2021-04-08
L’abolizione della censura nei film fa a pugni con la Costituzione
Dario Franceschini (Ansa-iStock)
Il ministro Dario Franceschini ha posto fine per decreto all'autorizzazione delle pellicole, ma resta un paradosso. L'articolo 21 della nostra Carta proibisce ancora pubblicazioni e spettacoli «contrari al buon costume».Grande e generalizzato è il coro di esultanza per la definitiva scomparsa degli ultimi, modesti residui della odiosa censura cinematografica, presentati (manco a dirlo) come retaggio dell'era fascista e, quindi, incompatibili con i principi di libertà solennemente affermati nella vigente Costituzione democratica e antifascista. Nessuno sembra, però, ricordarsi che proprio l'art. 21 della stessa Costituzione, che costituisce il presidio della libertà di manifestazione del pensiero, «con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (come testualmente affermato nel primo comma), prevede tuttavia, all'ultimo comma, che siano «vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume», aggiungendo, subito dopo, che: «La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni». Tutto può quindi sostenersi tranne che la presenza di norme che prevedevano la preventiva sottoposizione delle opere cinematografiche al «visto» delle commissioni di censura (o, come poi si erano pudicamente definite, di «revisione») fosse contraria alla Costituzione. Ciò, ovviamente, nel presupposto che la nozione di «buon costume» dovesse essere limitata, come era considerato pacifico dai Padri costituenti, alla sfera della sessualità e della famiglia, regolata da principi morali che, all'epoca, erano condivisi dalla stragrande maggioranza della popolazione, indipendentemente dalla varietà delle posizioni politiche.Paradossalmente, quindi, potrebbe semmai sostenersi che proprio l'eliminazione (se tale è stata) di ogni e qualsiasi controllo preventivo volto alla verifica della non contrarietà delle opere cinematografiche al «buon costume» come condizione per il nulla osta alla loro proiezione in pubblico si presenta, a stretto rigore, come contraria alla Costituzione. È da notare, infatti, che il citato art. 21, ultimo comma, della Costituzione, usando l'espressione «la legge stabilisce» e non quella «può stabilire» o altra equivalente, lascia chiaramente intendere che l'introduzione e il mantenimento, nell'ordinamento giuridico, di norme volte «a prevenire» (e non solo, quindi, a «reprimere») le violazioni al divieto di pubblicazioni, spettacoli e manifestazioni in genere «contrarie al buon costume», costituisce un vero e proprio obbligo e non già una mera facoltà del legislatore ordinario.Potrebbe poi aggiungersi che, anche sul versante della «repressione», il legislatore è inadempiente al dettato costituzionale, giacché l'unica superstite norma «repressiva» di eventuali violazioni al divieto previsto dall'ultimo comma dell'art. 21 è costituita dall'art. 528 del codice penale, la cui sfera di operatività, però (per quanto qui interessa), è limitata al caso di chi dia «pubblici spettacoli teatrali o cinematografici, ovvero audizioni o recitazioni pubbliche che abbiano carattere di oscenità». E per «osceno» deve intendersi (come specificato nel successivo art. 529), solo ciò che, secondo il comune sentimento, offende il pudore. Appare quindi evidente che rimane escluso dall'ambito di applicabilità della norma il vastissimo spazio entro il quale possono collocarsi opere che, pur non avendo carattere di oscenità, possano tuttavia ritenersi «contrarie al buon costume» in quanto tali da costituire, ad esempio, pubblica istigazione a porre in essere comportamenti in materia di sessualità o di rapporti familiari o parafamiliari che, secondo la morale corrente, siano da considerare gravemente riprovevoli. Né, d'altra parte, può validamente sostenersi, che l'ultimo comma dell'art. 21 della Costituzione sarebbe da considerare come implicitamente abrogato in conseguenza del mutato costume sociale che non consentirebbe più di riconoscere l'esistenza, nella suddetta materia, di principi morali generalmente condivisi e tali, quindi, da costituire il fondamento della nozione di «buon costume». Tale nozione, infatti, ha sì subito, nel tempo, rilevanti modifiche di contenuto (basti pensare alla generalizzata accettazione, oggi, delle convivenze «more uxorio» o dei rapporti omosessuali, una volta oggetto di forte riprovazione sociale), ma ciò non significa che essa abbia, in sé e per sé, del tutto cessato di esistere. A dimostrazione di ciò sta il fatto che comportamenti quali, ad esempio, la bigamia, l'incesto, la pornografia minorile, la pedofilia e numerosi altri ancora, tutti attinenti alla sfera della famiglia o della sessualità, continuano non solo ad essere previsti come reato ma anche ad essere generalmente considerati dall'opinione pubblica come moralmente inaccettabili. Così come moralmente inaccettabile continua ad essere considerato tanto l'esercizio della prostituzione (quando non sia frutto di costrizione o condizionamento provenienti dall'esterno), quanto il ricorso, da parte del «cliente», alle prestazioni sessuali del soggetto dedito alla prostituzione.Ampio sarebbe quindi ancora adesso il campo di applicazione dell'art. 21, ultimo comma, della Costituzione, ove ci si trovasse in presenza di opere cinematografiche che giustificassero ed esaltassero un tal genere di comportamenti. Di qui una conclusione molto semplice: la totale scomparsa di quel poco che rimaneva della vecchia censura cinematografica avrebbe dovuto accompagnarsi, per essere coerente con il complesso dell'ordinamento giuridico, alla soppressione o alla modifica della suddetta norma costituzionale. Ma ciò avrebbe richiesto disponibilità ad impegno e fatica oltre che, a monte, rigore e onestà intellettuale. Tutta merce rara, per cui ben si spiega come si sia preferito, pur di raggiungere l'obiettivo di una facile e scontata popolarità, far finta, più semplicemente e comodamente, che quella norma non esistesse.