2020-05-05
La trattativa con i boss l’ha fatta Bonafede?
Nino Di Matteo accusa il Guardasigilli: «Mi voleva capo del Dap, i mafiosi gli fecero cambiare idea». Lui si dice «esterrefatto», ma conferma il racconto del procuratore. Silenzio imbarazzato dei manettari grillini e del premier, grande sostenitore di dj Fofò.Se quel che sta accadendo al grillino Alfonso Bonafede fosse capitato a uno qualsiasi tra i suoi ultimi 16 predecessori al ministero della Giustizia, dal socialista Claudio Martelli (1991-1993) al dem Andrea Orlando (2014-2018), non ci sarebbe stato dubbio: sarebbe partita una polemica al fulmicotone; il ministro sarebbe stato costretto alle dimissioni e probabilmente sarebbe venuto giù il governo; e magari un pm più stizzoso degli altri avrebbe aperto un'inchiestina per «presunta trattativa Stato-mafia». Invece, almeno fin qui, la polemica sembra contenuta: la maggioranza fa finta di nulla; e la magistratura pare interessata tutt'al più ad aprire indagini sui morti da coronavirus nelle Rsa.Il caso Bonafede lascia davvero interdetti: per la sua gravità, da una parte, e dall'altra per l'inconsistenza dei suoi effetti. La vicenda inizia dai disastri del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, cioè la branca del ministero della Giustizia che nelle ultime settimane non ha saputo trovare alternative al rischiosissimo trasferimento agli arresti domiciliari per troppi boss mafiosi, che in cella erano esposti al contagio. Sabato scorso, dopo giorni di attacchi esterni e di pressioni interne, il capo del Dap, Francesco Basentini, cioè l'uomo che Bonafede aveva scelto il 26 giugno 2018, cioè meno di un mese dopo essere divenuto ministro, ha lasciato la sua poltrona ed è stato rimpiazzato. A quel punto, il ministro grillino pareva essersi liberato dagli impicci scaricando sullo sconfitto Basentini tutte le colpe di una politica carceraria densa di errori. E invece sulla sua testa si è abbattuto un fulmine: Nino Di Matteo.Di Matteo, pubblico ministero antimafia palermitano, uno degli inquirenti più duri nel procedimento sulla presunta trattativa fra Stato e Cosa nostra e dall'ottobre 2019 membro del Consiglio superiore della magistratura, domenica scorsa è intervenuto a sorpresa con una telefonata a Non è l'Arena, la trasmissione di Massimo Giletti su La 7, mentre si parlava proprio di carceri e dell'addio di Basentini. Il pm ha rivelato che nel giugno 2018 Bonafede, appena insediato al ministero, l'aveva chiamato per proporgli di diventare «o il capo del Dap, o in alternativa il direttore generale degli Affari penali». Di Matteo ha raccontato di essersi preso 48 ore di tempo per rispondere, ma ha sottolineato con forza un particolare: «Nel frattempo», ha detto, «e questo è molto importante che si sappia, alcune note informative redatte dal Gruppo operativo mobile della polizia penitenziaria avevano descritto la reazione di importantissimi capi mafia all'indiscrezione che io potessi essere nominato a capo del Dap». Quelle reazioni, ovviamente, erano più che negative.«Trascorse le 48 ore, o forse già l'indomani» ha proseguito Di Matteo nella telefonata a Giletti «andai a trovare il ministro Bonafede perché avevo deciso di accettare la nomina al Dap. Il ministro, che pure fu molto cortese, mi disse però che ci aveva ripensato, che aveva pensato di nominare per quel posto Basentini, e mi chiese di accettare il ruolo di direttore generale degli Affari penali nel quale mi “vedeva meglio"». Dura la reazione del magistrato: «Rimasi colpito da quell'improvviso cambiamento di proposta», ha ricordato Di Matteo, e ha aggiunto: «Il ministro ci aveva ripensato, o forse qualcuno l'aveva indotto a ripensarci; questo non lo posso sapere». Finale di vicenda: «Il giorno dopo», ha concluso Di Matteo, «gli dissi di non contare su di me, perché non avrei accettato». Una rivelazione sconcertante, insomma, per di più condita dal veleno dell'ipotesi che il ministro della Giustizia due anni fa avesse subìto la situazione, se non qualcosa di peggio. Affermazioni così gravi che Bonafede è stato subito costretto a intervenire, telefonando a sua volta a Giletti. Il ministro s'è detto «esterrefatto» di quanto aveva sentito, però ha confermato l'intero racconto di Di Matteo. Ha contestato solo «l'idea che io, in virtù di chissà quale paura sopravvenuta, avrei ritrattato la mia proposta: è un'idea che non sta né in cielo né in terra», ha detto Bonafede, aggiungendo una frase ambigua: «È una percezione, legittima, del dottor Di Matteo».Il ministro ha concluso insistendo soprattutto sulla proposta alternativa che aveva fatto a Di Matteo: «Gli dissi che tra i due ruoli per me era più importante quello di direttore degli Affari penali, più di frontiera nella lotta alla mafia, il ruolo ricoperto da Giovanni Falcone…».È forse possibile che due anni fa Bonafede, appena sbarcato al ministero, non sapesse che un suo capo dipartimento è cento volte più importante di un direttore generale (lo dimostrano, prosaicamente, anche le retribuzioni: un capo dipartimento guadagna 320.000 euro l'anno, un direttore si ferma a 180.000), ma è davvero strano che continui a dichiararlo oggi. Se il ministro grillino non l'ha ancora capito, è un fatto grave. Se invece l'ha capito, è anche peggio.Ancora più strano è che ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte - che pure è legatissimo a Bonafede, tanto da aver fatto di lui uno dei pochi ministri confermati nel voltafaccia dalla maggioranza con la Lega a quella con il Pd - non abbia preso posizione sul caso. Anche i grillini sembrano in grave imbarazzo. Si vedrà che cosa accadrà nei giorni prossimi. Sarà interessante, anche, osservare che posizioni prenderà Il Fatto Quotidiano. Forse si troverà in imbarazzo: la diatriba, infatti, crea una frattura insanabile tra l'ala grillina più «giustizialista», quella di cui il giornale è l'organo, e la magistratura antimafia che è schierata con Di Matteo, uno degli idoli di Marco Travaglio.