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2022-11-28
L’arsenale dei vaccini Mrna. Ecco qual è il vero obiettivo
iStock
È strano immaginare un sistema sanitario pubblico concentrato sulla vaccinazione di tutti i sani, anziché sulla cura dei soli malati. Il futuro, però, è questo, ed è ormai delineato con chiarezza. Qualcuno, come Matteo Bassetti, lo ha già anticipato dichiarando che dobbiamo «rassegnarci a un futuro a mRna». Un lapsus freudiano, perché di solito non ci si «rassegna» alle buone notizie, quando sono tali. Il documento ufficiale che decreta il cambio di paradigma, epocale, è il testo conclusivo del G20 dei ministri della Salute (per l’Italia, Orazio Schillaci), pubblicato lo scorso 28 ottobre.
Per i Grandi del mondo, le tre questioni prioritarie per la salute sono: «Costruire la resilienza (ancora!, ndr) del sistema sanitario globale, armonizzare i protocolli sanitari mondiali, espandere gli hub globali di produzione e ricerca», con particolare attenzione a quelli che lavorano sulla tecnologia mRna (come la Fondazione mRna di Padova, che ha ricevuto 320 milioni del Pnrr coinvolgendo ben 36 «spoke» nella mangiatoia). L’obiettivo è «facilitare un migliore accesso ai servizi». Più ospedali? Più medicina territoriale? Più medici? Macché: il G20 identifica questi servizi con «vaccini, terapie (leggi farmaci, ndr) e diagnostica» (Vtd) a livello globale, ossia profilassi preventive per evitare che ci si ammali, nell’ambito dell’approccio One Health di cui ha parlato anche il presidente Giorgia Meloni a Bali.
Un arsenale a mRna realizzato innanzitutto per combattere le prime dieci minacce alla salute globale individuate dall’Oms (Ebola, Sars, Mers, lo stesso Covid che ha una mortalità dello 0,02% o la «malattia X», che ancora non si sa cosa sia, ma per prudenza è in lista). Nel mondo occidentale, però, si continua a morire di infarto, ischemia, cancro, diabete, malattie respiratorie. Ed è questo il punto d’approdo delle terapie a mRna: terapie e vaccinazioni non per le malattie del terzo mondo ma per quelle del primo. Le malattie non trasmissibili, insomma: tumori, diabete, glaucoma, le cosiddette «malattie dei ricchi» e dei servizi sanitari «ricchi».
Mesi fa, il direttore di Oms Europa, Hans Kluge, aveva spiegato che siamo chiamati a combattere una «permacrisi» globale. La popolazione mondiale aumenta (abbiamo da poco superato gli 8 miliardi), curare tutti non è più sostenibile e le tecnologie terapeutiche a mRna - nella mente dei cervelloni della salute globale - rappresentano la soluzione. È su queste che si stanno concentrando i maggiori investimenti, miliardi di euro destinati non a migliorare strutture ospedaliere, costruire più ospedali o formare nuovi medici, ma a far produrre, per ogni malattia, vaccini e terapie ad hoc da aziende e organismi privati. Quelli coinvolti dai Grandi del mondo sono i soliti, riconducibili a una sola persona, quel Bill Gates benedetto dal World economic forum: Global fund (cui l’Italia ha versato finora più di un miliardo e mezzo di dollari), Gavi Alliance, Cepi, Unitaid, eccetera, ai quali il G20, che rappresenta le istituzioni, riconosce ufficialmente il ruolo di «partner». È rivolto a loro, e alle «filantropie» (citofonare Soros), l’appello a «sostenere investimenti, organizzazioni e iniziative sanitarie». Un vaccino per evitare il cancro, un vaccino per evitare il diabete, e via dicendo, da somministrare a tutti, dai neonati ai centenari. Sembra un futuro lontano, ma è già il nostro presente.
Lo step successivo, sperimentato per la prima volta con il Covid, è il passaggio all’obbligatorietà di queste profilassi vaccinali e terapeutiche con la giustificazione che «non si possono intasare gli ospedali». Qui, rientrano in scena le istituzioni, con il meccanismo gradualmente avviato in pandemia. In teoria, tutta l’impalcatura del green pass non serve più; in realtà continua a esistere. In teoria, soltanto i medici e soltanto in pochissimi Paesi (tra i quali, neanche a dirlo, l’Italia) sono stati forzati a vaccinarsi; in realtà nel documento del G20 la certificazione verde anti Covid deve essere implementata su scala globale, dato che i ministri «si adoperano per procedere verso meccanismi che convalidino la prova della vaccinazione». In teoria, l’obbligatorietà è durata pochi mesi e ha riguardato soltanto un vaccino, l’anti Covid; in realtà sarà estendibile ad altri vaccini perché «bisogna capitalizzare il successo degli standard esistenti e del green pass per rafforzare la prevenzione e la risposta alle future pandemie».
Non è un caso che la federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) abbia modificato le regole deontologiche della professione, annunciando che saranno introdotti articoli relativi ai vaccini e alle vaccinazioni: i medici non potranno sconsigliarne l’utilizzo. L’archetipo, insomma, abbiamo imparato a conoscerlo: perennizzazione della crisi sanitaria attraverso il paradigma ideologico della «permacrisi», commissionamento del prodotto salvifico (vaccini e terapie mRna) a privati che ne assicurano produzione e gestione - e fin qui niente di nuovo - ma poi anche deresponsabilizzazione dello Stato a discapito del cittadino, perché le tasse (già molto alte nell’Ue) non bastano più. Ciliegina sulla torta: i nuovi farmaci saranno realizzati nei Paesi poveri del mondo: una mancia non si rifiuta a nessuno e la propaganda buonista vuole sempre la sua parte.
«Non decide lo Stato come devo curarmi»
«Se questa è la situazione, non chiamiamolo più “sistema sanitario pubblico”: è una perversione etica». Alberto Giubilini è senior research fellow allo Uehiro centre for practical ethics della facoltà di filosofia dell’università di Oxford. Ha lavorato per anni su questioni di bioetica ed etica della salute pubblica in Australia e in Inghilterra. Ha scritto il libro The ethics of vaccination e collabora con scienziati come Sunetra Gupta (prima firmataria della Great Barrington declaration) e Carl Heneghan, epidemiologo e direttore del centro di Evidence based medicine a Oxford. Con lui analizziamo i risvolti etici del nuovo paradigma sanitario che si sta profilando, la vaccinazione di tutti i sani e green pass per accedere ai diritti di base.
Cosa non le torna?
«Se è questa la direzione, si sta adottando una misura istituita in una situazione di emergenza, in un momento in cui l’emergenza non c’è».
Gli esperti però dicono che siamo in «permacrisi»: si parla di «perennizzazione della crisi sanitaria», che tutto giustificherebbe.
«L’emergenza è per definizione una situazione limitata nel tempo, non si può assumere che sia perenne: è un ossimoro. C’è inoltre l’aggravante che se si adottano queste misure a livello preventivo, sarà difficile porre un limite. Senza contare che l’accesso non è garantito a tutti: la dipendenza dalla tecnologia rischia di compromettere diritti fondamentali. Non tutti hanno accesso agli strumenti tecnologici per accedere al green pass globale».
Si parla anche di strumenti «non digitali», che condizionerebbero comunque il diritto di circolazione.
«E questa è la seconda criticità: se il green pass viene usato per limitare i diritti, è una perversione etica, una deriva pericolosa. I diritti fondamentali devono essere il punto di partenza, non il punto di arrivo; la base, non una concessione».
Durante la pandemia si diceva che chi non era vaccinato occupava inopportunamente un posto in ospedale.
«Affinché il sistema sanitario possa definirsi pubblico, tutti devono aver diritto ad accedervi. Se iniziamo a dire che alcune persone non lo meritano, il concetto di servizio pubblico perde significato».
In pandemia, molti hanno lamentato che lo Stato sia intervenuto in maniera pervasiva sulle scelte individuali delle persone.
«È così, è una novità e ha aperto la strada a precedenti prima inimmaginabili. Fino a oggi, ad esempio, lo Stato ci diceva “il fumo fa male”, ma ognuno di noi è stato libero di fumare anche cinque pacchetti di sigarette al giorno. Beh, in Nuova Zelanda è stata approvata una nuova policy per cui dal 2026 chi diventa maggiorenne non potrà fumare. Il tabacco sarà illegale».
Incredibile.
«Sembra sorprendente, ma bisogna pensare al contesto in cui ciò accade: è il contesto della pandemia, in cui lo Stato ha iniziato a porre restrizioni sulle scelte individuali delle persone. È quasi scontato che poi si arrivi a queste situazioni estreme».
Vale soltanto per il fumo?
«No, riguarda il nostro stile di vita. Lo Stato si sente autorizzato a “contenerlo” in nome dell’emergenza: prima era il vaccino per il Covid, ora le sigarette, domani chissà. Nel Regno Unito, le bevande gassate sono tassate attraverso la sugar tax: è un’opzione, migliore dell’obbligo, anche se più onerosa per il cittadino. Le policy ambientaliste sono uguali. Qui nel City Council di Oxford stanno pensando di introdurre una policy per cui chi usa l’auto più di tot volte a settimana, paga 70 sterline in più. Avranno gioco facile, visto il trend. I legislatori sostengono di farlo “per la salute pubblica”».
E se qualcuno, ad esempio, avesse necessità di usare la macchina per assistere un malato?
«Vede la deriva? È un problema etico e politico. Dov’è la libertà individuale? È una questione di democrazia. Se iniziamo a fare discorsi di questo genere, cominciamo a togliere diritti un po’ troppo facilmente alle persone. Bisogna tenere i diritti in equilibrio».
Chi decide qual è l’emergenza?
«Altra questione che lascia perplessi. Lo Stato può decidere in modo non democratico chi è esperto e chi no? Sembra che lo Stato sia diventato un circolo di esperti. Ma in cosa? Epidemiologia o salute pubblica? Salute mentale o diritti? C’è un problema di scelte arbitrarie, e ciò aumenta il rischio di abusi, perché gli esperti oltretutto non costituiscono blocco unico. La comunità scientifica si è divisa, in pandemia».
Eccome, nonostante le istituzioni dicessero il contrario.
«Il rischio di abuso è dietro l’angolo. Chi decide fino a che punto io debba prendermi cura di me stesso? La cura di sé stessi è per definizione una responsabilità individuale. Se lo Stato mi promette servizi a patto che io mi prenda cura di me stesso, chi decide quale sia la “cura sufficiente” per meritarsi l’accesso al sistema sanitario pubblico? Lo Stato esiste nella misura in cui fa gli interessi dei cittadini, tutti».
In che modo?
«Proteggendo la salute ma proteggendo anche i diritti individuali: bisogna avere equilibrio».
Diritto alla salute e diritto alla libertà, se ne è parlato molto durante il Covid.
«Dipende da cosa i cittadini si aspettano dallo Stato. Io, ad esempio, voglio vivere in uno Stato che rispetti le mie libertà fondamentali, qualcun altro vuole vivere in uno Stato che tuteli la sua salute: è un problema di democrazia, in realtà».
Non esistono diritti tiranni, aveva detto nel 2020 l’ex presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio.
«È un principio che condivido. Chi decide che il valore del diritto alla salute è più importante di tutti gli altri diritti? In base a cosa? I cosiddetti “esperti” che sostengono questo punto di vista non sono esperti di etica o politica».
Gli esperti pensano di tutelare la salute attraverso terapie preventive mRna.
«Guardi, il punto non è se mRna funzioni o no. Il punto è: anche se la scienza mi dice che funziona e me la consiglia, ho il diritto di dire che non la voglio usare? Se lo Stato mi dice “te la offro (o impongo) anche se non la vuoi”, il problema diventa politico ed etico».
Bisognerebbe aprire un dibattito civile con la popolazione? O il mandato elettorale consente allo Stato libertà di azione?
«L’esito elettorale dovrebbe riflettere le aspettative dei cittadini, ma su temi come questi sarebbe meglio ascoltare tutta la popolazione e usare tutti gli strumenti democratici a disposizione, a cominciare dai referendum. È una questione di diritti civili. L’accesso al servizio sanitario pubblico è un diritto civile, l’idea che sia lo Stato a decidere se e come devo curarmi è un problema. Durante la pandemia non è mai stato chiaro fino a che punto le misure introdotte fossero supportate dalla popolazione. Serve un dibattito civile, bisogna che chi ha il potere di decidere ascolti».
Brevetti, potere e una montagna di denaro
Nuova? La tecnologia mRna non è nata con i vaccini Covid, ma decenni prima, nel 1987, grazie a quel Robert Malone che oggi sostiene che le proteine prodotte dai vaccini anti Covid possonono danneggiare le cellule e che, per bambini e giovani, i rischi della vaccinazione superano i benefici. Quella dei vaccini mRna è, insomma, una storia ingarbugliata che non passa soltanto attraverso le fulgide conquiste della scienza, ma gira intorno alle spietate faide all’interno della comunità scientifica internazionale, tra chi intende aggiudicarsi la paternità dei brevetti (Moderna ha fatto causa a Pfizer, per dire) e chi vuole appuntata sul petto la medaglia del Nobel per la scoperta della tecnologia del futuro. Soldi e potere, insomma, ma non è una novità.
La primogenitura spetta a Malone che, alla fine del 1987, conduce un esperimento storico. Ricercatore presso il Salk Institute di La Jolla, in California, l’11 gennaio 1988 il neolaureato appunta sul suo taccino una nota: «Se le cellule potessero creare proteine dall’mRna», scrive, «potrebbe essere possibile trattare l’Rna come farmaco». Gli esperimenti di Malone non nascono dal nulla, i primi studi risalgono al 1960, ma nessuno aveva pensato di usare l’mRna come farmaco. Nel 1989, Malone passa alla Vical, startup di San Diego, in California. A questo punto la storia si complica e cominciano a pesare gli interessi e il potere.
Raccogliendo l’intuizione di Malone, a marzo 1989 sia la Vical sia il Salk Institute avviano la procedura di domanda di brevetto. Il Salk abbandona e Inder Verma, mentore di Malone ai tempi del Salk, si unisce alla Vical. Secondo Malone, la Vical e Verma stringono un patto segreto in modo che la proprietà intellettuale sia attribuita all’azienda: Malone tutto sommato era solo un neolaureato, e alla fine viene a malapena citato come «uno degli inventori», ma non può più rivendicare profitti. «Questa», lamenta oggi, «è una storia di avidità accademica e commerciale. Si sono arricchiti sulla mia proprietà intellettuale». Malone sostiene che Verma in futuro gli impedirà di ricevere fondi dal Nih e dal Niaid di Anthony Fauci, ma continua la ricerca sui vaccini mRna, faticando in effetti a ottenere finanziamenti.
Altri scienziati lavorano in quegli anni sull’mRna: nel 1991, la Vical stringe una collaborazione con la Merck, e la Transgène, piccola azienda biotecnologica francese, brevetta le sue invenzioni. I costi della ricerca, però, sono altissimi, tanto che nel 2020 qualcuno dirà che la tecnologia alla base dei due vaccini anti Covid a mRna - Pfizer e Moderna - sia stata tirata fuori dal cassetto per ottimizzare ricerche e costi che si accumulavano ormai da trent’anni.
Negli anni Novanta, e per la maggior parte degli anni Duemila, quasi tutte le aziende di vaccini che lavorano sull’mRna decidono di dirottare le proprie risorse altrove, perché la produzione è troppo costosa. Nel 1997, l’immunologo del cancro Eli Gilboa fonda la prima azienda di terapie mRna. È lui che ispira le aziende tedesche Curevac e Biontech. Nello stesso anno, i fondatori della start-up Rnarx, Katalin Karikó e l’immunologo Drew Weissman, fanno una scoperta chiave sull’alterazione di parte del codice mRna. Insieme, progettano lo sviluppo di un vaccino a base di mRna per contrastare l’Hiv/Aids. Ma gli mRna di Karikó scatenano massicce reazioni infiammatorie quando sono iniettati nei topi. Anche i due fondatori dell’azienda tedesca Biontech, Ugur Sahin e sua moglie Ozlem Tureci, iniziano a studiare mRna alla fine degli anni Novanta, ma soltanto nel 2007 Sahin riesce a ottenere 150 milioni di euro di fondi per avviare Biontech.
I soldi arrivano all’improvviso. E, nel giro di pochi anni, iniziano le sperimentazioni umane. Nel settembre 2010, un team guidato dal biologo Derrick Rossi spiega come gli mRna modificati possano essere utilizzati per trasformare le cellule della pelle. Rossi fonda una start-up che si chiama Moderna, specializzata sull’mRna modificato (il suo stesso nome deriva da questo, Mod -Rna). È questo il progetto vincente, anche se le aziende cinesi, come Suzhou Abogen biosciences, sostengono il contrario, lavorando su mRna non modificato. Rnarx cessa le operazioni nel 2013, quando Karikó entra a far parte dell’azienda Bionech.
L’accelerata arriva nel 2012, quando a investire nel mRna modificato è Darpa (Defense advanced research projects agency), l’agenzia governativa del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, che comincia a finanziare i ricercatori del settore. L’mRna diventa un asset, un’arma, uno strumento diplomatico. Moderna è una delle aziende che si struttura su questo progetto specifico: nel 2015, riesce a raccogliere più di un miliardo di dollari. Quando arriva il Covid, è velocissima: crea un prototipo di «vaccino» pochi giorni dopo la sequenza del genoma del virus, e collabora con il Niaip di Fauci.
Anche gli studi di Biontech vanno avanti a un ritmo record, passando, con la benedizione di Fda, dai test all’approvazione in meno di otto mesi. Ora, i nodi vengono al pettine. Le aziende si stanno contendendo i crediti e la detenzione dei redditizi brevetti. Ma la strada, ormai, è tracciata.
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Il G20 ha lanciato la rivoluzione della sanità: meno terapie per i malati, vaccinazioni a tappeto come «prevenzione» con campagne di immunizzazione obbligatorie, green pass permanente. È un addio alla medicina. E anche alla libertà.«Non decide lo Stato come devo curarmi». Lo studioso di bioetica Alberto Giubilini: «Si vuole istituzionalizzare una misura di emergenza. Il sistema sanitario pubblico rischia di scomparire. Se la salute sarà garantita dalla tecnologia aumenteranno le disparità. È giusto proteggersi ma senza togliere diritti individuali».Brevetti, potere e una montagna di denaro. Dall’esperimento del 1987 la caccia ai soldi per finanziare studi costosissimi. Diventati redditizi con il Covid.Lo speciale comprende tre articoli.È strano immaginare un sistema sanitario pubblico concentrato sulla vaccinazione di tutti i sani, anziché sulla cura dei soli malati. Il futuro, però, è questo, ed è ormai delineato con chiarezza. Qualcuno, come Matteo Bassetti, lo ha già anticipato dichiarando che dobbiamo «rassegnarci a un futuro a mRna». Un lapsus freudiano, perché di solito non ci si «rassegna» alle buone notizie, quando sono tali. Il documento ufficiale che decreta il cambio di paradigma, epocale, è il testo conclusivo del G20 dei ministri della Salute (per l’Italia, Orazio Schillaci), pubblicato lo scorso 28 ottobre. Per i Grandi del mondo, le tre questioni prioritarie per la salute sono: «Costruire la resilienza (ancora!, ndr) del sistema sanitario globale, armonizzare i protocolli sanitari mondiali, espandere gli hub globali di produzione e ricerca», con particolare attenzione a quelli che lavorano sulla tecnologia mRna (come la Fondazione mRna di Padova, che ha ricevuto 320 milioni del Pnrr coinvolgendo ben 36 «spoke» nella mangiatoia). L’obiettivo è «facilitare un migliore accesso ai servizi». Più ospedali? Più medicina territoriale? Più medici? Macché: il G20 identifica questi servizi con «vaccini, terapie (leggi farmaci, ndr) e diagnostica» (Vtd) a livello globale, ossia profilassi preventive per evitare che ci si ammali, nell’ambito dell’approccio One Health di cui ha parlato anche il presidente Giorgia Meloni a Bali. Un arsenale a mRna realizzato innanzitutto per combattere le prime dieci minacce alla salute globale individuate dall’Oms (Ebola, Sars, Mers, lo stesso Covid che ha una mortalità dello 0,02% o la «malattia X», che ancora non si sa cosa sia, ma per prudenza è in lista). Nel mondo occidentale, però, si continua a morire di infarto, ischemia, cancro, diabete, malattie respiratorie. Ed è questo il punto d’approdo delle terapie a mRna: terapie e vaccinazioni non per le malattie del terzo mondo ma per quelle del primo. Le malattie non trasmissibili, insomma: tumori, diabete, glaucoma, le cosiddette «malattie dei ricchi» e dei servizi sanitari «ricchi». Mesi fa, il direttore di Oms Europa, Hans Kluge, aveva spiegato che siamo chiamati a combattere una «permacrisi» globale. La popolazione mondiale aumenta (abbiamo da poco superato gli 8 miliardi), curare tutti non è più sostenibile e le tecnologie terapeutiche a mRna - nella mente dei cervelloni della salute globale - rappresentano la soluzione. È su queste che si stanno concentrando i maggiori investimenti, miliardi di euro destinati non a migliorare strutture ospedaliere, costruire più ospedali o formare nuovi medici, ma a far produrre, per ogni malattia, vaccini e terapie ad hoc da aziende e organismi privati. Quelli coinvolti dai Grandi del mondo sono i soliti, riconducibili a una sola persona, quel Bill Gates benedetto dal World economic forum: Global fund (cui l’Italia ha versato finora più di un miliardo e mezzo di dollari), Gavi Alliance, Cepi, Unitaid, eccetera, ai quali il G20, che rappresenta le istituzioni, riconosce ufficialmente il ruolo di «partner». È rivolto a loro, e alle «filantropie» (citofonare Soros), l’appello a «sostenere investimenti, organizzazioni e iniziative sanitarie». Un vaccino per evitare il cancro, un vaccino per evitare il diabete, e via dicendo, da somministrare a tutti, dai neonati ai centenari. Sembra un futuro lontano, ma è già il nostro presente. Lo step successivo, sperimentato per la prima volta con il Covid, è il passaggio all’obbligatorietà di queste profilassi vaccinali e terapeutiche con la giustificazione che «non si possono intasare gli ospedali». Qui, rientrano in scena le istituzioni, con il meccanismo gradualmente avviato in pandemia. In teoria, tutta l’impalcatura del green pass non serve più; in realtà continua a esistere. In teoria, soltanto i medici e soltanto in pochissimi Paesi (tra i quali, neanche a dirlo, l’Italia) sono stati forzati a vaccinarsi; in realtà nel documento del G20 la certificazione verde anti Covid deve essere implementata su scala globale, dato che i ministri «si adoperano per procedere verso meccanismi che convalidino la prova della vaccinazione». In teoria, l’obbligatorietà è durata pochi mesi e ha riguardato soltanto un vaccino, l’anti Covid; in realtà sarà estendibile ad altri vaccini perché «bisogna capitalizzare il successo degli standard esistenti e del green pass per rafforzare la prevenzione e la risposta alle future pandemie». Non è un caso che la federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) abbia modificato le regole deontologiche della professione, annunciando che saranno introdotti articoli relativi ai vaccini e alle vaccinazioni: i medici non potranno sconsigliarne l’utilizzo. L’archetipo, insomma, abbiamo imparato a conoscerlo: perennizzazione della crisi sanitaria attraverso il paradigma ideologico della «permacrisi», commissionamento del prodotto salvifico (vaccini e terapie mRna) a privati che ne assicurano produzione e gestione - e fin qui niente di nuovo - ma poi anche deresponsabilizzazione dello Stato a discapito del cittadino, perché le tasse (già molto alte nell’Ue) non bastano più. 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Ha scritto il libro The ethics of vaccination e collabora con scienziati come Sunetra Gupta (prima firmataria della Great Barrington declaration) e Carl Heneghan, epidemiologo e direttore del centro di Evidence based medicine a Oxford. Con lui analizziamo i risvolti etici del nuovo paradigma sanitario che si sta profilando, la vaccinazione di tutti i sani e green pass per accedere ai diritti di base. Cosa non le torna? «Se è questa la direzione, si sta adottando una misura istituita in una situazione di emergenza, in un momento in cui l’emergenza non c’è». Gli esperti però dicono che siamo in «permacrisi»: si parla di «perennizzazione della crisi sanitaria», che tutto giustificherebbe. «L’emergenza è per definizione una situazione limitata nel tempo, non si può assumere che sia perenne: è un ossimoro. C’è inoltre l’aggravante che se si adottano queste misure a livello preventivo, sarà difficile porre un limite. Senza contare che l’accesso non è garantito a tutti: la dipendenza dalla tecnologia rischia di compromettere diritti fondamentali. Non tutti hanno accesso agli strumenti tecnologici per accedere al green pass globale». Si parla anche di strumenti «non digitali», che condizionerebbero comunque il diritto di circolazione. «E questa è la seconda criticità: se il green pass viene usato per limitare i diritti, è una perversione etica, una deriva pericolosa. I diritti fondamentali devono essere il punto di partenza, non il punto di arrivo; la base, non una concessione». Durante la pandemia si diceva che chi non era vaccinato occupava inopportunamente un posto in ospedale. «Affinché il sistema sanitario possa definirsi pubblico, tutti devono aver diritto ad accedervi. Se iniziamo a dire che alcune persone non lo meritano, il concetto di servizio pubblico perde significato». In pandemia, molti hanno lamentato che lo Stato sia intervenuto in maniera pervasiva sulle scelte individuali delle persone. «È così, è una novità e ha aperto la strada a precedenti prima inimmaginabili. Fino a oggi, ad esempio, lo Stato ci diceva “il fumo fa male”, ma ognuno di noi è stato libero di fumare anche cinque pacchetti di sigarette al giorno. Beh, in Nuova Zelanda è stata approvata una nuova policy per cui dal 2026 chi diventa maggiorenne non potrà fumare. Il tabacco sarà illegale». Incredibile. «Sembra sorprendente, ma bisogna pensare al contesto in cui ciò accade: è il contesto della pandemia, in cui lo Stato ha iniziato a porre restrizioni sulle scelte individuali delle persone. È quasi scontato che poi si arrivi a queste situazioni estreme». Vale soltanto per il fumo? «No, riguarda il nostro stile di vita. Lo Stato si sente autorizzato a “contenerlo” in nome dell’emergenza: prima era il vaccino per il Covid, ora le sigarette, domani chissà. Nel Regno Unito, le bevande gassate sono tassate attraverso la sugar tax: è un’opzione, migliore dell’obbligo, anche se più onerosa per il cittadino. Le policy ambientaliste sono uguali. Qui nel City Council di Oxford stanno pensando di introdurre una policy per cui chi usa l’auto più di tot volte a settimana, paga 70 sterline in più. Avranno gioco facile, visto il trend. I legislatori sostengono di farlo “per la salute pubblica”». E se qualcuno, ad esempio, avesse necessità di usare la macchina per assistere un malato? «Vede la deriva? È un problema etico e politico. Dov’è la libertà individuale? È una questione di democrazia. Se iniziamo a fare discorsi di questo genere, cominciamo a togliere diritti un po’ troppo facilmente alle persone. Bisogna tenere i diritti in equilibrio». Chi decide qual è l’emergenza? «Altra questione che lascia perplessi. Lo Stato può decidere in modo non democratico chi è esperto e chi no? Sembra che lo Stato sia diventato un circolo di esperti. Ma in cosa? Epidemiologia o salute pubblica? Salute mentale o diritti? C’è un problema di scelte arbitrarie, e ciò aumenta il rischio di abusi, perché gli esperti oltretutto non costituiscono blocco unico. La comunità scientifica si è divisa, in pandemia». Eccome, nonostante le istituzioni dicessero il contrario. «Il rischio di abuso è dietro l’angolo. Chi decide fino a che punto io debba prendermi cura di me stesso? La cura di sé stessi è per definizione una responsabilità individuale. Se lo Stato mi promette servizi a patto che io mi prenda cura di me stesso, chi decide quale sia la “cura sufficiente” per meritarsi l’accesso al sistema sanitario pubblico? Lo Stato esiste nella misura in cui fa gli interessi dei cittadini, tutti». In che modo? «Proteggendo la salute ma proteggendo anche i diritti individuali: bisogna avere equilibrio». Diritto alla salute e diritto alla libertà, se ne è parlato molto durante il Covid. «Dipende da cosa i cittadini si aspettano dallo Stato. Io, ad esempio, voglio vivere in uno Stato che rispetti le mie libertà fondamentali, qualcun altro vuole vivere in uno Stato che tuteli la sua salute: è un problema di democrazia, in realtà». Non esistono diritti tiranni, aveva detto nel 2020 l’ex presidente della Corte costituzionale Giancarlo Coraggio. «È un principio che condivido. Chi decide che il valore del diritto alla salute è più importante di tutti gli altri diritti? In base a cosa? I cosiddetti “esperti” che sostengono questo punto di vista non sono esperti di etica o politica». Gli esperti pensano di tutelare la salute attraverso terapie preventive mRna. «Guardi, il punto non è se mRna funzioni o no. Il punto è: anche se la scienza mi dice che funziona e me la consiglia, ho il diritto di dire che non la voglio usare? Se lo Stato mi dice “te la offro (o impongo) anche se non la vuoi”, il problema diventa politico ed etico». Bisognerebbe aprire un dibattito civile con la popolazione? O il mandato elettorale consente allo Stato libertà di azione? «L’esito elettorale dovrebbe riflettere le aspettative dei cittadini, ma su temi come questi sarebbe meglio ascoltare tutta la popolazione e usare tutti gli strumenti democratici a disposizione, a cominciare dai referendum. È una questione di diritti civili. L’accesso al servizio sanitario pubblico è un diritto civile, l’idea che sia lo Stato a decidere se e come devo curarmi è un problema. Durante la pandemia non è mai stato chiaro fino a che punto le misure introdotte fossero supportate dalla popolazione. Serve un dibattito civile, bisogna che chi ha il potere di decidere ascolti». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/larsenale-dei-vaccini-mrna-ecco-qual-e-il-vero-obiettivo-2658787763.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="brevetti-potere-e-una-montagna-di-denaro" data-post-id="2658787763" data-published-at="1669581234" data-use-pagination="False"> Brevetti, potere e una montagna di denaro Nuova? La tecnologia mRna non è nata con i vaccini Covid, ma decenni prima, nel 1987, grazie a quel Robert Malone che oggi sostiene che le proteine prodotte dai vaccini anti Covid possonono danneggiare le cellule e che, per bambini e giovani, i rischi della vaccinazione superano i benefici. Quella dei vaccini mRna è, insomma, una storia ingarbugliata che non passa soltanto attraverso le fulgide conquiste della scienza, ma gira intorno alle spietate faide all’interno della comunità scientifica internazionale, tra chi intende aggiudicarsi la paternità dei brevetti (Moderna ha fatto causa a Pfizer, per dire) e chi vuole appuntata sul petto la medaglia del Nobel per la scoperta della tecnologia del futuro. Soldi e potere, insomma, ma non è una novità. La primogenitura spetta a Malone che, alla fine del 1987, conduce un esperimento storico. Ricercatore presso il Salk Institute di La Jolla, in California, l’11 gennaio 1988 il neolaureato appunta sul suo taccino una nota: «Se le cellule potessero creare proteine dall’mRna», scrive, «potrebbe essere possibile trattare l’Rna come farmaco». Gli esperimenti di Malone non nascono dal nulla, i primi studi risalgono al 1960, ma nessuno aveva pensato di usare l’mRna come farmaco. Nel 1989, Malone passa alla Vical, startup di San Diego, in California. A questo punto la storia si complica e cominciano a pesare gli interessi e il potere. Raccogliendo l’intuizione di Malone, a marzo 1989 sia la Vical sia il Salk Institute avviano la procedura di domanda di brevetto. Il Salk abbandona e Inder Verma, mentore di Malone ai tempi del Salk, si unisce alla Vical. Secondo Malone, la Vical e Verma stringono un patto segreto in modo che la proprietà intellettuale sia attribuita all’azienda: Malone tutto sommato era solo un neolaureato, e alla fine viene a malapena citato come «uno degli inventori», ma non può più rivendicare profitti. «Questa», lamenta oggi, «è una storia di avidità accademica e commerciale. Si sono arricchiti sulla mia proprietà intellettuale». Malone sostiene che Verma in futuro gli impedirà di ricevere fondi dal Nih e dal Niaid di Anthony Fauci, ma continua la ricerca sui vaccini mRna, faticando in effetti a ottenere finanziamenti. Altri scienziati lavorano in quegli anni sull’mRna: nel 1991, la Vical stringe una collaborazione con la Merck, e la Transgène, piccola azienda biotecnologica francese, brevetta le sue invenzioni. I costi della ricerca, però, sono altissimi, tanto che nel 2020 qualcuno dirà che la tecnologia alla base dei due vaccini anti Covid a mRna - Pfizer e Moderna - sia stata tirata fuori dal cassetto per ottimizzare ricerche e costi che si accumulavano ormai da trent’anni. Negli anni Novanta, e per la maggior parte degli anni Duemila, quasi tutte le aziende di vaccini che lavorano sull’mRna decidono di dirottare le proprie risorse altrove, perché la produzione è troppo costosa. Nel 1997, l’immunologo del cancro Eli Gilboa fonda la prima azienda di terapie mRna. È lui che ispira le aziende tedesche Curevac e Biontech. Nello stesso anno, i fondatori della start-up Rnarx, Katalin Karikó e l’immunologo Drew Weissman, fanno una scoperta chiave sull’alterazione di parte del codice mRna. Insieme, progettano lo sviluppo di un vaccino a base di mRna per contrastare l’Hiv/Aids. Ma gli mRna di Karikó scatenano massicce reazioni infiammatorie quando sono iniettati nei topi. Anche i due fondatori dell’azienda tedesca Biontech, Ugur Sahin e sua moglie Ozlem Tureci, iniziano a studiare mRna alla fine degli anni Novanta, ma soltanto nel 2007 Sahin riesce a ottenere 150 milioni di euro di fondi per avviare Biontech. I soldi arrivano all’improvviso. E, nel giro di pochi anni, iniziano le sperimentazioni umane. Nel settembre 2010, un team guidato dal biologo Derrick Rossi spiega come gli mRna modificati possano essere utilizzati per trasformare le cellule della pelle. Rossi fonda una start-up che si chiama Moderna, specializzata sull’mRna modificato (il suo stesso nome deriva da questo, Mod -Rna). È questo il progetto vincente, anche se le aziende cinesi, come Suzhou Abogen biosciences, sostengono il contrario, lavorando su mRna non modificato. Rnarx cessa le operazioni nel 2013, quando Karikó entra a far parte dell’azienda Bionech. L’accelerata arriva nel 2012, quando a investire nel mRna modificato è Darpa (Defense advanced research projects agency), l’agenzia governativa del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, che comincia a finanziare i ricercatori del settore. L’mRna diventa un asset, un’arma, uno strumento diplomatico. Moderna è una delle aziende che si struttura su questo progetto specifico: nel 2015, riesce a raccogliere più di un miliardo di dollari. Quando arriva il Covid, è velocissima: crea un prototipo di «vaccino» pochi giorni dopo la sequenza del genoma del virus, e collabora con il Niaip di Fauci. Anche gli studi di Biontech vanno avanti a un ritmo record, passando, con la benedizione di Fda, dai test all’approvazione in meno di otto mesi. Ora, i nodi vengono al pettine. Le aziende si stanno contendendo i crediti e la detenzione dei redditizi brevetti. Ma la strada, ormai, è tracciata.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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