È fuor di dubbio il fatto che, al di là dell’auspicabile pace tra Russia e Ucraina, la lotta per la tutela della vita umana innocente, continuerà ancora a lungo. Forse fino alla fine del mondo. Il Canada, da decenni, gode di una immagine piuttosto rassicurante, come Paese vasto, prospero e felice. Senza neppure le drammatiche divisioni ideologiche che da sempre segnano la storia degli Stati Uniti.
Eppure già dal 2016 ha approvato, tra mille polemiche, una legge tra le più «avanzate» sull’eutanasia. Dove avanzato è sinonimo non di maggior cura del paziente, ma di minor fiducia nella medicina e nel progresso della scienza. Secondo l’attento bioeticista Micheal Cook, inoltre, «una legge per estendere il diritto di morire ai pazienti senza una malattia terminale è stata approvata nel 2021». E i malati di patologie di non facile diagnosi come quelle attinenti alla psiche, all’angoscia e alla paura di vivere? Nessuna paura, una clausola della legge consentirà «alle persone con malattie mentali di richiedere l’eutanasia dal 2023».
Tutti questi suicidi-omicidi, fortemente sostenuti da una propaganda che ricorda l’eugenetica scandinava e nazista, si basano - si dice - sull’autodeterminazione del paziente. Il quale, secondo i compassionevoli progressisti, non sa che farsene dei ragionamenti astratti sulla «sacralità e intangibilità della vita umana». Sia. Ma che accade ai bambini, i quali, per definizione, sono o incapaci o poco capaci di intendere e di volere, e quindi di scegliere? D’altra parte, se l’eutanasia è un progresso sociale, ed è un bene per colui che la riceve, perché privarne una parte non piccola della popolazione con la scusa dell’impossibile giudizio autonomo?
E così, sempre per scendere un altro gradino dell’abisso morale, secondo il sito Bioedge, in Québec, la seconda provincia canadese per popolazione, l’illustre Québec College of Physicians ha iniziato a far pressioni per ottenere l’eutanasia per i neonati». Il portavoce dell’augusto consesso medico, il dottor Louis Roy, parlando ad una commissione parlamentare, ha dichiarato solenne che «l’aiuto medico alla morte può essere appropriato per i bambini fino all’età di un anno». Ovviamente, almeno per cominciare, per i casi di bambini che nascono con «gravi deformazioni e sindromi». Dei quali, insomma, la «prospettiva di sopravvivenza è nulla». Ma se con la medicina palliativa i dolori sono praticamente annientati, perché anticipare la morte dei neonati, e non lasciare che la natura faccia il suo corso? Domande retoriche per lorsignori.
Già in precedenza, però, il medesimo College of Physicians aveva chiesto, in un comunicato ufficiale, che questo aiuto a morire (che in inglese suona «Medical assistance in dying»), fosse legalizzato. Almeno nei casi giudicati di «sofferenza intollerabile», per i bambini che fossero «di età compresa tra 0-1 e 14-17 anni». Numeri al lotto o forse macabri scientismi.
Speravamo di cuore che il ribaltamento della sentenza americana Roe vs. Wade, avutosi il 24 giugno scorso, avrebbe prodotto una presa di coscienza sul valore indisponibile della vita umana più fragile e senza voce. Almeno al di là dell’Atlantico.
E invece no. Oltre al canadese aiuto a morire, anche negli Stati Uniti le lobby antivita si stanno adoperando per rendere inefficaci le restrizioni, che molti Stati americani hanno messo, all’aborto. Sono gli stessi che, quando la legge piace come la nostrana 194, dicono che non rispettarla è da antidemocratici e fascisti. Dopo i bus della morte, che permetterebbero l’aborto anonimo (e no limits) ai margini degli Stati pro life, ecco l’ultima trovata: la nave salva-donne. Che permetterà di cancellare molte bambine e future donne, ma non fissiamoci sui dettagli, e guardiamo alla nobile impresa. La Stampa, un tempo quotidiano più sobrio e meno partigiano, esalta la nave in un pezzo di Letizia Tortello, intitolato, senza alcun pudore per l’operazione meno consensuale al mondo, Aborto in alto mare.
Alcuni neo-pirati come Meg Autry, «ginecologa e docente dell’Università della California», stanno organizzando un «laboratorio galleggiante» (che sicuramente rispetterà tutti i parametri della sicurezza medica), destinato «a offrire aborti chirurgici e altre prestazioni a bordo di una nave nelle acque Usa della Costa del golfo», quello del Messico.
Ma quelle donne, che per qualunque motivo, comprensibile o inaccettabile, vogliono disfarsi del «problema», meritano di più, molto di più di una nave che mai saprà uccidere il rimorso. Meritano assistenza vera, aiuti economici e psicologici concreti. E anche tutele giuridiche per far sì che il «bambino non voluto», ma che già esiste, sia ricevuto come un dono, da un padre e una madre che già esistono, i quali sono sterili senza colpa, e non attendono altro. «Ogni anno», scrive la Tortello, «nel mondo vengono compiuti circa 73 milioni di aborti». E questo dato, invece che metterle un brivido alla schiena, e spingerla a considerarsi, come tutti noi, una «sopravvissuta», pare invece una sorta di auto-assoluzione. Mal comune mezzo gaudio.
Ben diversa era la tempra di femministe storiche come Simone Veil (1927-2017) in Francia, che pur ammettendo l’aborto come extrema ratio, non giunsero mai a tale cinismo. E, anzi, la politica francese, ex deportata, disse fino all’ultimo che «l’aborto deve restare l’eccezione». Perché «esso è un dramma e lo resterà sempre». Anzi, per la capofila delle femministe francesi, la società «per quanto possibile» dovrà sempre «dissuaderne la donna».
La distanza tra la dissuasione di un male che, se non commesso, farebbe felice una coppia e la nave che va in cerca di donne per soldi e ideologia, segna il passaggio dalla civiltà alla disumanità. E neppure ve ne siete accorti.





