2018-04-23
Le storture del verdetto Stato-mafia
Negli anni Novanta la politica scelse la tregua perché voleva limitare le vittime della guerra con la mafia. Oggi i giudici emettono condanne travalicando i confini.La sentenza del cosiddetto processo sulla trattativa tra Stato e mafia riempie le pagine dei giornali con il folklore, raccontando di una folla commossa e piangente che plaude il giudizio raggiunto, nella citazione ricorrente e stereotipata di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, campioni dei morti ammazzati. Sullo sfondo, un Luigi Di Maio che coglie l'assist della magistratura per proclamare la fine della Seconda Repubblica e utilizzare la propaganda magistrale nelle trattative tra 5 stelle, un po' appassiti, e resto del mondo.In conclusione, nel gran bailamme la trattativa va avanti, da una pista all'altra.Quegli anni Novanta erano drammatici anni di guerra, in corso tra lo Stato e la mafia, che le istituzioni stavano perdendo e, dietro le linee, si erano attivati, con reciproci avvalli, contatti per una «tregua meno armata». Provate a rileggere i fatti di quel periodo in questa prospettiva.Allora ci si rende conto che, attraverso i servitori dello Stato unicamente fedeli a esso, si intende l'arma dei carabinieri, il governo politico aveva intrapreso un percorso di riduzione del danno nei confronti dei propri cittadini che erano le vittime della guerra. Questo percorso aveva inevitabilmente aperto un canale di comunicazione e di negoziazione tra «guardie e ladri», con una contaminazione pericolosissima tra soggetti ontologicamente differenti, il cui destino necessario sarebbe stato di spararsi reciprocamente, non di parlarsi. La trattativa andò avanti e portò a una riduzione delle attività «cinetiche», cioè degli attacchi sul territorio, grazie alla correttezza degli ufficiali dei carabinieri che la condussero in autonomia rispetto al potere giudiziario e con grande flessibilità rispetto al potere politico.Questa trattativa ridusse il danno e fu un utile successo. Che oggi viene fatto pagare a chi lo conseguì. Con un atto da parte della magistratura che, in Italia, ha sempre usato il proprio ruolo per fare politica attiva; attraverso pool operativi che, anche rischiando in prima linea e non sempre alieni da una spinta ideale e un po' naive, non ha mai tollerato di essere al servizio dello Stato e non al servizio della giustizia da cui si credono illuminati, loro indirizzo per realizzare il Paradiso sulla terra e non prosaicamente intesa solo in relazione all'applicazione delle norme, strumenti funzionali e relativi impiegati per governare la società civile. La norma del codice non è, infatti, un comandamento messianico ma uno strumento terreno e pratico per la riduzione del conflitto e, dunque, il giudizio si riconduce alla utilità per la società in cui si applica, che è contingente e relativa, senza investire la magistratura del fine alto e ultimo della giustizia assoluta. Un fine che, d'altra parte, si riduce solo a elemento centrale della narrativa pubblica di una magistratura che, nelle lungaggini del processo reiterato per decenni, arriva alle sue conclusioni in perfetta coincidenza con un qualche appuntamento politico per il quale l'esito processuale ha un'efficacia essa stessa politica significativa, consegnata sul piatto d'argento a una delle parti in gioco. Anche qui nel contesto di una costante trattativa tra magistratura e politica che fa parte del nostro sistema organizzativo. Intanto Di Maio prende agio.E poi tornando al tema: quando la guerra si perde (come stava avvenendo in quegli anni con la mafia) o si affronta la disfatta sul campo o si tratta. E così fu, per evitare ulteriori morti: obiettivo che ipoteticamente si raggiunse valutando l'evolversi che in seguito ebbe la situazione.Certo, possiamo considerare la scelta strategica di guerra, quella di arrendersi surrettiziamente, e ancora di più possiamo considerare l'inevitabile fallimento di una lunga stagione politica, che non riuscì a sconfiggere il cancro mafioso. Una malattia oggi ancora più diffusa nei gangli del nostro Paese. Ma l'esito del processo di oggi non ci fa fare un passo in più in avanti per combattere questo cancro mafioso. Al contrario mostra come di fronte a legittime scelte di governo, una magistratura che vuole essere indipendente, intervenendo con scelte strategiche che sono solo proprie a sé stessa per mostrarsi sempre e sola al di sopra di tutto e di tutti, non esita a colpire chi lo Stato lo serve e a non preoccuparsi degli eventuali «danni collaterali».
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