2022-01-21
La spending review di Fuortes in Rai: zero tagli e un aumento del canone
Dopo 7 mesi sotto l’esperto di Draghi, la «nuova» tv statale è il solito carrozzone con 27 vicedirettori e altri 200 giornalisti assunti extra «concorsone». E il buco da 625 milioni? L’ideona dell’ad è coprirlo alzando le tasse.Ci vuole in bolletta. L’amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, ha girato attorno al problema per sette mesi, ha lanciato la boutade di far pagare le immagini sugli smartphone, poi ha scoperto che per ripianare i 625 milioni di debiti un modo ci sarebbe: aumentare il canone. Lo ha detto davanti ai volti esterrefatti della commissione Lavori pubblici del Senato: «Il valore unitario del canone Rai in Italia è strutturalmente il più basso in tutta Europa: 90 euro. Una somma distante da quelle degli altri Paesi al punto da rendere quasi irrilevante la compresenza compensativa, per la Rai, della fonte integrativa degli introiti costituita dalla raccolta pubblicitaria». Il manager bussa a denari, come se il miliardo e 700 milioni di introiti da canone non fosse sufficiente. Forse non lo è, ma la tempistica della questua è surreale. Proprio nelle settimane in cui il governo è impegnato ad ammortizzare i rincari determinati dai forti aumenti del costo dell’energia, ecco che la bolletta già appesantita dovrebbe caricarsi di un nuovo balzello, quello del canone Rai. Fuortes aveva già sollevato il problema in commissione di Vigilanza: «Rispetto agli altri broadcaster pubblici, l’azienda è complessivamente sottofinanziata in riferimento ai costi associati agli obblighi ad essa imposti e che rispondono all’esigenza di essere, tra l’altro, pluralista». In Francia si pagano 138 euro all’anno, In Gran Bretagna 185, in Germania 220 e in Svizzera 312, quindi il ragionamento non fa una piega. Ma più che contare le cifre, serve verificare quanto le cifre contano. E scoprire che, se un’azienda con 13.000 dipendenti (Mediaset ne ha 5.000), 118 orchestrali, 1.700 giornalisti (110 solo a Raisport), 9 centri di produzione tv e 5 adio, quasi 1 miliardo solo di costi del personale, 22 edizioni di Tg di questi tempi ha un problema, è quello del gigantismo. «Nell’era digitale sembra la Bismarck davanti agli aerosiluranti, un bersaglio immobile», sussurra un vecchio leone di viale Mazzini appassionato di RaiStoria.Bisognerebbe partire da una spending review seria, dalla lotta agli sprechi: la faccenda della quadreria scomparsa dalle sedi si è chiusa in modo grottesco, prescritti i reati e licenziato il manager che li ha denunciati. Bisognerebbe avere coraggio nel potare le costose collaborazioni esterne che soffocano le potenzialità interne. «Ma non si farà mai perché quelle fanno comodo ai partiti per piazzare gli amici degli amici», è la risposta che viene dalle redazioni. Paolo Mieli insegna storia tutti i giorni alle 11 su Rai 3, come se nell’azienda culturale più importante d’Italia non ci fosse un professionista in grado di farlo e di crescere diventando un volto di riferimento. Su Rainews la rubrica di cultura e cinema americano è appaltata allo scrittore newyorchese di Velletri, Antonio Monda. Bisognerebbe domandarsi perché non va mai in porto la razionalizzazione dei servizi, con l’effetto straniante di vedere i microfoni di tutte le testate nello stesso momento davanti allo stesso politico. Sui fatti di cronaca è annosa la barzelletta dei Tg (più Vita in diretta, Storie italiane e vai con l’elenco) che mandano le loro troupe a Trieste o in Sicilia, pagando fior di trasferte in voli aerei, treni e alberghi, su immagini e notizie già coperte dalle redazioni regionali. Bisognerebbe scoprire con quale criterio, dopo aver assunto 90 giornalisti con il «concorsone», nell’ultimo anno ne sono stati contrattualizzati 200 con il passaggio dallo status di autori. E sarebbe meraviglioso verificare se 27 vicedirettori sono davvero necessari. Parole del puntiglioso Michele Anzaldi: «È inspiegabile che la lotta agli sprechi finisca con il taglio dell’edizione notturna del Tgr. Nelle altre testate nessun efficientamento? Davvero servono 7 vice al Tg1, 5 al Tg2 e altrettanti al Tg3? Numeri che non hanno eguali». Il potente sindacato Usigrai, che conosce perfettamente questa realtà da carrozzone pubblico, non fa nulla per arginarla e cambiare passo. Si limita a invocare «il pluralismo informativo», a chiedere piani editoriali nei giorni dispari e a litigare con l’ad Fuortes perché comincia a sforbiciare. Questo gli ha chiesto Mario Draghi, e con un debito di 625 milioni non ci sono alternative. Tre anni fa l’economista Roberto Perotti mise il dito nella piaga: «Il costo medio del lavoro in Rai è del 20% più alto che alla Bbc, dove si producono programmi e documentari di altissima qualità, acquistati in tutto il mondo. Il personale Rai è quasi identico a quello del 2002 mentre quello della Bbc è sceso del 35%. La Rai ha la metà del bilancio ma una volta e mezzo il numero di dirigenti. Ancora, in Rai un giornalista su cinque è dirigente, percentuale inadeguata».In questo scenario immobile Fuortes chiede soldi per coprire i buchi in attesa di altri buchi. Prima che agli italiani li chiede al governo, che di quei 90 euro di canone gli fa vedere solo una parte. «Se arrivassero tutti, servirebbero per gestire l’azienda in modo diverso». Non ha torto perché nelle casse Rai entrano 74 euro per ogni cittadino (84% del totale) e il resto del gettito viene risucchiato dall’idrovora pubblica: tassa di concessione, Iva e fondo per l’innovazione. Ma se anche li ottenesse tutti, i problemi rimarrebbero. Perfino quelli del sacro pluralismo democratico: per Tg1 e Tg3, Beppe Grillo indagato non era una notizia da titolo.