
Pubblicato un testo inedito del filosofo Ugo Spirito dedicato alle riforme del sovrano iraniano deposto dall'imam Khomeini. Il pensatore voleva farsi consigliere del monarca e creare una nuova società. Ma pochi mesi dopo Reza Pahlavi fu cacciato.L'entusiasmo degli intellettuali occidentali per la rivoluzione islamica iraniana guidata, nel 1979, da Ruhollah Khomeini, è noto da tempo: ricordiamo certi editoriali di Lotta continua o certi articoli a caldo di Michel Foucault che, letti con il senno di poi, appaiono oggi grotteschi. Fino ad ora non si conoscevano, invece, analoghi slanci di simpatia europei per la precedente rivoluzione iraniana, quella modernizzatrice iniziata nel 1963 dallo scià Mohammad Reza Pahlavi, il monarca destituito per l'appunto dalla sollevazione khomeinista. Appare quindi di sicuro interesse il libretto recentemente dato alle stampe da Luni editrice e dalla Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice, intitolato Filosofia della grande civilizzazione. La «rivoluzione bianca» dello scià. L'autore è lo stesso Ugo Spirito, uno dei grandi nomi della filosofia italiana del Novecento. Allievo di Giovanni Gentile, fu sotto il fascismo uno strenuo difensore delle ragioni dell'attualismo e un esuberante teorico del «corporativismo integrale», tanto da meritarsi la fama di criptocomunista. Nel dopoguerra fu influenzato dal marxismo, ebbe qualche sbandata per il comunismo in salsa prima sovietica e poi cinese, per poi riavvicinarsi negli ultimi anni a certi ambienti missini. Spirito morirà a Roma il 28 aprile 1979, appena tre mesi dopo il ritorno di Khomeini in Iran dopo 14 anni di esilio, evento simbolo della fine del regime di Pahlavi. Che il filosofo italiano si fosse interessato alle vicende iraniane non era però fino a oggi cosa nota. Egli stesso non ne parla nei libri, articoli, interviste, lettere finora noti. Da dove spunta fuori, allora, il saggio oggi pubblicato da Luni? Lo ricostruisce, nel dettaglio, Gianni Scipione Rossi nella corposa introduzione. La prima traccia ha a che fare con un volume di Spirito pubblicato nel 1992 da Dino editore e intitolato La rivoluzione dell'Iran. Nella prefazione, si diceva che tale saggio era stato pubblicato nel 1978 e poi tradotto in inglese per essere distribuito, in un milione di copie, in tutte le scuole dell'Iran. L'avvento al potere del clero sciita avrebbe però fatto saltare l'operazione, portando addirittura a pubblici roghi del volume nelle piazze. Rossi ha buon gioco nello smontare questa ricostruzione, decisamente romanzata. Una traduzione in inglese del libro fu però in effetti prodotta, anche se si tratta oggi di una rarità assoluta. Il fantomatico milione di copie non fu probabilmente mai stampato, ma che un'operazione del genere fosse in programma e sia saltata per l'avvento di Khomeini non lo si può escludere. Lasciamo ai lettori il compito di approfondire le complicate peripezie editoriali di questo saggio dai molti volti, ricostruite minuziosamente dal prefatore. Basterà qui precisare che il libro appena ripubblicato è tratto da un manoscritto di Spirito stesso ritrovato nel suo archivio, sensibilmente diverso dalle versioni manipolate già uscite nei decenni scorsi in italiano e in inglese e in cui il filosofo appariva acriticamente schierato al fianco dello scià, al quale invece, nel testo originale, non risparmia critiche. Perché Ugo Spirito, sul finire della sua vita, si sia andato a interessare di un regime come quello di Pahlavi non è chiaro. È probabile che il pensatore vi abbia visto un'ultima occasione di farsi «consigliere del principe». Ipotesi che sembrerebbe confermata dalla postfazione di un ex discepolo del filosofo, lo studioso Hervé Cavallera, che ricorda: «Un giorno Spirito mi informò che avrebbe dovuto andare in Iran, ospite dello scià, e organizzare a Teheran un grande palazzo della cultura. Mi accennò al cambiamento in atto nel Paese e mi chiese se fossi disposto ad andare con lui in Iran». Evidentemente il filosofo era stato coinvolto in un progetto (decisamente intempestivo, viste le date) di cui oggi non sappiamo nulla, forse proprio con l'intermediazione di Dino editore, casa editrice che pubblicò vari scritti del sovrano persiano. Ma su questo, come detto, si possono fare solo congetture. Andando al libro in sé, più che al suo accidentato retroterra, non stupirà sapere che una buona parte del testo sia dedicata alle riforme sociali. Un vecchio pallino del teorico di quella «corporazione proprietaria» che fece scandalo in un famoso convegno svoltosi nel 1932 a Ferrara. Secondo Spirito, l'essenza della «rivoluzione bianca» ha un nome: «Comproprietà dei beni». Ovvero: «Tutti devono essere proprietari dei beni che producono. I prodotti devono essere comuni e la giustizia è costituita dalla loro ripartizione in funzione del lavoro prestato». Rinasceva quindi il vecchio sogno di una terza via: «La rivoluzione dello scià si poneva esplicitamente contro la via nera e contro la via rossa. Né capitalismo né comunismo. [...] Alla proprietà dei capitalisti e alla negazione della proprietà sostenuta dai comunisti, lo scià affermava il principio della comproprietà in funzione del quale raggiungere la collaborazione generale». Che questo ambizioso progetto sia stato realizzato o anche solo accennato da Reza Pahlavi è cosa di cui è lecito dubitare. L'ex sovrano iraniano, su cui peraltro manca ancora un giudizio storico sereno e obiettivo, non viene ricordato come uno straordinario riformatore sociale, tanto meno come un rifondatore della stessa scienza economica moderna, come pretendeva Spirito. Nei grandi consensi riscossi da Khomeini, anzi, influì proprio lo sfarzo ostentato dalla casa reale a fronte di una popolazione che, pur galleggiando sopra un mare di petrolio, viveva per lo più nella miseria. Ma il testo di Spirito non va letto come un documento filologicamente attendibile sull'Iran dello scià. Primo, perché l'autore era un filosofo e non uno storico; secondo, perché, come abbiamo visto, il testo nasceva con intenti «operativi» ed è probabile che Spirito ci abbia raccontato cos'era l'Iran di allora con l'intento di illustrare cosa avrebbe dovuto essere. Dietro la descrizione si celava probabilmente il suggerimento al sovrano sulla direzione in cui intervenire. La bizzarria è che questo interventismo culturale sia stato pensato pochi mesi prima della caduta rovinosa del regime su cui si voleva intervenire e della morte stessa del filosofo. Una doppia inattualità, che tuttavia contribuisce in qualche modo al fascino di un libretto che costituisce pur sempre un piccolo spaccato del Novecento.
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