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2019-01-29
Migranti sequestrati dalla Ong
Ansa
Sono molte le partite (politica, giuridica, internazionale) che si giocano sulla Sea Watch 3, la nave con 47 immigrati a bordo ancora bloccata a largo delle coste di Siracusa. Un'ordinanza firmata dal comandante della Capitaneria di porto di Siracusa, Luigi D'Aniello, ha proibito la navigazione nello specchio d'acqua all'interno della baia di Santa Panagia, per un raggio di mezzo miglio dall'imbarcazione dell'Ong tedesca. Lo scopo è chiaramente quello di evitare di trasformare la nave in una passerella per politici folgorati sulla via della solidarietà, sulla scia di quanto già fatto da Nicola Fratoianni, Riccardo Magi e Stefania Prestigiacomo, anche se il provvedimento non ha impedito ieri al Pd di replicare la performance.
Sul primo blitz dei parlamentari si è nel frattempo abbattuta la condanna di Matteo Salvini, secondo cui i politici saliti a bordo «non hanno rispettato le norme igienico sanitarie. Possono portare a terra di tutto e di più». Il vicepremier ha anche ribadito che «sulla Sea Watch non ci sono donne e bambini». Un particolare, questo, su cui è interessante anche quanto detto dal Procuratore di Siracusa, Fabio Scavone, secondo cui «alcuni minorenni hanno un'età dubbia». La Procura ha aperto un fascicolo d'indagine senza reati né indagati, ma ci ha tenuto a precisare che il comandante dell'imbarcazione «non ha commesso alcun reato e non è stata neppure presa in considerazione al momento l'ipotesi di un eventuale sequestro della nave». Per Scavone Sea Watch «ha salvato i migranti e scelto quella che appariva la rotta più sicura in quel momento».
Già, la rotta più sicura. È un altro dei livelli in cui si colloca la querelle, quello internazionale. L'Ong è tedesca, la nave batte bandiera olandese, i migranti sono stati avvistati in zona Sar libica, il porto sicuro più vicino è in Tunisia: perché devono sbarcare in Italia? È l'aspetto su cui spinge il governo italiano. L'Ong, dal canto suo, ha tentato di spiegare sul suo profilo Twitter come siano finiti a Lampedusa: lo scorso 23 gennaio, dopo aver previsto l'arrivo di una forte perturbazione da Nordovest, l'imbarcazione avrebbe avvisato il centro di coordinamento olandese e la Capitaneria di porto di Lampedusa. Una volta appresa l'impossibilità di attraccare sull'isola siciliana, il governo olandese ha cercato di mettersi in contatto con quello tunisino, ma senza successo. Sea Watch ha comunque sottolineato di non aver mai ricevuto dall'Olanda alcuna risposta in merito alla richiesta di un porto rifugio in Tunisia. «Per queste ragioni, il comandante della nave ha quindi optato per una rotta meno vessatoria, verso Nord», ha spiegato la Ong. Peccato che Lampedusa disti più del doppio rispetto a Zarzis, primo porto tunisino nei paraggi. Questo complicato intrigo di rimpalli e mezze verità nasconde una serie di responsabilità politiche. Prendiamo il governo olandese. Sì, quello salito al potere dopo le elezioni del marzo 2017 in cui, si disse, venne sconfitto il populismo e trionfarono i valori dell'Europa. Eppure è lo stesso esecutivo che, chiamato in ballo in queste ore, manda a dire di non voler «partecipare a misure ad hoc per lo sbarco». E puntualizza: «Quelli che non hanno diritto alla protezione internazionale devono essere mandati indietro immediatamente al loro arrivo ai confini europei», come afferma il loro ministero della Giustizia. Siamo alla distinzione tra veri e falsi profughi, lo stesso concetto che, quando è espresso da Salvini, viene presentato dalla stampa di sinistra come l'anticamera delle selezioni razziali stile Auschwitz.
Tutto da capire, poi, è il ruolo della Tunisia. Sul Paese nordafricano punta il dito il leghista Claudio Borghi, che in un post su Facebook scrive: «Alla Sea Watch ricordo che se è vero (come da loro video) che l'incontro con il gommone dei “migranti" è avvenuto al largo di Zuara, a pochissima distanza da lì c'è Djerba con un ottimo Club Med francese oppure se preferiscono qualcosa di tedesco c'è il lussuosissimo Tui». Insomma, per Borghi, «anche senza bisogno di chiedere al governo olandese se la Tunisia è sicura, basta documentarsi per sapere che l'anno scorso ci sono andati 8 milioni di turisti. Quindi se veramente vuoi “salvare dei naufraghi" allora basta riportarli a riva e lì non ci sono predoni ma gente che sta facendo i balli di gruppo e stappando champagne, se invece l'intento è portare a termine la rotta iniziata dagli scafisti allora il discorso è differente. Basta che non ci prendiamo in giro».
Sorprende, in effetti, che ci si facciano tanti problemi circa la sicurezza di un Paese che, solo poche settimane fa, la prestigiosa rivista americana Travel and Leisure ha inserito tra le 50 migliori destinazioni al mondo da visitare nel 2019. L'anno scorso, le entrate finanziarie derivanti dal turismo nel Paese sono aumentate del 45% rispetto al 2017, il che significa che i porti tunisini funzionano e pure bene. E, per non farci mancare nulla, l'Unione europea ha appena annunciato un finanziamento alla Tunisia di 305 milioni di euro. Lo stipendio per pagare un centralinista della Guardia costiera, a occhio e croce, dovrebbe uscirci. Ma è di tutta evidenza che nessuno - tunisini, olandesi, tedeschi, attivisti delle Ong, euroburocrati, buonisti di casa nostra - ha interesse a far cadere il tabù dell'Italia «unico porto sicuro».
Non foss'altro che per mettere in difficoltà Salvini. Che la questione sia più politica che «solidale» lo si capisce anche dallo sfrontato braccio di ferro dell'Ong: «Dovranno sbarcare tutti o nessuno», era scritto nel comunicato firmato dall'armatore e stilato da Giorgia Lunardi, portavoce dell'Ong.
Il fatto è che l'Italia deve tornare a essere il campo profughi d'Europa. Anche a costo di continuare a giocare sulla pelle dei disperati.
La sfilata del Pd in cerca di martirio. Orfini e Martina indagati in coppia
Per lunghe e interminabili ore, il Pd ha temuto di non riuscire a perdere voti altrettanto velocemente di Forza Italia sulla vicenda Sea Watch. Ma ieri l'impegno indefesso di una pattuglia guidata dal segretario uscente Maurizio Martina ha forse scongiurato il rischio. Con una sorpresa finale: i membri della delegazione si sono pure lamentati di essersi beccati una denuncia.
Riassunto delle puntate precedenti: domenica pomeriggio il Pd aveva solennemente proclamato la «staffetta democratica», annunciando la presenza a bordo dei parlamentari del Pd, a rotazione, «finché ai 47 migranti non sarà permesso di sbarcare in Italia». E per dar corpo alla promessa, la formazione schierata al porto di Siracusa contava - oltre a Martina - Matteo Orfini, Davide Faraone, Carmelo Miceli, Francesco Verducci e Fausto Raciti. Bruciati sul tempo dal trio Riccardo Magi (+Europa), Nicola Fratoianni (Sinistra italiana), Stefania Prestigiacomo (Forza Italia), e senza neanche poter sfoggiare la messa in piega della deputata forzista, il sestetto del Pd partiva in evidente svantaggio.
Ma il vero dramma si è consumato quando, per 16-18 ore, ai sei democratici non è riuscita l'impresa di salire a bordo, superando il cordone sanitario stabilito dalle autorità. Gli account Twitter dei sei malcapitati dem hanno offerto una cronaca dettagliata, roba da «tutto il molo minuto per minuto». Ha cominciato Martina verso le 18 dell'altra sera: «Sono in partenza per Siracusa e in contatto con gli operatori della Sea Watch». Prima notazione interessante: nessuno sa se il Pd sia più in contatto con lavoratori e operai, ma in compenso Martina si messaggia con le Ong del mare. Poi, dopo le 22, l'arrivo e l'amara sorpresa: non lo fanno salire. «Ora a Siracusa. Denunciamo violazione di legge, lo sbarco non si può impedire».
Poi nessuna notizia per 10 ore: presumiamo dedicate a vitto, alloggio e inevitabili esigenze fisiologiche. Martina ricompare ieri mattina: in edicola (sul Corriere della Sera), in tv (ad Agorà su Rai 3 e a L'aria che tira su La 7), e naturalmente su Twitter: «Chiediamo l'attracco immediato della Sea Watch. Non ci si può voltare dall'altra parte». E ancora: «È nostro dovere essere a Siracusa, come siamo stati a Catania nei giorni della Diciotti».
A dar manforte sul molo e sui social ci pensa Matteo Orfini. Ecco il tweet delle 13 di ieri: «A Siracusa abbiamo appena incontrato gli operatori della Sea Watch. Prima che ascoltati vanno ringraziati. Sono un presidio coraggioso di umanità». Inenarrabili i commenti degli utenti, letteralmente imbestialiti verso la delegazione Pd: «Sono solo dei pirati»; «C'era pure Minniti?»; «È evidente che il 4 marzo non v'è bastato».
Insomma, un disastro. Ma la valorosa pattuglia del Pd non si perde d'animo. Il più scatenato è Faraone che alle 13 tuona: «Stavamo per prendere un gommone e salire a bordo della Sea Watch e Salvini ha ordinato di non far salire nessuno. Ancora una volta ha violato la legge».
Ma nulla può fermare i parlamentari democratici sulla strada delle telecamere (e della perdita di voti), e quindi i sei chiedono e ottengono un incontro con il prefetto e con la Capitaneria di porto. Alla fine, ricevono il sospirato via libera. È proprio Faraone ad annunciarlo trionfante: «Terminato l'incontro in Prefettura. La delegazione dei parlamentari del @pdnetwork salirà a bordo intorno alle 15.30 Finalmente!». Lo segue a ruota Orfini, altrettanto barricadero: «Stiamo salendo sulla Sea Watch. Finché il governo non aprirà il porto e li farà sbarcare, noi non arretreremo di un passo in questa battaglia di umanità».
A fine giornata, la discesa, l'agognata passerella nei tg, con relativo lamento per l'ipotesi di denuncia. Il primo a riemergere è stato Orfini: «Io e Martina siamo appena rientrati in porto. Ora stiamo facendo l'elezione di domicilio perché a quanto pare siamo indagati per essere saliti sulla nave». Ma in rete non si è impietosito quasi nessuno, e uno gli ha subito risposto: «Lo sapevi anche prima». Estenuato e sofferente Martina: «Basta guardare negli occhi quelle persone per capire che è disumano quello che stanno facendo. Fateli sbarcare, fateli sbarcare, fateli sbarcare». Ma la polemica del Pd - a quanto pare - è contro Salvini, mica contro gli scafisti.
Non si hanno notizie precise di come questo spettacolo sia stato seguito dai 47 immigrati a bordo della nave. Un sospetto lo avanza sempre su Twitter, con un commento fulminante, l'account @nonexpedit: «Se non li salvano quelli della Sea Watch, i deputati del Pd non li salva più nessuno». A noi resta un dubbio. Ma il Pd, negli anni in cui era al governo, non poteva dedicare altrettanta energia e passione agli sbancati dai crac bancari, ai disoccupati, ai terremotati, ai lavoratori anziani bersagliati dalla legge Fornero?
I magistrati scrivono sonetti per lo sbarco
Magistrati democratici, pro migranti e pure poeti. Sono 60 i togati dell'Emilia Romagna che, utilizzando questa volta una forma aulica, si sono pubblicamente allineati all'idea che bisogna «insorgere», contro la chiusura dei porti all'arrivo dei clandestini, voluta dal ministro dell'Interno Matteo Salvini. Lo hanno fatto sabato scorso, poco prima dell'inizio della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario, sottoscrivendo un foglio in cui erano riportate le parole che don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera, aveva pronunciato qualche giorno prima, schierandosi apertamente contro le politiche di governo in materia di immigrazione.
«Dobbiamo insorgere quando vengono violati i più elementari diritti umani. Dobbiamo assumerci la nostra responsabilità come cittadini e come cristiani. Il primo grande naufragio è quello delle nostre coscienze», aveva sostenuto Ciotti qualche giorno fa in una intervista dopo l'esplosione del caso della Sea Watch 3. E se la massima del fondatore di Libera, vergata sul foglio, non fosse bastata per far capire da che parte stiano i giudici firmatari, ecco apparire, subito sotto, anche una poesia dedicata ai sedicenti profughi. A scriverla un magistrato di sorveglianza a Santa Maria Capua Vetere, Marco Puglia, che ha messo in versi le ipotetiche parole di un bambino che sta attraversando il mare a bordo di un gommone e, disperato, si rivolge alla madre: «Mamma perché nessuno ci viene ad aiutare? Ho freddo ed ho paura a restare qui nel mare», c'è scritto all'inizio del componimento, riportato sul manifesto.
Nonostante la netta presa di posizione, ancora più forte ora che sul ministro dell'Interno pende la richiesta di un processo, per Magistratura Democratica che ha promosso la sottoscrizione, non c'è nessuna «questione ideologica» alla base del gesto. Secondo Carlo Sorgi, presidente di sezione del Tribunale del Lavoro di Bologna, nonché segretario regionale della corrente, a firmare il foglio sarebbero stati «magistrati dalle sensibilità trasversali», con la volontà di esprimere «non una posizione ideologica ma uno stato d'animo di profonda partecipazione agli attuali accadimenti». In altre parole, per i sottoscrittori, si sarebbe trattato semplicemente di un modo per «sensibilizzare su un tema in questo momento fondamentale, la tutela e la salvaguardia della vita umana», mentre la poesia «serve a richiamare l'attenzione su un principio indispensabile per qualsiasi consesso civile e che è al di sopra di tutto».
A proposito di Magistratura Democratica, Nicola La Mantia, Sandra Levanti e Paolo Corda - i tre giudici del Tribunale dei ministri di Catania che hanno chiesto al Senato l'autorizzazione a procedere per Salvini - secondo quanto risulta sarebbero iscritti alla corrente di sinistra delle toghe, così come anche Luigi Patronaggio, il procuratore ad Agrigento da cui ha preso il via l'indagine sulla nave Diciotti (e che ha ipotizzato in prima battuta il sequestro a scopo di coazione a carico del leader leghista). Recentemente Magistratura Democratica, attraverso il sito Web di riferimento, si era espressa senza mezzi termini anche sulla vicenda di Riace, definendo quello messo in piedi dal sindaco, Mimmo Lucano, un «modello di integrazione e di pacifica convivenza», minato e poi distrutto «dal rifiuto dell'idea e del progetto di comunità che la nostra Costituzione costruisce sulla forza unificante dei principi di pari dignità, di eguaglianza e di solidarietà».
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Il porto più sicuro per la Sea Watch era nella vicina Tunisia. Invece la nave ha puntato la prua sull'Italia: un gesto politico teso a forzare la mano. Il fatto è che la linea del governo funziona, come dimostrano i numeri: sta strangolando un turpe business. E in Forza Italia volano gli stracci.Con un giorno di ritardo rispetto a Forza Italia, un gruppo di dem prende un gommone e va a visitare gli africani nonostante i divieti d'avvicinamento. Rientrati in porto annunciano: «Siamo sotto inchiesta».Una sessantina di toghe dell'Emilia Romagna ha siglato un appello pro immigrazione, con tanto di poema.Lo speciale contiene tre articoli.Sono molte le partite (politica, giuridica, internazionale) che si giocano sulla Sea Watch 3, la nave con 47 immigrati a bordo ancora bloccata a largo delle coste di Siracusa. Un'ordinanza firmata dal comandante della Capitaneria di porto di Siracusa, Luigi D'Aniello, ha proibito la navigazione nello specchio d'acqua all'interno della baia di Santa Panagia, per un raggio di mezzo miglio dall'imbarcazione dell'Ong tedesca. Lo scopo è chiaramente quello di evitare di trasformare la nave in una passerella per politici folgorati sulla via della solidarietà, sulla scia di quanto già fatto da Nicola Fratoianni, Riccardo Magi e Stefania Prestigiacomo, anche se il provvedimento non ha impedito ieri al Pd di replicare la performance. Sul primo blitz dei parlamentari si è nel frattempo abbattuta la condanna di Matteo Salvini, secondo cui i politici saliti a bordo «non hanno rispettato le norme igienico sanitarie. Possono portare a terra di tutto e di più». Il vicepremier ha anche ribadito che «sulla Sea Watch non ci sono donne e bambini». Un particolare, questo, su cui è interessante anche quanto detto dal Procuratore di Siracusa, Fabio Scavone, secondo cui «alcuni minorenni hanno un'età dubbia». La Procura ha aperto un fascicolo d'indagine senza reati né indagati, ma ci ha tenuto a precisare che il comandante dell'imbarcazione «non ha commesso alcun reato e non è stata neppure presa in considerazione al momento l'ipotesi di un eventuale sequestro della nave». Per Scavone Sea Watch «ha salvato i migranti e scelto quella che appariva la rotta più sicura in quel momento». Già, la rotta più sicura. È un altro dei livelli in cui si colloca la querelle, quello internazionale. L'Ong è tedesca, la nave batte bandiera olandese, i migranti sono stati avvistati in zona Sar libica, il porto sicuro più vicino è in Tunisia: perché devono sbarcare in Italia? È l'aspetto su cui spinge il governo italiano. L'Ong, dal canto suo, ha tentato di spiegare sul suo profilo Twitter come siano finiti a Lampedusa: lo scorso 23 gennaio, dopo aver previsto l'arrivo di una forte perturbazione da Nordovest, l'imbarcazione avrebbe avvisato il centro di coordinamento olandese e la Capitaneria di porto di Lampedusa. Una volta appresa l'impossibilità di attraccare sull'isola siciliana, il governo olandese ha cercato di mettersi in contatto con quello tunisino, ma senza successo. Sea Watch ha comunque sottolineato di non aver mai ricevuto dall'Olanda alcuna risposta in merito alla richiesta di un porto rifugio in Tunisia. «Per queste ragioni, il comandante della nave ha quindi optato per una rotta meno vessatoria, verso Nord», ha spiegato la Ong. Peccato che Lampedusa disti più del doppio rispetto a Zarzis, primo porto tunisino nei paraggi. Questo complicato intrigo di rimpalli e mezze verità nasconde una serie di responsabilità politiche. Prendiamo il governo olandese. Sì, quello salito al potere dopo le elezioni del marzo 2017 in cui, si disse, venne sconfitto il populismo e trionfarono i valori dell'Europa. Eppure è lo stesso esecutivo che, chiamato in ballo in queste ore, manda a dire di non voler «partecipare a misure ad hoc per lo sbarco». E puntualizza: «Quelli che non hanno diritto alla protezione internazionale devono essere mandati indietro immediatamente al loro arrivo ai confini europei», come afferma il loro ministero della Giustizia. Siamo alla distinzione tra veri e falsi profughi, lo stesso concetto che, quando è espresso da Salvini, viene presentato dalla stampa di sinistra come l'anticamera delle selezioni razziali stile Auschwitz. Tutto da capire, poi, è il ruolo della Tunisia. Sul Paese nordafricano punta il dito il leghista Claudio Borghi, che in un post su Facebook scrive: «Alla Sea Watch ricordo che se è vero (come da loro video) che l'incontro con il gommone dei “migranti" è avvenuto al largo di Zuara, a pochissima distanza da lì c'è Djerba con un ottimo Club Med francese oppure se preferiscono qualcosa di tedesco c'è il lussuosissimo Tui». Insomma, per Borghi, «anche senza bisogno di chiedere al governo olandese se la Tunisia è sicura, basta documentarsi per sapere che l'anno scorso ci sono andati 8 milioni di turisti. Quindi se veramente vuoi “salvare dei naufraghi" allora basta riportarli a riva e lì non ci sono predoni ma gente che sta facendo i balli di gruppo e stappando champagne, se invece l'intento è portare a termine la rotta iniziata dagli scafisti allora il discorso è differente. Basta che non ci prendiamo in giro». Sorprende, in effetti, che ci si facciano tanti problemi circa la sicurezza di un Paese che, solo poche settimane fa, la prestigiosa rivista americana Travel and Leisure ha inserito tra le 50 migliori destinazioni al mondo da visitare nel 2019. L'anno scorso, le entrate finanziarie derivanti dal turismo nel Paese sono aumentate del 45% rispetto al 2017, il che significa che i porti tunisini funzionano e pure bene. E, per non farci mancare nulla, l'Unione europea ha appena annunciato un finanziamento alla Tunisia di 305 milioni di euro. Lo stipendio per pagare un centralinista della Guardia costiera, a occhio e croce, dovrebbe uscirci. Ma è di tutta evidenza che nessuno - tunisini, olandesi, tedeschi, attivisti delle Ong, euroburocrati, buonisti di casa nostra - ha interesse a far cadere il tabù dell'Italia «unico porto sicuro». Non foss'altro che per mettere in difficoltà Salvini. Che la questione sia più politica che «solidale» lo si capisce anche dallo sfrontato braccio di ferro dell'Ong: «Dovranno sbarcare tutti o nessuno», era scritto nel comunicato firmato dall'armatore e stilato da Giorgia Lunardi, portavoce dell'Ong. Il fatto è che l'Italia deve tornare a essere il campo profughi d'Europa. Anche a costo di continuare a giocare sulla pelle dei disperati. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-strategia-di-sea-watch-sfruttare-i-clandestini-con-una-rotta-senza-senso-2627345266.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-sfilata-del-pd-in-cerca-di-martirio-orfini-e-martina-indagati-in-coppia" data-post-id="2627345266" data-published-at="1765780419" data-use-pagination="False"> La sfilata del Pd in cerca di martirio. 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Bruciati sul tempo dal trio Riccardo Magi (+Europa), Nicola Fratoianni (Sinistra italiana), Stefania Prestigiacomo (Forza Italia), e senza neanche poter sfoggiare la messa in piega della deputata forzista, il sestetto del Pd partiva in evidente svantaggio. Ma il vero dramma si è consumato quando, per 16-18 ore, ai sei democratici non è riuscita l'impresa di salire a bordo, superando il cordone sanitario stabilito dalle autorità. Gli account Twitter dei sei malcapitati dem hanno offerto una cronaca dettagliata, roba da «tutto il molo minuto per minuto». Ha cominciato Martina verso le 18 dell'altra sera: «Sono in partenza per Siracusa e in contatto con gli operatori della Sea Watch». Prima notazione interessante: nessuno sa se il Pd sia più in contatto con lavoratori e operai, ma in compenso Martina si messaggia con le Ong del mare. Poi, dopo le 22, l'arrivo e l'amara sorpresa: non lo fanno salire. «Ora a Siracusa. Denunciamo violazione di legge, lo sbarco non si può impedire». Poi nessuna notizia per 10 ore: presumiamo dedicate a vitto, alloggio e inevitabili esigenze fisiologiche. Martina ricompare ieri mattina: in edicola (sul Corriere della Sera), in tv (ad Agorà su Rai 3 e a L'aria che tira su La 7), e naturalmente su Twitter: «Chiediamo l'attracco immediato della Sea Watch. Non ci si può voltare dall'altra parte». E ancora: «È nostro dovere essere a Siracusa, come siamo stati a Catania nei giorni della Diciotti». A dar manforte sul molo e sui social ci pensa Matteo Orfini. Ecco il tweet delle 13 di ieri: «A Siracusa abbiamo appena incontrato gli operatori della Sea Watch. Prima che ascoltati vanno ringraziati. Sono un presidio coraggioso di umanità». Inenarrabili i commenti degli utenti, letteralmente imbestialiti verso la delegazione Pd: «Sono solo dei pirati»; «C'era pure Minniti?»; «È evidente che il 4 marzo non v'è bastato». Insomma, un disastro. Ma la valorosa pattuglia del Pd non si perde d'animo. Il più scatenato è Faraone che alle 13 tuona: «Stavamo per prendere un gommone e salire a bordo della Sea Watch e Salvini ha ordinato di non far salire nessuno. Ancora una volta ha violato la legge». Ma nulla può fermare i parlamentari democratici sulla strada delle telecamere (e della perdita di voti), e quindi i sei chiedono e ottengono un incontro con il prefetto e con la Capitaneria di porto. Alla fine, ricevono il sospirato via libera. È proprio Faraone ad annunciarlo trionfante: «Terminato l'incontro in Prefettura. La delegazione dei parlamentari del @pdnetwork salirà a bordo intorno alle 15.30 Finalmente!». Lo segue a ruota Orfini, altrettanto barricadero: «Stiamo salendo sulla Sea Watch. Finché il governo non aprirà il porto e li farà sbarcare, noi non arretreremo di un passo in questa battaglia di umanità». A fine giornata, la discesa, l'agognata passerella nei tg, con relativo lamento per l'ipotesi di denuncia. Il primo a riemergere è stato Orfini: «Io e Martina siamo appena rientrati in porto. Ora stiamo facendo l'elezione di domicilio perché a quanto pare siamo indagati per essere saliti sulla nave». Ma in rete non si è impietosito quasi nessuno, e uno gli ha subito risposto: «Lo sapevi anche prima». Estenuato e sofferente Martina: «Basta guardare negli occhi quelle persone per capire che è disumano quello che stanno facendo. Fateli sbarcare, fateli sbarcare, fateli sbarcare». Ma la polemica del Pd - a quanto pare - è contro Salvini, mica contro gli scafisti. Non si hanno notizie precise di come questo spettacolo sia stato seguito dai 47 immigrati a bordo della nave. Un sospetto lo avanza sempre su Twitter, con un commento fulminante, l'account @nonexpedit: «Se non li salvano quelli della Sea Watch, i deputati del Pd non li salva più nessuno». A noi resta un dubbio. Ma il Pd, negli anni in cui era al governo, non poteva dedicare altrettanta energia e passione agli sbancati dai crac bancari, ai disoccupati, ai terremotati, ai lavoratori anziani bersagliati dalla legge Fornero? <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-strategia-di-sea-watch-sfruttare-i-clandestini-con-una-rotta-senza-senso-2627345266.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="i-magistrati-scrivono-sonetti-per-lo-sbarco" data-post-id="2627345266" data-published-at="1765780419" data-use-pagination="False"> I magistrati scrivono sonetti per lo sbarco Magistrati democratici, pro migranti e pure poeti. Sono 60 i togati dell'Emilia Romagna che, utilizzando questa volta una forma aulica, si sono pubblicamente allineati all'idea che bisogna «insorgere», contro la chiusura dei porti all'arrivo dei clandestini, voluta dal ministro dell'Interno Matteo Salvini. Lo hanno fatto sabato scorso, poco prima dell'inizio della cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario, sottoscrivendo un foglio in cui erano riportate le parole che don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele e di Libera, aveva pronunciato qualche giorno prima, schierandosi apertamente contro le politiche di governo in materia di immigrazione. «Dobbiamo insorgere quando vengono violati i più elementari diritti umani. Dobbiamo assumerci la nostra responsabilità come cittadini e come cristiani. Il primo grande naufragio è quello delle nostre coscienze», aveva sostenuto Ciotti qualche giorno fa in una intervista dopo l'esplosione del caso della Sea Watch 3. E se la massima del fondatore di Libera, vergata sul foglio, non fosse bastata per far capire da che parte stiano i giudici firmatari, ecco apparire, subito sotto, anche una poesia dedicata ai sedicenti profughi. A scriverla un magistrato di sorveglianza a Santa Maria Capua Vetere, Marco Puglia, che ha messo in versi le ipotetiche parole di un bambino che sta attraversando il mare a bordo di un gommone e, disperato, si rivolge alla madre: «Mamma perché nessuno ci viene ad aiutare? Ho freddo ed ho paura a restare qui nel mare», c'è scritto all'inizio del componimento, riportato sul manifesto. Nonostante la netta presa di posizione, ancora più forte ora che sul ministro dell'Interno pende la richiesta di un processo, per Magistratura Democratica che ha promosso la sottoscrizione, non c'è nessuna «questione ideologica» alla base del gesto. Secondo Carlo Sorgi, presidente di sezione del Tribunale del Lavoro di Bologna, nonché segretario regionale della corrente, a firmare il foglio sarebbero stati «magistrati dalle sensibilità trasversali», con la volontà di esprimere «non una posizione ideologica ma uno stato d'animo di profonda partecipazione agli attuali accadimenti». In altre parole, per i sottoscrittori, si sarebbe trattato semplicemente di un modo per «sensibilizzare su un tema in questo momento fondamentale, la tutela e la salvaguardia della vita umana», mentre la poesia «serve a richiamare l'attenzione su un principio indispensabile per qualsiasi consesso civile e che è al di sopra di tutto». A proposito di Magistratura Democratica, Nicola La Mantia, Sandra Levanti e Paolo Corda - i tre giudici del Tribunale dei ministri di Catania che hanno chiesto al Senato l'autorizzazione a procedere per Salvini - secondo quanto risulta sarebbero iscritti alla corrente di sinistra delle toghe, così come anche Luigi Patronaggio, il procuratore ad Agrigento da cui ha preso il via l'indagine sulla nave Diciotti (e che ha ipotizzato in prima battuta il sequestro a scopo di coazione a carico del leader leghista). Recentemente Magistratura Democratica, attraverso il sito Web di riferimento, si era espressa senza mezzi termini anche sulla vicenda di Riace, definendo quello messo in piedi dal sindaco, Mimmo Lucano, un «modello di integrazione e di pacifica convivenza», minato e poi distrutto «dal rifiuto dell'idea e del progetto di comunità che la nostra Costituzione costruisce sulla forza unificante dei principi di pari dignità, di eguaglianza e di solidarietà».
C'è un'invenzione che si deve agli aviatori, anzi, a un minuto personaggio brasiliano stanco di dover cercare l'orologio nel suo taschino mentre pilotava l'aeroplano.
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Se a causa degli scandali, il supporto alla resistenza ucraina mostra vistose crepe, con più della metà degli italiani che non è intenzionata a sostenere militarmente le truppe che cercano di respingere l’armata russa, non è che i soldati che da quasi quattro anni combattono sembrano poi pensarla in modo molto diverso. Sul Corriere della Sera ieri è stata pubblicata un’immagine in cui si vedono militari in divisa sfatti dalla fatica. Tuttavia, a colpire non è la stanchezza dei soldati, ma la loro età. Si capisce chiaramente che non si tratta di giovani bensì di anziani, considerando che comunque l’età media dei militari è superiore ai 40 anni. Uomini esausti, ma soprattutto anagraficamente lontani da un’immagine di agilità e forza. Intendiamoci, a volte gli anni portano esperienza e competenza, soprattutto al fronte, dove serve sangue freddo per non rischiare la pelle. Ma non è questo il punto: non si tratta di pensionare i militari più vecchi, ma di reclutare i giovani e questo è un problema che la fotografia pubblicata sul quotidiano di via Solferino ben rappresenta. Il giornale, infatti, ci informa che 235.000 militari non si sono presentati ai loro reparti e quasi 54.000 sono già stati ufficialmente dichiarati disertori. In pratica, un soldato su quattro del milione mobilitato pare non avere alcuna intenzione di imbracciare un fucile. Per quanto le guerre moderne si combattano con l’Intelligenza artificiale, con i satelliti e i droni, poi alla fine la differenza la fanno sempre gli uomini. A Pokrovsk, la città che da un anno resiste agli assalti delle truppe russe, impedendo agli uomini di Putin di dilagare nel Donbass, se non ci fossero reparti coraggiosi che continuano a respingere gli invasori, Mosca avrebbe già visto sventolare la sua bandiera sui tetti delle poche costruzioni rimaste in piedi dopo mesi di bombardamenti devastanti.
Il tema delle diserzioni, della fuga all’estero di centinaia di migliaia di giovani che non vogliono morire sotto le bombe, è tale che in Polonia e Germania, ma anche in altri Paesi confinanti, si sta facendo pressione per impedire l’arrivo di ulteriori fuggiaschi. Se si guarda al numero di chi non ha intenzione di combattere si capisce perché è necessario raggiungere una tregua. Quanto ancora potrà resistere l’Ucraina in queste condizioni? A marzo comincerà il quinto anno di guerra. Un conflitto che rischia di non avere precedenti, per numero di morti e per la devastazione. E soprattutto uno scontro che minaccia di trascinare in un buco nero l’intera Europa, che invece di cogliere il pericolo sembra scommettere ancora sulle armi piuttosto che sulla tregua. C’è chi continua a invocare una pace giusta, ma la pace giusta appartiene alle aspirazioni, non alla realtà.
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Non è detto che non accada. Intanto siete già riusciti a risvegliare dal lungo sonno il sottosegretario Alberto Barachini, che non è poco, anche se forse non basta di fronte alla grande battaglia, che avete lanciato, per salvare il «pensiero critico». Il punto è chiaro: un conto è se viene venduto un altro giornale, magari persino di destra, che allora ben gli sta; un conto è se viene venduto il quotidiano che andava in via Veneto e dettava la linea alla sinistra. Allora qui non sono soltanto in gioco posti di lavoro e copie in edicola. Macché: sono in gioco le «garanzie democratiche fondamentali per l’intero Paese» e soprattutto «la sopravvivenza stessa di un pensiero critico». Non si discute, insomma, del futuro di Repubblica, si discute del futuro della repubblica, come è noto è fondata sul lavoro di Eugenio Scalfari.
Del resto come potremmo fare, cari colleghi, senza quel pensiero critico che in questi anni abbiamo imparato ad ammirare sulle vostre colonne? Come faremo senza le inchieste di Repubblica per denunciare lo smantellamento dell’industria automobilistica italiana ad opera degli editori Elkann? Come faremo senza le dure interviste al segretario Cgil Maurizio Landini che attacca, per questo, la ex Fiat in modo spietato? Come faremo senza gli scoop sulle inchieste relative all’evasione fiscale di casa Agnelli? Il fatto che tutto ciò non ci sia mai stato è un piccolo dettaglio che nulla toglie al vostro pensiero critico. E che dire del Covid? Lì il pensiero critico di Repubblica è emerso in modo chiarissimo trasformando Burioni in messia e il green pass in Vangelo. E sulla guerra? Pensiero critico lampante, nella sua versione verde militare e, ovviamente, con elmetto d’ordinanza. Ora ci domandiamo: come potrà tutto questo pensiero critico, così avverso al mainstream, sopravvivere all’orda greca?
Lo so che si tratta solo di un cambio di proprietà, non di una chiusura. Ma noi siamo preoccupati lo stesso: per mesi abbiamo letto sulle vostre colonne che c’era il rischio di deriva autoritaria nel nostro Paese, il fascismo meloniano incombente, la libertà di stampa minacciata dal governo antidemocratico. E adesso, invece, scopriamo che il governo antidemocratico è l’ancora di salvezza per salvare baracca e Barachini? E scopriamo che il vero nemico arriva dalla Grecia? Più che mai urge pensiero critico, cari colleghi. E, magari, un po’ meno di boria.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
Il cambio di rotta, secondo quanto rivelato dal Financial Times e da Reuters, è stato annunciato dallo stesso leader di Kiev in una chat su Whatsapp con i giornalisti. Ha spiegato che «fin dall’inizio, il desiderio dell'Ucraina è stato quello di aderire alla Nato», ma pare aver gettato la spugna visto che «alcuni partner non hanno sostenuto questa direzione». Ha quindi svelato che ora si parla «di garanzie di sicurezza bilaterali tra Ucraina e Stati Uniti, vale a dire garanzie simili all’articolo 5, nonché di garanzie di sicurezza da parte dei nostri partner europei e di altri Paesi come Canada, Giappone e altri».
Prima del vertice di Berlino, Zelensky ha poi dichiarato di non aver ricevuto le risposte della Casa Bianca sulle ultime proposte inviate dalla delegazione ucraina, ma ha già messo le mani avanti sull’offerta degli Stati Uniti inerente al Donbass. Washington ha infatti suggerito che Kiev si ritiri dalla «cintura delle fortezze» delle città nel Donbass che non sono state conquistate da Mosca. Sostenendo che non sia «giusto», il presidente ucraino ha commentato: «Se le truppe ucraine si ritirano tra i cinque e dieci chilometri per esempio, allora perché le truppe russe non si devono ritirare nelle zone dei territori occupati della stessa distanza?». Dunque, la linea ucraina resta quella del cessate il fuoco: «fermarsi» sulle posizioni attuali per poi «risolvere le questioni più ampie attraverso la diplomazia». Ma è plausibile che questa proposta americana venga rifiutata anche dalla Russia, visto che il consigliere del Cremlino, Yuri Ushakov, aveva già riferito che Mosca è disposta ad accettare solo il controllo totale del Donbass.
Ma l’attenzione ieri, oltre al dietrofront di Kiev sulla Nato, è stata rivolta ai colloqui di Berlino tra la delegazione ucraina e quella americana. Dopo aver «lavorato attentamente su ogni punto di ogni bozza», Zelensky è stato accolto nella capitale tedesca dal cancelliere Friedrich Merz. Il presidente ucraino ha condiviso alcune immagini inerenti alle trattative sul piano di pace: nel lungo tavolo ovale, al fianco di Zelensky compaiono Merz e il negoziatore ucraino Rustem Umerov, mentre sul lato opposto sono seduti Witkoff e Kushner. Ma secondo la Bild, a essere presente in modo «indiretto» ai negoziati è stata anche la Russia. Pare che l’inviato americano sia stato infatti in contatto con Ushakov. In ogni caso, il leader di Kiev, su X, ha spiegato poco prima lo scopo dei colloqui: concentrarsi «su come garantire in modo affidabile la sicurezza dell’Ucraina». Il dialogo proseguirà anche oggi: è previsto un vertice a cui prenderanno parte dieci leader europei, il segretario generale della Nato, Mark Rutte, e il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen.
A restare scettica sulle iniziative europee è la Russia. Ushakov, ricordando che Mosca non ha ancora visionato le modifiche di Bruxelles e di Kiev al piano, ha comunque detto che non saranno accettati i cambiamenti. D’altronde, è «improbabile che gli ucraini e gli europei diano un contributo costruttivo ai documenti». Sempre il consigliere del Cremlino ha anche rivelato che non è mai stata affrontata «la possibilità di replicare l’opzione coreana» per porre fine alla guerra. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha poi definito «irresponsabili» le parole pronunciate giovedì dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, secondo cui la Russia si prepara ad attaccare l’Europa.
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