
Il lavoro di 2 studiosi (di sinistra) contro il mito della denatalità. Popolazione mondiale in diminuzione. La nostra civiltà a rischio.Una delle più efficaci e drammatiche descrizioni del rapporto degli europei con la riproduzione la fornisce lo scrittore francese Regis Jauffret in uno splendido libro intitolato Papà (ora in uscita per le edizioni Clichy). «Si fanno figli troppo tardi nella nostra società di anziani», scrive. «A volte si mettono al mondo figli i cui genitori dovrebbero essere i nonni. Con i miracoli del congelamento dei gameti l'essere umano sarà presto l'unica specie i cui piccoli nasceranno figli di cadaveri rinsecchiti, di ossa sbiancate in fondo alle tombe, di ceneri da lungo tempo disperse ai quattro venti». Ovviamente, l'opinione attualmente dominante è che pensieri del genere siano un inutile concentrato di pessimismo, un borbottio degno di vecchi conservatori ancora troppo legati all'idea di famiglia.Per lo più, infatti, ci viene ripetuto che il grande problema del mondo sia la sovrappopolazione. Da decenni i teorici neomalthusiani intonano la loro mortifera canzone: gli esseri umani sono troppi, e finiranno per distruggere il pianeta.Cominciò a sostenerlo, nel 1968, Paul Ehrlich, in un bestseller che fece epoca intitolato The population bomb. Qualche anno più tardi, nel 1972, il Club di Roma pubblicò il rapporto I limiti dello sviluppo, che ha ispirato generazioni di teorici della decrescita, i quali si sono concentrati soprattutto sulla limitazione della riproduzione piuttosto che sul cambio di paradigma economico. Ora va di moda il malthusianesimo verde. Ambientalisti di ogni ordine e grado – tra cui il famoso scrittore americano Jonathan Safran Foer – sostengono che non fare figli sia un modo di difendere l'ambiente. Non pochi, purtroppo, concordano con lui, anche dalle nostre parti. Pure le Nazioni unite si sono messe d'impegno, nel corso degli anni, per sostenere che la bomba demografica sarà un bel problema a livello globale.Il punto è che costoro – ambientalisti, ricercatori Onu, politici progressisti – con tutta probabilità si sbagliano, e pure di grosso. Questa è la tesi, estremamente convincente, di Darelle Bricker e John Ibbitson, un ricercatore statistico e un analista politico che hanno prodotto Pianeta vuoto (Add editore), un'approfondita indagine sulla popolazione globale e sulle evoluzioni che affronterà nel prossimo futuro. A rendere più interessante l'opera è il fatto che entrambi gli autori siano laici e progressisti, dunque molto lontani dalle correnti politiche che solitamente stigmatizzano i danni della denatalità. Essi sostengono che la popolazione mondiale sia destinata – forse irrimediabilmente – a diminuire, e non ad aumentare a dismisura. «I Paesi la cui popolazione sta diminuendo sono già più di venti», scrivono. «Nel 2050 saranno oltre 35. Alcune tra le regioni più ricche del pianeta – tra cui Giappone, Corea, Spagna, Italia e gran parte dell'Europa orientale – perdono abitanti ogni anno». Non solo: «La vera notizia è che presto anche i più grandi Paesi in via di sviluppo, i cui tassi di fecondità sono già in discesa, inizieranno a ridursi. La popolazione cinese comincerà a calare entro pochi anni. Di qui alla metà del secolo Brasile e Indonesia faranno lo stesso». Persino l'India e l'Africa subsahariana andranno incontro, se non a una diminuzione, almeno a una stabilizzazione del numero degli abitanti.La conclusione è piuttosto inquietante: «In passato sono state le carestie e le epidemie a decimare il genere umano. Ora lo facciamo da soli: stiamo decidendo consapevolmente di ridurre il nostro numero». Come noto, il benessere fa la sua parte. Lo studioso viennese Wolgang Lutz, ad esempio, sostiene che «quando la società prepara la donna ad avere un'istruzione e una carriera, la prepara anche ad avere una famiglia più piccola. Ed è un processo irreversibile».Bricker e Ibbitson non valutano tutto questo negativamente. Si limitano a prendere atto dei dati. E se proprio devono esprimere una valutazione sui cambiamenti sociali, si mostrano favorevoli alla contraccezione e all'aborto. Dunque non li si può accusare di essere ideologici quando illustrano le conseguenze del crollo della popolazione. Per prima cosa, spiegano, avere meno figli è un disastro per l'economia. Le famiglie piccole «riducono il numero di consumatori, riducono il numero di contribuenti per finanziare i servizi sociali, e riducono il numero di menti giovani e innovative. Non è un caso che, come l'invecchiamento della società giapponese ha inciso sui suoi tre decenni di stagnazione economica, così quello della società europea sta contribuendo alla stagnazione che affligge tante economie del continente. I bambini, o la loro carenza, influenzano profondamente l'economia di un Paese». Ecco perché, in un modo sensibilmente meno popolato e con un'età media molto avanzata, la vita non sarebbe necessariamente migliore, anzi. Avere un lavoro che garantisca guadagni soddisfacenti, tanto per cominciare, diventerebbe molto più complicato, poiché i più giovani dovrebbero pagare il welfare per i più anziani, i quali a loro volta sarebbero costretti a prolungare notevolmente l'attività lavorativa. E questo è solo un piccolo esempio. Non è nemmeno detto che avere meno persone comporti una riduzione delle emissioni, come sostengono gli ambientalisti. Spesso, infatti, i grandi centri urbani producono meno emissioni rispetto alle zone in cui gli abitanti sono più distanti fra loro, anche solo per il fatto che nelle metropoli i cittadini tendono di più a usare i mezzi pubblici invece della macchina.Insomma, da anni continuiamo a sentire allarmi sulla sovrappopolazione ma forse dovremmo iniziare a preoccuparci seriamente della denatalità. Bricker e Ibbitson, da intellettuali di sinistra quali sono, sostengono che la soluzione sia il multiculturalismo sul modello del Canada (da cui provengono). Far entrare immigrati, dicono, contribuisce a rallentare il declino demografico. Non è un rimedio nuovo: sono in tanti a proporlo anche qui da noi (Emma Bonino ha descritto l'Africa come un «giardino d'infanzia»). Persino i più cinici, però, dovrebbero ammettere che usare gli stranieri come fuoco per scansare il gelo demografico sia una strategia di corto respiro, poco più di un palliativo. Se anche asiatici e africani andranno verso un rallentamento della fecondità, è ovvio che prima o poi il ricambio cesserà.Inoltre, cosa più grave, la sostituzione di popolazione ha drammatiche conseguenze a livello culturale, nel senso che sul lungo periodo (e nemmeno troppo lungo) porta letteralmente alla scomparsa di intere civiltà. Gli stessi autori di Pianeta vuoto notano che la denatalità sta già condannando alla sparizione varie popolazioni indigene sparse per il globo, causando quella che viene chiamata «estinzione culturale». Per quale motivo questo fenomeno non dovrebbe verificarsi su più larga scala anche con le popolazioni europee?L'unica via di uscita, dunque, è un radicale cambiamento culturale, una modifica dello stile di vita che ci consenta di riprendere a essere fertili. Fra tre decenni, anno più anno meno, la popolazione globale inizierà a ridursi, e potrebbe essere una strada senza ritorno. Ci servono più figli: l'alternativa non è affatto piacevole.
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Parla Gaetano Trivelli, uno dei leader del team Recap, il gruppo che dà la caccia ai trafficanti che cercano di fuggire dalla legge.
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Su un testo riservato appare il nome del partito creato da Grillo. Dietro a questi finanziamenti una vera internazionale di sinistra.
        Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
    
Nel 1937 l’archeologo francese Fernand Benoit fece una scoperta clamorosa. Durante gli scavi archeologici nei pressi dell’acquedotto romano di Arles, la sua città, riportò alla luce un sito straordinario. Lungo un crinale ripido e roccioso, scoprì quello che probabilmente è stato il primo impianto industriale della storia, un complesso che anticipò di oltre un millennio la prima rivoluzione industriale, quella della forza idraulica.
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Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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