2020-11-12
Le carte che inchiodano Renzi
Maria Elena Boschi e Matteo Renzi (Ansa)
L'accusa: «Open non era una vera fondazione, bensì la cassaforte dell'ex premier». La conferma dalle mail tra i due indagati Maria Elena Boschi e Alberto Bianchi. I pagamenti delle spese di «Matteo»: lo staff di comunicazione social, l'ufficio, il viaggio negli Usa (134.900 euro in 24 ore!). La gestione privata delle carte di credito I contributi dei politici dem. I nuovi atti dell'inchiesta Open, nonostante gli strepiti di Matteo Renzi e dei garantisti a prescindere che non leggono le carte, potrebbero chiudere per sempre la stagione del Giglio magico. Infatti in tre informative dettagliatissime, datate luglio, ottobre e novembre 2020 e firmate dal Nucleo di polizia economico-finanziaria di Firenze (a cui hanno lavorato per mesi ben dieci militari) non c'è traccia della sciatteria che l'ex premier è riuscito a contrabbandare ai più ingenui o in malafede. L'inchiesta per finanziamento illecito che vede indagati Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e l'ex presidente di Open, Alberto Bianchi, ruota intorno a un'unica questione: la fondazione era una vera fondazione impegnata in studi, ricerche e politica o era solo la cassaforte di Matteo Renzi ed era da lui diretta come sostengono il procuratore aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi? A dare la risposta sembrano due degli indagati, Bianchi e la Boschi, in una mail acquisita agli atti. Il presidente della fondazione, il 28 giugno 2018, invia ai consiglieri la bozza di una parte del verbale del consiglio d'amministrazione della fondazione, convocato per lo scioglimento di Open: «In relazione al punto due dell'ordine del giorno, il presidente rileva che il quadro seguito all'esito del referendum del 4 dicembre 2016, alle dimissioni di Matteo Renzi dalla segreteria del Pd, alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, impone la presa d'atto dell'esaurimento delle finalità statutarie della Fondazione». Insomma, Bianchi intende collegare per iscritto l'imminente chiusura di Open al fallimento politico del suo faro. La Boschi intuisce i rischi di una simile asserzione e risponde: «Grazie! Anche se il verbale è un atto “interno" per prevenire possibili polemiche laddove un domani venisse fuori o ci fossero accertamenti vari e dovesse essere esibito, non conviene essere un po' più stringati sulle motivazioni dello scioglimento? Eviterei soprattutto di citare Matteo, se fosse possibile». Insomma consiglia di far sparire la parola Renzi dal verbale in vista di possibili «accertamenti», che in effetti un anno dopo si sono verificati, portando all'incriminazione per finanziamento illecito per il Giglio magico. Il giorno successivo Bianchi invia la versione emendata con il testo più «stringato», dal quale sono stati espunti i riferimenti bocciati dalla Boschi: «In relazione al punto due dell'ordine del giorno, il presidente rileva doversi prendere atto dell'esaurimento delle finalità statutarie della Fondazione». È abbastanza chiaro che il lavoro del Dream team di avvocati messo in campo dagli indagati parte in salita. E che Open fosse la cabina di regia della macchina elettorale di Renzi lo ammette lo stesso Bianchi in una mail risalente al 2011, quando il Giglio magico si preparava alle elezioni politiche del 2013, quelle che avrebbero permesso all'allora sindaco di Firenze di conquistare Palazzo Chigi. Bianchi nel novembre di nove anni fa, scrivono i finanzieri, «inizia a teorizzare il modello della struttura a medusa, avente come testa la Fondazione e una serie di tentacoli operativi i Comitati posti sotto il coordinamento e controllo strategico del Cda della Fondazione». L'avvocato, in una mail a Carrai, ipotizza «un Cda che abbia dentro Matteo (se vuole starci) te, e altri uno o due, meglio non politici, di assoluta serietà e fiducia di voi due, che coordina e strategicamente sorveglia una serie di tentacoli operativi (i Comitati)». Poi nel cda di Open entreranno, invece, i due politici più fedeli a Renzi, Lotti e la Boschi. Bianchi ribadisce la necessità di partire subito, sottolineando che «per costruire una candidatura (quella di Renzi, ndr) 18 mesi sono il minimo». Dalla lettura della montagna di carte sequestrate all'avvocato Bianchi è evidentissimo che anche se ufficialmente il suo nome non compare nel comitato direttivo, tutto deve passare da Renzi. Per esempio in una mail il presidente della fondazione scrive a proposito di una bozza di regolamento per il fundraising: «Attendo vostri preziosi urgenti contributi, sia sulle soglie dell'articolo 2.2 che sul resto, prima di sottoporre il tutto a Matteo». Ma ci sono molti altri messaggi come questo. In una delle tre informative della guardia di finanza si legge che «emerge che i beneficiari effettivi della fondazione non riconosciuta “Open" già “Big Bang", siano stati i suoi esponenti politici di riferimento: in primo luogo, Matteo Renzi; in subordine, Luca Lotti e Maria Elena Boschi, peraltro componenti dell'organo di amministrazione della stessa». Nei controlli a campione gli investigatori citano la cena al ristorante Cibreo di Firenze «con Carlo De Benedetti, Ezio Mauro, Alessandro Baricco, parlamentari & co.». Nove commensali, tra cui Matteo, e 120 euro a testa di menù degustazione. Sono poi indicati diversi pernottamenti alberghieri dell'ex segretario Pd a Roma, Firenze, Milano. Nella lista c'è anche un volo aereo di cui si è già interessata La Verità e il nostro articolo è stato ritrovato in una cartellina nello studio Bianchi. Il 13 giugno 2018 ci eravamo chiesti chi avesse pagato il jet privato con cui Renzi era volato a Washington per una commemorazione di John Kennedy. Il suo intervento era durato solo 143 secondi. Oggi scopriamo che Open ha speso circa 1.000 euro al secondo per quella passerella. Infatti i finanzieri hanno scoperto che il volo di andata e ritorno sul Dessault Falcon 900 da 12 posti è costato 134.900, per una trasferta durata poco più di 24 ore, tra il 5 e il 6 giugno 2018. Anche per restituire i soldi ai finanziatori chiacchierati Bianchi deve passare dai politici. Che poi riportano all'avvocato l'ultima parola, quella di Matteo. Il 21 marzo 2017, a pochi giorni dall'arresto di Alfredo Romeo per la vicenda Consip e dalle inevitabili polemiche per un'erogazione data a Renzi, Bianchi scrive a Lotti: «Vorrei restituire i 60 K (il contributo di 60.000 versato nel 2012 dalla “Isvafim Spa" riconducibile allo stesso Romeo, ndr). Procedo?». Lotti è dubbioso: «Sicuro? A me sembra un mezzo boomerang». Bianchi replica: «Con Buzzi s'è fatto. Comunque valutiamo». Il riferimento è al contributo di 5.000 euro versato nel 2014 dalla Cooperativa 29 giugno guidata da Salvatore Buzzi, poi coinvolto nell'inchiesta Mafia Capitale. Dopo un po' l'ex ministro torna per l'ultima volta sull'argomento: «Matteo contrario alla restituzione», facendo «intendere di aver interpellato al riguardo Matteo Renzi e che quest'ultimo fosse contrario alla restituzione del finanziamento». Un botta e risposta che porta gli investigatori a commentare: «Tale circostanza ribadisce ulteriormente la posizione di preminenza di Matteo Renzi quale decisore finale». Ma anche la gestione delle carte di credito prepagate della fondazione Bing Bang, poi ribattezzata Open, non lascia dubbi sulla direzione delle operazioni. Addirittura una carta di credito viene affidata per un mese ad Andrea Conticini, cognato dell'ex sindaco di Firenze, e un contratto per un furgoncino viene gestito da Tiziano Renzi. Gli autisti dei camper elettorali di Matteo, anche loro a carico di Open, è gente di Rignano sull'Arno. Dalla fondazione, nel 2017, escono pure i soldi per pagare l'ufficio fiorentino di Renzi, vicino all'hotel Four Seasons, alla modica cifra di 7.000 euro al mese (84.000 euro l'anno). Nelle carte emergono i problemi per il riscaldamento e per il mobilio. All'epoca l'ex premier ha appena lasciato Palazzo Chigi e le eleganti stanze del palazzo Ximènes Panciatichi vengono occupate anche dai giovani smanettoni chiamati a gestire i social di Renzi. Anche loro sono a spese di Open. A maggio la squadretta viene licenziata in tronco con un messaggino inviato alle sette del mattino. Un ex collaboratore di Renzi avverte Bianchi che «i ragazzi si sono sentiti usati e gettati via» e che «fare così è pericoloso», anche se magari «non sono il massimo nel campo delle attività sui social». Bianchi risponde: «Io non ho la gestione dei ragazzi se non per la parte finanziaria. Non li ho scelti non so chi sono, non so se servono. Seguo indicazioni». Successivamente si tiene una riunione per risolvere la questione. In ballo ci sono ben 24 posizioni. Una vera task-force, la Bestia del fu Rottamatore. Alla fine Bianchi comunica: «Ho già detto a Matteo che poiché l'onere complessivo a carico della Fondazione è di 230.000-250.000 euro complessivi, lo reggiamo a 3 condizioni, una delle quali è che il Pd assuma a proprio carico gli oneri della Fossatelli e della Duro (Agnese Duro e Valeria Fossatelli, ndr)». Annotano gli investigatori: «Risulta emblematico il passaggio finale con cui l'avvocato Alberto Bianchi evidenzia» che «per sostenere tali costi, ha posto tre condizioni a “Matteo", una delle quali è che il Pd assuma a proprio carico gli oneri di due collaboratrici». Il collegamento tra fondazione e corrente legata a Matteo è resa plasticamente anche dalle erogazioni dei cosiddetti parlamentari renziani tra il 2013 e il 2018. Gli investigatori ne individuano trentasette paganti e tredici non paganti (tra questi Matteo Richetti, Lorenzo Guerini, Roberto Giachetti e l'ex premier Paolo Gentiloni). Il più generoso di tutti è Ernesto Carbone che in cinque anni ha versato 43.200 euro. Segue un po' più distanziato Michele Anzaldi con 24.800. Terzo «contribuente» fra gli eletti l'attuale vice presidente del Csm, David Ermini, il quale ha donato 20.000 euro. Sfiora il podio Dario Parrini (18.200), poco più sotto Francesco Bonifazi (12.800) e Andrea Marcucci (12.000). Poi, tra i più noti, l'attivista per i diritti Lgbt Ivan Scalfarotto (9.800), Lotti (9.600) e la Boschi (8.800), Simona Bonafè (4.000) e, fanalino di coda, Davide Faraone (1.600).
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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