2018-04-13
L’alta moda cristiana toglie il velo alle differenze fra Europa e islam
Una splendida mostra a New York racconta come la cultura cattolica abbia ispirato i grandi stilisti che oggi, però, scelgono di sottomettersi alle istanze dei musulmani, dimenticando il loro patrimonio. I riflessi dorati delle croci bizantine che scintillano su un abito da sera di Gianni Versace del 1997. La mitra che John Galliano, nel 2000, utilizzò per completare un lussureggiante ensemble per donna in puro stile papale. E poi la veste statuaria realizzata per la Vergine di El Rocío da Yves Saint Laurent nel 1985. Il capolavoro di Dolce&Gabbana del 2013, che non ci sorprenderemmo di trovare fra i mosaici della Basilica di San Vitale, a Ravenna. E ancora le figure angeliche di Viktor & Rolf e del medesimo Galliano, le sublimi suore di Cristóbal Balenciaga che sembrano disegnate oggi e non nel 1967.Piluccando il catalogo di Heavenly bodies: fashion and the catholic imagination (mostra in programma dal 10 maggio all'8 ottobre presso il Costume institute del Metropolitan museum di New York) si possono apprezzare il genio e la grazia con cui gli stilisti europei, nel corso degli anni, hanno interpretato la trita affermazione «non possiamo non dirci cristiani». La rassegna, ha spiegato a Vogue il curatore Andrew Bolton, esplora il modo in cui la religione, il cattolicesimo in particolare, ha davvero plasmato la mente di questi designer con una ricchezza di immagini, una tradizione narrativa e la visione del mondo attraverso la metafora».L'immaginario cattolico è stato, per i giganti dell'alta moda, una fonte costante di ispirazione, anche nei casi in cui il prodotto finale ha sfiorato i confini irti di rocce della blasfemia. Polemiche e sdegno sono sempre state le spezie del rapporto fra il cattolicesimo e la moda, ma il terreno comune non è mai venuto a mancare sotto i piedi. L'amore per la bellezza e per l'essere umano ha stabilito un legame fra due mondi solo apparentemente lontanissimi. Non bisogna farsi ingannare dalla fiera delle vanità, dal circo fashion in cui si esibiscono nani contorti e ballerine oscene. La creazione di un abito è tutta un'altra storia, è un gesto che trascende l'uomo e le sue bassezze, è un atto effettivamente divino. Lo ha ribadito, presentando l'esposizione newyorkese, il cardinale Gianfranco Ravasi, ma lo aveva già notato Quirino Conti, quando scriveva che il primo couturier è stato Dio stesso, nel Genesi, fabbricando per Adamo ed Eva «delle tuniche di pelli», con cui i due sostituirono le foglie intrecciate utilizzate per coprirsi i genitali (le stesse che appaiono sull'abito ideato nel 2014 da Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccioli per Valentino). Il Creatore per eccellenza, diceva Conti, «con quelle due tuniche elabora il primo prodotto di derivazione della storia». L'abito diventa «compendio e densa immagine di quanto di più ricco e più creativo si farà nel Tempo». L'uomo, insomma, non fa che ripetere, rielaborandolo, il gesto naturale che gli è stato insegnato. E osservando alcune opere nel catalogo del Met, viene davvero da pensare, con Quirino Conti, che «gli abiti non ci appartengono, provengono infatti da un paradiso perduto».Alla mostra newyorkese il Vaticano ha collaborato attivamente, fornendo abiti, paramenti e oggetti di vario genere, è già questo è un segno di enorme apertura. Del resto, dice il curatore Bolton, tra tutte le religioni il cattolicesimo ha fornito alla moda una «schiacciante maggioranza di materiali e riferimenti». Viene di chiedersi, allora, come mai le grandi firme oggi si rivolgano in tutt'altra direzione. Sulla cover del numero di maggio di Vogue Uk compare, di nuovo, Halima Aden, la modella velata già finita sulla copertina di Allure con l'hijab realizzato da Nike. La Aden è uno dei volti più rappresentativi della «modest fashion», cioè la moda musulmana rivolta a donne «sobrie» (come a dire che tutte le altre, tutte quelle che non si coprono il capo in segno di sottomissione, non lo sono affatto). La modest fashion, da un paio di anni a questa parte, si è imposta un po' ovunque, potendo contare su un mercato vasto e ricchissimo. Dkny, già nel 2014, propose una «Ramadan collection». Poi vennero Tommy Hilfiger, Oscar De La Renta, Zara, H&M, Mango e molti altri fino a Dolce&Gabbana. Dobbiamo fare attenzione alle modalità di tale espansione. Qui non abbiamo un patrimonio culturale che innerva e vivifica l'immaginazione degli stilisti, bensì l'esatto contrario. Non c'è un Versace che prende una croce bizantina e la trasporta in una dimensione profana. C'è, piuttosto, la moda stessa che - per motivi commerciali ma non solo - accetta le imposizioni di una fede, si sottomette. Il velo in passerella non è una appropriazione creativa compiuta dagli stilisti, è piuttosto l'irruzione di una fede nello spazio profano dell'haute couture, che deve accettare se non vuole soffocare.Complessità dell'Occidente: il paramento liturgico cattolico trova nuova vita fasciando una donna splendida in una serata di gala, valorizzandone il corpo e le forme. Il velo e le tuniche islamiche, all'opposto - per quanto mascherate da splendide decorazioni - s'avventano sull'abito raffinato imponendogli il giudizio divino. Imprigionano e rinchiudono la donna nel rivestimento che avrebbe dovuto glorificarla.Le civiltà si scontrano in passerella, e una soccombe.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)