2019-07-15
L'effetto dazi Usa si fa sentire: l'economia cinese cresce come nel 1992
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La guerra commerciale sta producendo delle conseguenze non troppo piacevoli per Pechino. Stando ai dati diffusi lunedì dal governo cinese, il prodotto interno lordo è cresciuto del 6,2% nel trimestre conclusosi a giugno: si tratta del tasso di crescita trimestrale più lento dal 1992 e in calo rispetto al 6,4% nel trimestre precedente. Secondo l'ufficio nazionale di statistica, «l'economia cinese è ancora in una situazione complessa e grave», mentre «la crescita globale è rallentata e le incertezze esterne sono in aumento».In questo quadro, gli investimenti sono rimasti deboli su base trimestrale, sebbene il mese di giugno abbia registrato l'inizio di una possibile ripresa, dopo che Pechino ha incoraggiato le banche a concedere più prestiti. Le esportazioni sono inoltre diminuite dell'1,3%, rispetto al giugno del 2018, soprattutto a causa delle tensioni tariffarie con Washington. Tutto questo, mentre il mercato del lavoro sembrerebbe rimasto stabile, con il tasso di disoccupazione rilevato nelle aree urbane pari al 5,1%: dato in ascesa dello 0,1% rispetto al mese precedente. Già a giugno, del resto, Bloomberg aveva fotografato una situazione abbastanza preoccupante per l'economia cinese, descrivendo significativi problemi sul versante del settore manifatturiero e mettendo in evidenza i rischi politici di un tasso di disoccupazione che - al di là delle fonti ufficiali - non pochi analisti considerano in realtà più alto di quanto dichiarato.Insomma, Washington non è l'unica a subire pesanti contraccolpi dalla guerra tariffaria in atto. E adesso l'escalation commerciale rischia di esplodere nuovamente. Nonostante Donald Trump e Xi Jinping avessero concluso una sorta di tregua nel corso del G20 di Osaka lo scorso giugno, giovedì il presidente americano è tornato all'attacco, accusando Pechino di non mantenere la parola data. Secondo l'inquilino della Casa Bianca, alla base del patto nipponico, vi sarebbe stata la promessa cinese di acquistare elevati quantitativi di prodotti agricoli statunitensi. Una promessa che in realtà parrebbe disattesa. Dati recentemente resi noti dal Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti mostrano infatti che la Cina abbia diminuito i propri acquisti di prodotti agricoli americani in seguito al G20. Nei primi giorni di luglio, Pechino avrebbe acquistato 127.800 tonnellate di soia americana: una riduzione del 79% rispetto alla settimana precedente. Nello stesso periodo, la Cina avrebbe inoltre comprato appena 76 tonnellate di carne suina americana, rispetto alle 10.400 tonnellate di giugno.Come è noto, Trump ha estrema necessità di tutelare il comparto agroalimentare americano, che ha visto un drastico calo del proprio export (soprattutto di soia), da quando la guerra dei dazi è cominciata l'anno scorso. Una situazione pericolosa per il presidente che ha potuto contare sull'appoggio degli Stati agricoli in occasione delle presidenziali del 2016. «Il Messico sta facendo grandi cose alla frontiera, ma la Cina ci sta sottovalutando, visto che non hanno acquistato i prodotti agricoli dai nostri grandi agricoltori come hanno detto che avrebbero fatto. Spero comincino presto!», ha non a caso dichiarato Trump su Twitter. La Cina, per il momento, nicchia. Trump, dal canto suo, qualche passo in avanti sulla via del disgelo nelle ultime settimane lo aveva tuttavia compiuto: non solo aveva mantenuto la promessa di congelare l'aumento dei dazi ma - soprattutto - aveva acconsentito ad ammorbidire le restrizioni americane imposte al gigante cinese Huawei. Adesso, la situazione torna a farsi complicata. Del resto, l'escalation della scorsa primavera scoppiò nel momento in cui Trump accusò Pechino di non aver tenuto fede alla parola data, nel corso dei negoziati avvenuti nei mesi precedenti. Il delicato (e pragmatico) equilibrio creatosi a Osaka potrebbe, insomma, infrangersi da un momento all'altro. Anche perché, oltre all'agroalimentare, lo stesso dossier Huawei rischia di tornare a dividere le due nazioni. Sabato scorso, il Wall Street Journal ha riportare che il colosso cinese sarebbe in procinto di licenziare numerosi lavoratori nella sussidiaria Futurewei Technologies, con molti impiegati in Texas e in California.Il punto risiede principalmente nelle ricadute interne che, per entrambi i Paesi, questa situazione può produrre. Se Xi Jinping sta sempre più rischiando problemi di stabilità politica per svariate cause (dalla disoccupazione agli affanni del welfare state), quello che al momento rischia di più nel breve termine è Trump. Il presidente americano si trova infatti già in campagna elettorale per le presidenziali del 2020. E sa bene che sul dossier cinese probabilmente si giocherà moltissimo in vista di una eventuale rielezione. D'altronde, sotto questo aspetto, i fronti aperti sono molteplici. Da una parte, come abbiamo visto, il magnate si ritrova la questione degli agricoltori. Per non perdere la presa su questa quota elettorale, il presidente ha stanziato dei sussidi attraverso il Dipartimento dell'Agricoltura: una scelta che gli ha comunque attirato delle critiche interne, visto che alcuni senatori repubblicani si sono opposti. In secondo luogo, l'altro bacino elettorale che il magnate deve presidiare è quello della classe operaia della Rust Belt: una frangia sociale che detesta Pechino e davanti a cui Trump non può assolutamente permettersi di sfigurare. In quest'ottica, il presidente americano sta cercando di esercitare la massima pressione possibile (economica e geopolitica) su Pechino. Per lui, strappare un accordo commerciale oggettivamente vantaggioso per l'America rappresenterebbe una colossale vittoria politica. E, proprio per questo, non può accontentarsi delle mezze misure. Ecco perché l'ambiguità cinese potrebbe prima o poi portare la corda irreparabilmente a spezzarsi.