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2022-06-27
L'autonomia tradita
Arrivati al giro di boa, meglio affidarsi alla concretezza. L’autonomia non si può più rimandare. Le prime tre Regioni ad aver avviato il processo che porta al regionalismo differenziato - Veneto, Lombardia, Emilia Romagna - sanno di non poter perdere altro tempo. Dopo quasi cinque anni di attese (in mezzo un referendum, tre governi, una serie lunghissima di discussioni, tavoli e commissioni) tra i governatori del Nord si è fatta largo una convinzione: la legge quadro, cioè la cornice dentro cui inserire le intese tra lo Stato e le Regioni sulle materie da trasferire, deve arrivare in Consiglio dei ministri il prima possibile. O almeno non più tardi del prossimo autunno, quando tra i palazzi della politica si comincerà a discutere solo di legge di bilancio. E pazienza se qualche limatura al testo dovrà essere apportata, come pensa il presidente del Veneto Luca Zaia.
Da qualche parte si dovrà pur cominciare: «Facciamo il primo passo; se avesse seguito il criterio della perfezione, Cristoforo Colombo sarebbe ancora fermo a Palos», confida chi sta seguendo l’evoluzione del dossier per conto delle Regioni. «La fase decisiva non è quella delle pregiudiziali, ma la successiva», quando le intese dovranno essere esaminate, dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri e prima del definitivo passaggio in aula, dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali. Il pieno coinvolgimento del Parlamento è una delle materie di scontro tra gli autonomisti e chi predica cautela sulla strada che porta al regionalismo: in risposta a un’interrogazione sull’Autonomia differenziata, il ministro per il Sud, Mara Carfagna, l’ha posta come una delle condizioni «imprescindibili» per l’approvazione del disegno di legge. «Nel processo di approvazione dell’intesa preliminare tra lo Stato e le Regioni, il Parlamento è già adeguatamente coinvolto», ribatte Andrea Giovanardi, professore di diritto tributario all’università di Trento. «La Commissione competente esprime il suo parere su un accordo che, in ultima battuta, verrà approvato dalle Camere a maggioranza assoluta dei suoi componenti. L’errore, semmai, è pensare di poter emendare un testo su cui Stato e Regioni hanno raggiunto un’intesa: è come se due parti stipulassero un contratto e un terzo modificasse l’accordo concluso, indipendentemente dalla loro volontà. Siamo di fronte a un problema logico, prima ancora che giuridico».
Tra i nodi più ingarbugliati della riforma, ci sono i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), cioè gli standard minimi per le prestazioni e i servizi che lo Stato deve garantire su tutto il territorio nazionale, che le Regioni aspettano di conoscere da più di dieci anni. La bozza di legge messa a punto dal ministro per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini, li considera «una condizione necessaria» per il trasferimento di alcune funzioni, come la sanità, l’istruzione, l’assistenza e il trasporto pubblico locale.
Peccato che i primi a mettere in dubbio il vincolo dei Lep siano stati proprio gli esperti scelti dal ministero per fornire un parere sull’autonomia: nella relazione conclusiva consegnata alla Gelmini, il gruppo di lavoro presieduto dal professor Beniamino Caravita (recentemente scomparso) esclude la possibilità di subordinare l’attuazione del regionalismo differenziato alla preventiva definizione dei Lep. Restando inerte, infatti, lo Stato potrebbe rinviare indefinitamente ogni possibilità di accordo con le Regioni su alcune delle materie più importanti. «Siamo in una situazione ridicola e paradossale: chi avrebbe dovuto provvedere fa ricadere sulle Regioni la mancata definizione dei Lep, rischiando di impantanare tutto il processo», spiega alla Verità il professor Mario Bertolissi, costituzionalista e membro della Commissione veneta per l’autonomia.
In attesa che lo Stato si decida a intervenire, nella bozza di legge quadro si è scelta la più classica delle mediazioni: Veneto e Lombardia avrebbero voluto inserire il criterio della spesa storica media pro capite italiana, una volta trascorsi tre anni dall’intesa senza un passo avanti sui Lep, ma si sono dovute accontentare della quota attuale di spesa storica a loro già oggi attribuita, che è inferiore, secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato, alla media italiana. «Il criterio dei costi storici è perverso: lo Stato rimborsa la Regione senza una valutazione di merito, ma sulla base di quanto è stato speso l’anno precedente», ricorda chi ha partecipato alla trattativa per conto di Regione Lombardia. Di fatto, significa premiare chi spende di più e peggio. «Al ministero dell’Economia», prosegue Bertolissi, «hanno fatto i conti e si sono accorti che superare il criterio dei costi storici significherebbe rimetterci dei soldi. E di trasferire fondi alle Regioni, a Roma, non hanno alcun interesse: per questo, preferiscono lasciare tutto com’è».
Contro le «repubblichette» e la «secessione dei ricchi», sono tornati a farsi sentire giuristi, accademici e sindacati, preoccupati dalla possibile accelerazione del percorso verso l’autonomia, che metterebbe in discussione - a loro dire - l’unità nazionale. «Chi più ha, più ottiene; chi meno ha, si frega», ha scritto l’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Per impedire il regionalismo differenziato, circa 200 intellettuali hanno sottoscritto un disegno di legge costituzionale d’iniziativa popolare, con l’obiettivo di modificare la potestà legislativa delle Regioni e il rapporto tra periferia e Stato centrale. «Manutenzione straordinaria», la chiama il professor Massimo Villone, emerito di diritto costituzionale all’università Federico II di Napoli, tra i firmatari della proposta di legge. «Agli attacchi pieni di slogan e non argomentati siamo abituati», ragiona ancora il professor Giovanardi. «Eppure, al di là di quello che pensano Villone e gli altri, la formulazione dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione non lascia spazio a dubbi. Si può provare a cambiarlo, certamente, ma finché quell’articolo c’è deve essere attuato. Non si tratta di un atto eversivo, come ha ribadito il presidente Zaia: le iniziative regionali rispettano la nostra Costituzione, che non può essere utilizzata a sostegno di argomentazioni di parte solo quando fa comodo».
«Salvini doveva metterci la faccia. Ora siamo su un binario morto»
«Il terreno dell’autonomia differenziata è disseminato di trappole, c’è un’altissima probabilità che la questione settentrionale finisca su un binario morto». Nei Comitati per l’autonomia del Veneto c’è una certa delusione, l’incontro tra il ministro degli Affari regionali, Mariastella Gelmini, e i governatori del Nord non è bastato a far cambiare idea ai venetisti, convinti che la bozza di legge quadro sia una «riforma annacquata».
Paolo Franco, ex senatore leghista e responsabile dei Comitati per l’autonomia del Veneto, lei parla senza mezzi termini di «autonomia tradita», perché?
«La legge quadro, così come è scritta, è incostituzionale. L’articolo 116 della Costituzione prevede due fasi: l’intesa tra lo Stato e le Regioni e poi l’approvazione dell’accordo da parte delle Camere, a maggioranza assoluta dei componenti. La legge quadro cambia completamente il procedimento legislativo, rendendolo contorto e contraddittorio».
In quali punti?
«I passaggi iniziali sono più che raddoppiati: c’è la richiesta della Regione, il negoziato che produce lo schema di intesa preliminare, la discussione del testo nelle commissioni parlamentari, la trasmissione della legge alle Camere da parte del governo e infine la deliberazione».
Cosa non va in tutto ciò?
«Il testo di intesa che il governo trasmette alle Camere può cambiare in base al parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Di fatto, potremmo ritrovarci con due testi: il primo sottoscritto dalle Regioni che chiedono l’autonomia e un secondo sul quale le Regioni non possono intervenire, né tantomeno firmare, perché il testo Gelmini non lo prevede. Un presidente di Regione che approva l’intesa preliminare potrebbe ritrovarsi con una intesa definitiva modificata, sulla quale non avrà alcun potere: si porta a casa ciò che la commissione e il governo avranno deciso di cambiare, punto».
Sulle materie principali - sanità, assistenza, istruzione e trasporto pubblico - la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (i famosi Lep) è la condizione necessaria per il trasferimento delle funzioni. Porre tale vincolo significa non voler trasferire affatto queste materie?
«Tra il 2010 e il 2013, sono stato vicepresidente della Bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale e già allora si parlava dei Lep».
Perché non sono mai stati definiti?
«La definizione dei Lep metterebbe in difficoltà alcune Regioni, che per i settori più importanti preferiscono continuare a spendere in base al criterio delle spesa storica. Se per oltre 10 anni nessuno ha mai messo mano ai Lep, è perché non c’è la volontà politica di farlo. Non mi stupisce che abbiano voluto inserire questa trappola nella legge quadro, significa impedire la concessione delle materie».
«Le modalità di finanziamento delle funzioni conferite devono essere individuate anche tra i tributi propri della Regione», si legge nella bozza di legge quadro. La convince questa disposizione?
«La legge sul federalismo fiscale del 2009 dice che, nel momento in cui si attribuiscono maggiori competenze alle Regioni, viene lasciata una compartecipazione corrispondente al costo sostenuto a livello periferico. La legge quadro invece parla anche di riserva di imposta e tributi propri: ciò vuol dire che lo Stato non darà indietro 100, ma magari 80. Il resto sono tributi propri, ma ciò non è scritto nella legge sul federalismo fiscale».
Lei ha scritto che «la Lega, il partito alfiere del progetto, ha abdicato ai propri principi originari».
«Non è da ieri o dal mese scorso che Matteo Salvini ha abbandonato la questione settentrionale. Il progetto dell’autonomia è rimasto orfano almeno dall’inizio della legislatura. Non imponendo l’attuazione dell’autonomia differenziata, Salvini ha commesso un grave errore: per le sue mire personali, siamo finiti nella mani di chi spera che il regionalismo non abbia mai luogo».
Ritiene che le incertezze sul regionalismo abbiano influito sul voto delle amministrative?
«È evidente. E non perché la Lega di Salvini è diventata un partito nazionale, ma perché oggi è un partito centralista: ragionano solamente in base alle funzioni dello Stato centralista, per questo al nord sono stati puniti».
Come giudica il lavoro dei governatori?
«Mi infastidisce il gioco di rimessa che stanno portando avanti. C’è una specie di paura, di giustificazione nelle loro parole. Sembra che si vergognino di questa battaglia».
La legge quadro sarà anche imperfetta, ma tra i governatori si è fatta largo una convinzione: da qualche parte si dovrà pur partire.
«Noto un certo imbarazzo tra i governatori: sanno benissimo che la legge quadro è una tomba per l’autonomia differenziata. Sono consapevoli del fatto che se non portano a casa nulla faranno fatica a ripresentarsi agli elettori nella prossima legislatura. Quindi dicono “turiamoci il naso e portiamo a casa questa schifezza”, ma io questa schifezza non la accetto. Ci sono dei punti che devono essere modificati e resi aderenti a quanto previsto dalla Costituzione».
«La legge va approvata in fretta. Dopo non si può tornare indietro»
Nella trattativa politica sull’autonomia differenziata, tutte le mosse vanno pesate: ci sono posizioni da limare, compromessi da accettare. Ogni parola rischia di sollevare un polverone: «Molti aspetti di questa vicenda sono stati usati ad arte per buttare la palla in tribuna», racconta alla Verità Stefano Bruno Galli, Assessore all’Autonomia e alla Cultura di Regione Lombardia. Il percorso verso il regionalismo differenziato è ancora lungo, ma qualche punto fermo si comincia a intravedere: «Una volta approvata la legge quadro, non ci sono più alibi».
Assessore, il tema del contendere è proprio la legge quadro: i più intransigenti in Veneto non la vedono proprio di buon occhio.
«Quella messa a punto dal ministro Gelmini è sostanzialmente una legge procedurale, che colma una lacuna emersa nelle trattative del 2018, primo governo Conte. Dalla riforma del Titolo V della Costituzione (2001) a oggi, l’articolo 116 è rimasto di fatto inattuato: le Regioni possono chiedere al governo di iniziare un percorso per ottenere maggiore autonomia politica e amministrativa, ma nessuno ha mai spiegato come fare. Per 20 anni si è brancolato nel buio».
Insomma, meglio una legge imperfetta che nessuna legge?
«Si poteva anche fare a meno di questa legge quadro. Però, se è volontà esplicita del ministro procedere in questa direzione, si faccia presto e con minori danni possibili per le Regioni sedute al tavolo della trattativa».
Che tipo di danni intravede?
«Temo che al governo possano sorgere delle frizioni, che potrebbero riversarsi nel passaggio parlamentare».
Il ministro per il Sud e la Coesione Territoriale, la forzista Mara Carfagna, pone alcune questioni imprescindibili per l’approvazione del Disegno di legge: fondo perequativo, l’abbandono della spesa storica e, soprattutto, la definizione dei LEP, che per i venetisti renderebbe impossibile l’autonomia nelle materie fondamentali.
«Più rapidamente si approva questa legge, meglio è. È chiaro che devono esserci dei compromessi».
Altrimenti non verrebbe neanche approvata.
«Esatto. Una volta che viene approvata la legge quadro, non si torna più indietro. Ciò vale per il governo e per il Parlamento. Come Regione Lombardia, i nostri compiti li abbiamo fatti e siamo pronti a mettere le carte sul tavolo. Si proceda alla svelta, perché ogni volta che si fanno dei passi in avanti si alza la crociata, per lo più una battaglia di retroguardia, dei vari intellettuali, pronti a strumentalizzare i dati e i concetti per buttare fango sull’autonomia».
La chiamano «secessione dei ricchi», è così?
«Niente affatto. Questa è una riforma che non crea danni. Semmai, consentirà alle Regioni con un sistema produttivo avanzato e una capacità fiscale forte di sviluppare ulteriormente queste attitudini e aumentare le risorse da redistribuire con il resto del Paese. La partita dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione si spiega con due parole».
Quali?
«Efficienza e responsabilità. Se una Regione chiede di avere maggiori margini di autonomia, deve dimostrare la propria efficienza. Qualsiasi forma di servizio, erogato dalla Lombardia, dal Veneto, dall’Emilia Romagna o dal Piemonte, deve costare meno e garantire una maggiore qualità, nell’interesse di tutti i cittadini. Stiamo parlando di un elemento di innovazione per il sistema istituzionale di questo Paese, per dimostrare finalmente di essere più moderni, agili e meno incancreniti. Dobbiamo renderci conto che questo Paese, dal 1970 a oggi, ha perseguito quello che tecnicamente si chiama regionalismo ordinario dell’uniformità, che ha come obiettivo la garanzia di uguali diritti e tutele per tutti i cittadini della Repubblica».
Cosa c’è di male in questo?
«Assolutamente nulla, si stratta di uno scopo nobilissimo e fondamentale. Tuttavia, è stato proprio il regionalismo ordinario dell’uniformità a rivelare le differenze di rendimento istituzionale. Se in Lombardia esiste il turismo sanitario, significa che i diritti di welfare che può garantire la nostra Regione sono nettamente superiori rispetto a quelli di altre Regioni, dalle quali proviene chi si fa curare. Se i sistemi di welfare di quelle Regioni non migliorano in termini di qualità, efficienza e riduzione degli sprechi, il Paese andrà sempre peggio».
Secondo l’ex presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, l’economista Giuseppe Pisauro, rischiamo di ritrovarci con «20 Regioni a statuto speciale».
«Non è così. Il regionalismo differenziato esiste già nelle Regioni a Statuto speciale. I margini di autonomia del Friuli Venezia Giulia, l’ultima Regione tra quelle a Statuto speciale, sono nettamente inferiori rispetto a quelle della Sicilia. La specialità si differenzia in base agli aspetti fiscali, alle competenze legislative e amministrative riconosciute e risiede negli Statuti di autonomia delle cinque Regioni. Il 116 comma 3, invece, ha l’obiettivo di applicare il principio dei differenti margini di autonomia anche alle altre Regioni. Le 15 Regioni ordinarie non diventeranno mai a Statuto speciale, dal punto di vista teorico è una stupidaggine».
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Cinque anni fa in Lombardia e Veneto un plebiscito approvò i referendum. Si unì anche l’Emilia Romagna. Ora la legislatura è agli sgoccioli. E i ministri di centrodestra non riescono a dare una risposta seria alle richieste dei cittadini.«Salvini doveva metterci la faccia. Ora siamo su un binario morto». Paolo Franco, l'ex senatore leghista responsabile dei Comitati veneti: «Il progetto è rimasto lettera morta già dal governo Conte 1. Il testo presentato dalla Gelmini è annacquato e incostituzionale. C’è imbarazzo tra i governatori».«La legge va approvata in fretta. Dopo non si può tornare indietro». L’assessore lombardo Stefano Bruno Galli: «Chiediamo poteri simili agli enti locali con Statuto speciale».Lo speciale comprende tre articoli. Arrivati al giro di boa, meglio affidarsi alla concretezza. L’autonomia non si può più rimandare. Le prime tre Regioni ad aver avviato il processo che porta al regionalismo differenziato - Veneto, Lombardia, Emilia Romagna - sanno di non poter perdere altro tempo. Dopo quasi cinque anni di attese (in mezzo un referendum, tre governi, una serie lunghissima di discussioni, tavoli e commissioni) tra i governatori del Nord si è fatta largo una convinzione: la legge quadro, cioè la cornice dentro cui inserire le intese tra lo Stato e le Regioni sulle materie da trasferire, deve arrivare in Consiglio dei ministri il prima possibile. O almeno non più tardi del prossimo autunno, quando tra i palazzi della politica si comincerà a discutere solo di legge di bilancio. E pazienza se qualche limatura al testo dovrà essere apportata, come pensa il presidente del Veneto Luca Zaia.Da qualche parte si dovrà pur cominciare: «Facciamo il primo passo; se avesse seguito il criterio della perfezione, Cristoforo Colombo sarebbe ancora fermo a Palos», confida chi sta seguendo l’evoluzione del dossier per conto delle Regioni. «La fase decisiva non è quella delle pregiudiziali, ma la successiva», quando le intese dovranno essere esaminate, dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri e prima del definitivo passaggio in aula, dalla Commissione parlamentare per le questioni regionali. Il pieno coinvolgimento del Parlamento è una delle materie di scontro tra gli autonomisti e chi predica cautela sulla strada che porta al regionalismo: in risposta a un’interrogazione sull’Autonomia differenziata, il ministro per il Sud, Mara Carfagna, l’ha posta come una delle condizioni «imprescindibili» per l’approvazione del disegno di legge. «Nel processo di approvazione dell’intesa preliminare tra lo Stato e le Regioni, il Parlamento è già adeguatamente coinvolto», ribatte Andrea Giovanardi, professore di diritto tributario all’università di Trento. «La Commissione competente esprime il suo parere su un accordo che, in ultima battuta, verrà approvato dalle Camere a maggioranza assoluta dei suoi componenti. L’errore, semmai, è pensare di poter emendare un testo su cui Stato e Regioni hanno raggiunto un’intesa: è come se due parti stipulassero un contratto e un terzo modificasse l’accordo concluso, indipendentemente dalla loro volontà. Siamo di fronte a un problema logico, prima ancora che giuridico». Tra i nodi più ingarbugliati della riforma, ci sono i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), cioè gli standard minimi per le prestazioni e i servizi che lo Stato deve garantire su tutto il territorio nazionale, che le Regioni aspettano di conoscere da più di dieci anni. La bozza di legge messa a punto dal ministro per gli Affari regionali, Mariastella Gelmini, li considera «una condizione necessaria» per il trasferimento di alcune funzioni, come la sanità, l’istruzione, l’assistenza e il trasporto pubblico locale. Peccato che i primi a mettere in dubbio il vincolo dei Lep siano stati proprio gli esperti scelti dal ministero per fornire un parere sull’autonomia: nella relazione conclusiva consegnata alla Gelmini, il gruppo di lavoro presieduto dal professor Beniamino Caravita (recentemente scomparso) esclude la possibilità di subordinare l’attuazione del regionalismo differenziato alla preventiva definizione dei Lep. Restando inerte, infatti, lo Stato potrebbe rinviare indefinitamente ogni possibilità di accordo con le Regioni su alcune delle materie più importanti. «Siamo in una situazione ridicola e paradossale: chi avrebbe dovuto provvedere fa ricadere sulle Regioni la mancata definizione dei Lep, rischiando di impantanare tutto il processo», spiega alla Verità il professor Mario Bertolissi, costituzionalista e membro della Commissione veneta per l’autonomia. In attesa che lo Stato si decida a intervenire, nella bozza di legge quadro si è scelta la più classica delle mediazioni: Veneto e Lombardia avrebbero voluto inserire il criterio della spesa storica media pro capite italiana, una volta trascorsi tre anni dall’intesa senza un passo avanti sui Lep, ma si sono dovute accontentare della quota attuale di spesa storica a loro già oggi attribuita, che è inferiore, secondo i dati della Ragioneria generale dello Stato, alla media italiana. «Il criterio dei costi storici è perverso: lo Stato rimborsa la Regione senza una valutazione di merito, ma sulla base di quanto è stato speso l’anno precedente», ricorda chi ha partecipato alla trattativa per conto di Regione Lombardia. Di fatto, significa premiare chi spende di più e peggio. «Al ministero dell’Economia», prosegue Bertolissi, «hanno fatto i conti e si sono accorti che superare il criterio dei costi storici significherebbe rimetterci dei soldi. E di trasferire fondi alle Regioni, a Roma, non hanno alcun interesse: per questo, preferiscono lasciare tutto com’è». Contro le «repubblichette» e la «secessione dei ricchi», sono tornati a farsi sentire giuristi, accademici e sindacati, preoccupati dalla possibile accelerazione del percorso verso l’autonomia, che metterebbe in discussione - a loro dire - l’unità nazionale. «Chi più ha, più ottiene; chi meno ha, si frega», ha scritto l’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris. Per impedire il regionalismo differenziato, circa 200 intellettuali hanno sottoscritto un disegno di legge costituzionale d’iniziativa popolare, con l’obiettivo di modificare la potestà legislativa delle Regioni e il rapporto tra periferia e Stato centrale. «Manutenzione straordinaria», la chiama il professor Massimo Villone, emerito di diritto costituzionale all’università Federico II di Napoli, tra i firmatari della proposta di legge. «Agli attacchi pieni di slogan e non argomentati siamo abituati», ragiona ancora il professor Giovanardi. «Eppure, al di là di quello che pensano Villone e gli altri, la formulazione dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione non lascia spazio a dubbi. Si può provare a cambiarlo, certamente, ma finché quell’articolo c’è deve essere attuato. Non si tratta di un atto eversivo, come ha ribadito il presidente Zaia: le iniziative regionali rispettano la nostra Costituzione, che non può essere utilizzata a sostegno di argomentazioni di parte solo quando fa comodo».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lautonomia-tradita-2657565586.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="salvini-doveva-metterci-la-faccia-ora-siamo-su-un-binario-morto" data-post-id="2657565586" data-published-at="1656283949" data-use-pagination="False"> «Salvini doveva metterci la faccia. Ora siamo su un binario morto» «Il terreno dell’autonomia differenziata è disseminato di trappole, c’è un’altissima probabilità che la questione settentrionale finisca su un binario morto». Nei Comitati per l’autonomia del Veneto c’è una certa delusione, l’incontro tra il ministro degli Affari regionali, Mariastella Gelmini, e i governatori del Nord non è bastato a far cambiare idea ai venetisti, convinti che la bozza di legge quadro sia una «riforma annacquata». Paolo Franco, ex senatore leghista e responsabile dei Comitati per l’autonomia del Veneto, lei parla senza mezzi termini di «autonomia tradita», perché? «La legge quadro, così come è scritta, è incostituzionale. L’articolo 116 della Costituzione prevede due fasi: l’intesa tra lo Stato e le Regioni e poi l’approvazione dell’accordo da parte delle Camere, a maggioranza assoluta dei componenti. La legge quadro cambia completamente il procedimento legislativo, rendendolo contorto e contraddittorio». In quali punti? «I passaggi iniziali sono più che raddoppiati: c’è la richiesta della Regione, il negoziato che produce lo schema di intesa preliminare, la discussione del testo nelle commissioni parlamentari, la trasmissione della legge alle Camere da parte del governo e infine la deliberazione». Cosa non va in tutto ciò? «Il testo di intesa che il governo trasmette alle Camere può cambiare in base al parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali. Di fatto, potremmo ritrovarci con due testi: il primo sottoscritto dalle Regioni che chiedono l’autonomia e un secondo sul quale le Regioni non possono intervenire, né tantomeno firmare, perché il testo Gelmini non lo prevede. Un presidente di Regione che approva l’intesa preliminare potrebbe ritrovarsi con una intesa definitiva modificata, sulla quale non avrà alcun potere: si porta a casa ciò che la commissione e il governo avranno deciso di cambiare, punto». Sulle materie principali - sanità, assistenza, istruzione e trasporto pubblico - la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (i famosi Lep) è la condizione necessaria per il trasferimento delle funzioni. Porre tale vincolo significa non voler trasferire affatto queste materie? «Tra il 2010 e il 2013, sono stato vicepresidente della Bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale e già allora si parlava dei Lep». Perché non sono mai stati definiti? «La definizione dei Lep metterebbe in difficoltà alcune Regioni, che per i settori più importanti preferiscono continuare a spendere in base al criterio delle spesa storica. Se per oltre 10 anni nessuno ha mai messo mano ai Lep, è perché non c’è la volontà politica di farlo. Non mi stupisce che abbiano voluto inserire questa trappola nella legge quadro, significa impedire la concessione delle materie». «Le modalità di finanziamento delle funzioni conferite devono essere individuate anche tra i tributi propri della Regione», si legge nella bozza di legge quadro. La convince questa disposizione? «La legge sul federalismo fiscale del 2009 dice che, nel momento in cui si attribuiscono maggiori competenze alle Regioni, viene lasciata una compartecipazione corrispondente al costo sostenuto a livello periferico. La legge quadro invece parla anche di riserva di imposta e tributi propri: ciò vuol dire che lo Stato non darà indietro 100, ma magari 80. Il resto sono tributi propri, ma ciò non è scritto nella legge sul federalismo fiscale». Lei ha scritto che «la Lega, il partito alfiere del progetto, ha abdicato ai propri principi originari». «Non è da ieri o dal mese scorso che Matteo Salvini ha abbandonato la questione settentrionale. Il progetto dell’autonomia è rimasto orfano almeno dall’inizio della legislatura. Non imponendo l’attuazione dell’autonomia differenziata, Salvini ha commesso un grave errore: per le sue mire personali, siamo finiti nella mani di chi spera che il regionalismo non abbia mai luogo». Ritiene che le incertezze sul regionalismo abbiano influito sul voto delle amministrative? «È evidente. E non perché la Lega di Salvini è diventata un partito nazionale, ma perché oggi è un partito centralista: ragionano solamente in base alle funzioni dello Stato centralista, per questo al nord sono stati puniti». Come giudica il lavoro dei governatori? «Mi infastidisce il gioco di rimessa che stanno portando avanti. C’è una specie di paura, di giustificazione nelle loro parole. Sembra che si vergognino di questa battaglia». La legge quadro sarà anche imperfetta, ma tra i governatori si è fatta largo una convinzione: da qualche parte si dovrà pur partire. «Noto un certo imbarazzo tra i governatori: sanno benissimo che la legge quadro è una tomba per l’autonomia differenziata. Sono consapevoli del fatto che se non portano a casa nulla faranno fatica a ripresentarsi agli elettori nella prossima legislatura. Quindi dicono “turiamoci il naso e portiamo a casa questa schifezza”, ma io questa schifezza non la accetto. Ci sono dei punti che devono essere modificati e resi aderenti a quanto previsto dalla Costituzione». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lautonomia-tradita-2657565586.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-legge-va-approvata-in-fretta-dopo-non-si-puo-tornare-indietro" data-post-id="2657565586" data-published-at="1656283949" data-use-pagination="False"> «La legge va approvata in fretta. Dopo non si può tornare indietro» Nella trattativa politica sull’autonomia differenziata, tutte le mosse vanno pesate: ci sono posizioni da limare, compromessi da accettare. Ogni parola rischia di sollevare un polverone: «Molti aspetti di questa vicenda sono stati usati ad arte per buttare la palla in tribuna», racconta alla Verità Stefano Bruno Galli, Assessore all’Autonomia e alla Cultura di Regione Lombardia. Il percorso verso il regionalismo differenziato è ancora lungo, ma qualche punto fermo si comincia a intravedere: «Una volta approvata la legge quadro, non ci sono più alibi». Assessore, il tema del contendere è proprio la legge quadro: i più intransigenti in Veneto non la vedono proprio di buon occhio. «Quella messa a punto dal ministro Gelmini è sostanzialmente una legge procedurale, che colma una lacuna emersa nelle trattative del 2018, primo governo Conte. Dalla riforma del Titolo V della Costituzione (2001) a oggi, l’articolo 116 è rimasto di fatto inattuato: le Regioni possono chiedere al governo di iniziare un percorso per ottenere maggiore autonomia politica e amministrativa, ma nessuno ha mai spiegato come fare. Per 20 anni si è brancolato nel buio». Insomma, meglio una legge imperfetta che nessuna legge? «Si poteva anche fare a meno di questa legge quadro. Però, se è volontà esplicita del ministro procedere in questa direzione, si faccia presto e con minori danni possibili per le Regioni sedute al tavolo della trattativa». Che tipo di danni intravede? «Temo che al governo possano sorgere delle frizioni, che potrebbero riversarsi nel passaggio parlamentare». Il ministro per il Sud e la Coesione Territoriale, la forzista Mara Carfagna, pone alcune questioni imprescindibili per l’approvazione del Disegno di legge: fondo perequativo, l’abbandono della spesa storica e, soprattutto, la definizione dei LEP, che per i venetisti renderebbe impossibile l’autonomia nelle materie fondamentali. «Più rapidamente si approva questa legge, meglio è. È chiaro che devono esserci dei compromessi». Altrimenti non verrebbe neanche approvata. «Esatto. Una volta che viene approvata la legge quadro, non si torna più indietro. Ciò vale per il governo e per il Parlamento. Come Regione Lombardia, i nostri compiti li abbiamo fatti e siamo pronti a mettere le carte sul tavolo. Si proceda alla svelta, perché ogni volta che si fanno dei passi in avanti si alza la crociata, per lo più una battaglia di retroguardia, dei vari intellettuali, pronti a strumentalizzare i dati e i concetti per buttare fango sull’autonomia». La chiamano «secessione dei ricchi», è così? «Niente affatto. Questa è una riforma che non crea danni. Semmai, consentirà alle Regioni con un sistema produttivo avanzato e una capacità fiscale forte di sviluppare ulteriormente queste attitudini e aumentare le risorse da redistribuire con il resto del Paese. La partita dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione si spiega con due parole». Quali? «Efficienza e responsabilità. Se una Regione chiede di avere maggiori margini di autonomia, deve dimostrare la propria efficienza. Qualsiasi forma di servizio, erogato dalla Lombardia, dal Veneto, dall’Emilia Romagna o dal Piemonte, deve costare meno e garantire una maggiore qualità, nell’interesse di tutti i cittadini. Stiamo parlando di un elemento di innovazione per il sistema istituzionale di questo Paese, per dimostrare finalmente di essere più moderni, agili e meno incancreniti. Dobbiamo renderci conto che questo Paese, dal 1970 a oggi, ha perseguito quello che tecnicamente si chiama regionalismo ordinario dell’uniformità, che ha come obiettivo la garanzia di uguali diritti e tutele per tutti i cittadini della Repubblica». Cosa c’è di male in questo? «Assolutamente nulla, si stratta di uno scopo nobilissimo e fondamentale. Tuttavia, è stato proprio il regionalismo ordinario dell’uniformità a rivelare le differenze di rendimento istituzionale. Se in Lombardia esiste il turismo sanitario, significa che i diritti di welfare che può garantire la nostra Regione sono nettamente superiori rispetto a quelli di altre Regioni, dalle quali proviene chi si fa curare. Se i sistemi di welfare di quelle Regioni non migliorano in termini di qualità, efficienza e riduzione degli sprechi, il Paese andrà sempre peggio». Secondo l’ex presidente dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio, l’economista Giuseppe Pisauro, rischiamo di ritrovarci con «20 Regioni a statuto speciale». «Non è così. Il regionalismo differenziato esiste già nelle Regioni a Statuto speciale. I margini di autonomia del Friuli Venezia Giulia, l’ultima Regione tra quelle a Statuto speciale, sono nettamente inferiori rispetto a quelle della Sicilia. La specialità si differenzia in base agli aspetti fiscali, alle competenze legislative e amministrative riconosciute e risiede negli Statuti di autonomia delle cinque Regioni. Il 116 comma 3, invece, ha l’obiettivo di applicare il principio dei differenti margini di autonomia anche alle altre Regioni. Le 15 Regioni ordinarie non diventeranno mai a Statuto speciale, dal punto di vista teorico è una stupidaggine».
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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