o ciaccia, in Valtiberina). Impasto di acqua, farina, sale (alcuni oggi aggiungono bicarbonato), ma nessuna sfogliatura e rituale cottura sul piano in ghisa detto testo, da cui uno dei suoi nomi (a proposito, «testo» viene dal latino testum, che era il nome della tegola in laterizio sulla quale si cuocevano le focacce nella Roma antica). Altri pani nani non lievitati della nostra tradizione sono l'abruzzese pizza scima, ovvero scema. Non si intende una pizza non intelligente, ma azzima. Infatti, in alcuni dialetti abruzzesi acime significa azzimo. La pizza scima, impasto di farina, acqua, sale e olio evo, si lascia riposare, poi si stende di circa un centimetro e mezzo, massimo due di altezza. Si segnano delle righe con un coltello, incrociate in modo da incidere sulla sua superficie dei rombi. Questo rende il top croccante, bello da vedere e insieme agevola la porzionatura di questo curioso e gustoso pane azzimo. La pizza scima si cuoce tradizionalmente nel camino, sotto al coppo, un coperchio di ferro leggermente concavo: nella concavità si poggia la brace, così intorno al perimetro del coperchio. Ciò permette di ottenere un effetto «forno elettrico acceso sopra e sotto». Una versione la vuole con aggiunta di vino bianco nell'impasto e, a prescindere dalle varianti, le regole ferree della pizza scima (che diventa scive a Pescara e Teramo e ascima all'Aquila) sono che non si mangia a panino. Per quanto nessuno vieti di farlo, tagliandola in due per orizzontale, farcendone due posizionate una sull'altra o piegandola a mezzaluna e farcendola, si utilizza come pane di accompagnamento. L'altra regola è che non prevede mai lievito. Anche in Sardegna esiste il pane nano. C'è il pane carasau, un disco molto largo e sottile, e il pistoccu, pani sottili quasi come fogli. Il pane non lievitato esiste anche nel Trentino, dove si chiama cuccalar ed è un delizioso e antico pane rustico non lievitato, e in Toscana, dove il panigaccio di Podenzana presenta l'ulteriore caratteristica di essere cotto in modalità gruppale: il panigaccio si pone su un testo, ci si pone sopra un altro testo e sopra a questo un altro panigaccio e così via. Poi si inforna. Insomma, considerato che non abbiamo nemmeno citato tutte le varianti, possiamo ben dire che il pane non lievitato italiano è vivo e lotta insieme a noi contro la retorica del pane lievitato.
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