2020-01-11
La strage degli iraniani sull’aereo apre l’ennesima crepa nel regime
Tutto l'Occidente accusa: «Volo Ukrainian abbattuto da un razzo di Teheran». A bordo c'erano 82 cittadini della Repubblica islamica: monta il dissenso interno e si allarga la falda fra i falchi di Soleimani e i moderati. La faccenda del Boeing 737, precipitato in Iran lo scorso 8 gennaio, rischia di rivelarsi uno spinoso grattacapo per la repubblica islamica. Secondo i governi di Canada, Usa e Gran Bretagna, il velivolo sarebbe stato colpito da un missile iraniano. Qualora venisse definitivamente dimostrata la tesi del razzo, non risulterebbero escludibili ripercussioni dal punto di vista della politica interna: ben 82 delle 176 vittime del disastro erano proprio cittadini dell'Iran. Nonostante una certa vulgata mediatica tenda infatti a rappresentare in questi giorni la repubblica islamica come monoliticamente compatta nella sua avversione contro Washington, la situazione potrebbe in realtà rivelarsi ben più articolata di così. Crepe profonde ai vertici dello Stato iraniano esistono del resto da tempo. E la recente crisi con gli Stati Uniti potrebbe adesso acuirle ulteriormente. In primo luogo, non è mai stato un mistero che l'agone politico di Teheran sia diviso in due blocchi, contrapposti soprattutto sulle questioni di politica estera. Da una parte troviamo i falchi antiamericani, che fanno tradizionalmente riferimento alle Guardie della rivoluzione e che sono visti con una certa benevolenza dalla stessa guida suprema, Ali Khamenei. Dall'altra, si scorge invece un fronte maggiormente moderato e disposto al dialogo con l'Occidente. Se i falchi soffiano da mesi sul fuoco delle tensioni con Washington, i centristi tendono a una strategia più cauta, anche perché ritengono che la linea bellicosa dei pasdaran non possa consentire un allentamento delle sanzioni statunitensi. Va da sé che questa divisione abbia poi sempre avuto ampie ricadute nelle dinamiche politiche interne. Nonostante la retorica iraniana tenda oggi a presentarlo come un eroe nazionale, Qasem Soleimani - che in quanto capo della Forza Quds risultava tra i principali riferimenti dei pasdaran - aveva non pochi avversari. Innanzitutto il generale intratteneva rapporti molto tesi con il ministro degli Esteri iraniano, Javed Zarif. Da sempre fautore di una distensione con l'Occidente, quest'ultimo non digeriva la politica mediorientale interventista e antiamericana di Soleimani. Senza poi dimenticare una crescente rivalità personale. Si pensi solo che, lo scorso febbraio, Zarif aveva rassegnato le proprie dimissioni (poi respinte), per essere stato escluso da un incontro con il presidente siriano, Bashar al Assad, che - in quei giorni - si era recato in visita a Teheran. Quello stesso Assad che Soleimani ha militarmente spalleggiato nel corso della guerra civile in Siria. Ma non è tutto. Perché il potente generale pare intrattenesse un rapporto turbolento anche con il presidente Hassan Rohani: altro esponente della fazione meno bellicosa. Secondo quanto riportò Al Arabiya, i due avrebbero avuto un duro scontro nel giugno del 2018, visto che Rohani aveva intenzione di tagliare il budget riservato alle Guardie della rivoluzione: una linea che Soleimani non era minimamente disposto ad accettare. È abbastanza chiaro che, con quella mossa, il presidente volesse limitare l'influenza geopolitica dei pasdaran in scenari come il Libano e l'Iraq, tentando inoltre di infliggere loro un colpo in termini di dinamiche interne. Proprio quest'ultimo elemento ci introduce, del resto, a un'altra questione interessante: l'impopolarità che, in Iran, si registra verso le Guardie della rivoluzione. Un'impopolarità che sorge da svariati fattori. Non solo - come detto - la politica estera aggressiva dei pasdaran viene vista come la principale causa delle sanzioni americane che stanno strangolando l'economia iraniana. Ma non bisogna dimenticare il progressivo potere che le Guardie della rivoluzione hanno acquisito nel corso dei decenni - in termini economici e politici - trasformandosi in una sorta di stato nello stato. Un'entità di cui Soleimani costituiva forse la figura di maggior spicco, secondo i crismi di un nazionalismo particolarmente affine all'ideologia degli ayatollah. Lo scrive nel suo blog anche l'attivista curda Hawzhin Azeez: «Quello iraniano è un pessimo regime. L'unico gruppo di iraniani veramente a lutto per l'esecuzione di Soleimani sono conservatori alleati con i mullah che formano il regime». Ulteriori fibrillazioni interne si registrano proprio in riferimento alla spinosa questione della successione di Khamenei: un problema sempre più urgente, soprattutto dopo la morte - nel dicembre 2018 - di Mahmoud Hashemi Shahroudi, considerato da molti il candidato più forte per acquisire quella carica. Qualcuno - come il The National Interest - parla già di una lotta di potere, mentre è molto probabile che la nuova guida suprema risulterà una figura ideologicamente affine alle Guardie della rivoluzione. Le turbolenze non accennano quindi a diminuire. E probabilmente saranno destinate ad acuirsi, visti i prossimi appuntamenti elettorali (a febbraio si voterà per il parlamento, mentre nel 2021 per il nuovo presidente). Donald Trump punta ad allargare queste crepe, con l'obiettivo di fiaccare l'Iran e portarlo così al tavolo delle trattative.