
Il leader dell'Akp Recep Tayyip Erdogan è fresco di vittoria alle ultime elezioni ma, a dispetto delle apparenze, ne esce indebolito. Ecco perché rafforza l'alleanza con gli Usa e punta a costruire una pericolosa Grande Albania musulmana.Nonostante tutti i media globali riportino la vittoria alle elezioni presidenziali e parlamentari turche di Recep Tayyip Erdogan pochi hanno notano che si tratta di un risultato politicamente modesto, sebbene indubbiamente pregno di gravi conseguenze. Erdogan vince, ma non stravince. Egli riceve il 52% dei voti come presidente e poco più del 40% come capo del partito giustizia e sviluppo (Akp). Per governare avrà bisogno dello storico alleato partito nazionalista. Da venerdì, giorno in cui verranno ufficializzati i risultati, Erdogan, grazie alla riforma costituzionale approvata per il rotto della cuffia nel 2017, farà abbandonare alla Turchia il sentiero giuridico occidentale su cui l'aveva portata Ataturk Kemal e impersonerà in un unico soggetto il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. La Turchia torna al sultanato e decreta la morte dell'esperimento secolarista. Erdogan però psicologicamente soffre in quanto i numeri hanno dimostrato che egli, lungi dall'essere una guida generalmente amata, è un autocrate visionario sostenuto dal popolo. La sua trasformazione costituzionale vista internazionalmente nasce zoppa in legittimità. Per vincere la partita il presidente turco ha dovuto gestire ben sei anni di proteste interne, vincere un referendum per cui ha fatto campagna elettorale anche nei Paesi dell'Unione europea e prima delle elezioni incarcerare migliaia di oppositori politici, eliminare la libertà di stampa e mantenere valido lo stato d'emergenza proclamato all'indomani del fallito tentativo del colpo di Stato del 2016. Vladimir Putin, Nursultan Nazarbayev o perfino Xi Jinping rimangono per Erdogan degli esempi irraggiungibili di fulgida gestione personale del potere. Tuttavia, nonostante le critiche di circostanza da parte dei politici occidentali, Erdogan ha vinto di misura le elezioni grazie all'apporto del mondo Nordatlantico. Contrariamente a quanto avvenuto durante la campagna referendaria del 2017 nessuna grande potenza straniera ha questa volta criticato i metodi autoritari del presidente turco, nessuna grande manifestazione internazionale ha minato la legittimità delle elezioni svoltesi con il controllo della stampa e in regime di stato d'emergenza, ma soprattutto seguendo la logica secondo la quale è sempre meglio tenersi vicino il nemico, il Paese guida della Nato, gli Stati Uniti, ha segretamente aiutato Erdogan a ottenere un grande successo politico prima del voto. Qualora la Turchia abbandonasse la Nato, cedendo alle sirene russe tanto attive negli ultimi due anni, il quadro geopolitico mondiale ne sarebbe stravolto. Prendendo una decisione puramente realpolitica la diplomazia americana, ufficialmente impegnata a difendere l'intoccabilità della rete facente capo a Fethullah Gulen, filosofo esiliato negli Usa e accusato dalla Turchia d'essere a capo dell'ultimo tentativo di colpo di Stato, ha permesso ai servizi segreti turchi di arrestare a fine marzo ben sei suoi adepti. Un gesto simbolico, ma molto apprezzato da Ankara. Il Kosovo, Paese in maggioranza musulmano, esiste in quanto protettorato americano, Erdogan e il presidente kosovaro Hashim Thaci hanno un ottimo rapporto personale e i due, senza nulla dire ai propri governi, hanno organizzato, con il via libera ufficioso dato da Washington a Thaci, la cattura in territorio kosovaro da parte dei servizi segreti turchi di sei professori gulenisti grazie ai quali nelle ultime settimane Erdogan ha potuto sfruttare mediaticamente il successo dell'operazione. Visto il risicato successo elettorale è corretto concludere che il favore fatto da Washington ha ora un peso specifico rilevante e che lentamente la Turchia dovrebbe calmierare i suoi comportamenti antiamericani in ambito Nato. Inoltre la sostenuta amicizia tra Thaci ed Erdogan ha certamente anche un significato strategico se si calcolano i pesanti investimenti turchi nella regione balcanica sopra la quale storicamente Ankara desidera dispiegare la propria sfera d'influenza anche attraverso un'attiva politica d'islamizzazione. I Balcani stanno tornando a essere la cartina di tornasole della stabilità europea e nonostante i continui dinieghi ufficiali da parte d'Albania - Paese membro della Nato - e Kosovo di volersi mai unire in una «Grande Albania», la Turchia ha visto di buon grado l'approvazione da parte dei parlamenti di Tirana e Pristina, alcune settimane addietro, della legge che abolisce per i kosovari e gli albanesi il confine di Stato. Una notizia che non ha trovato spazio nei media occidentali, ma che rilancia il ruolo della Turchia come campione panislamico nello scenario europeo e che pare essere una sorta di compensazione per le potenziali perdite di Ankara nello scenario siriano. Qualora anche in Macedonia, come pare stia accadendo, la minoranza albanese riuscisse a cambiare a proprio favore la costituzione si creerebbe una linea ininterrotta di Stati islamici dall'Asia e dall'Africa fino al confine croato. In esattamente cento anni torneremmo alle faglie geopolitiche del 1914.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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