
È la dissoluzione della famiglia, in modo particolare l'assenza del genitore maschio, a produrre la moltiplicazione dei serial killer. La scoperta di un ricercatore che ha studiato gli Usa degli anni Ottanta, dice molto anche sulla violenza della nostra società di oggi.Nel 1986, lo scrittore americano James Ellroy diede alle stampe uno dei suoi romanzi più terrificanti, anche se meno conosciuti. S'intitola L'angelo del silenzio, ed è incentrato sulla figura del serial killer Martin Michael Plunkett, detto il Boia del sesso. È il diabolico assassino, per buona parte del libro, a fare da narratore. Confessando i suoi orribili crimini, egli spiega che non si appellerà alla «clemenza psicologica, giustapponendo le mie azioni alla cosiddetta assurdità dell'America del Ventesimo secolo». Ribadisce che non cercherà scusanti chiamando in causa «influenze ambientali». Non è stata la società, afferma, a renderlo un mostro. E c'è del vero in quello che ribadisce: non ci sono giustificazioni per la bestialità mortifera. Esistono, tuttavia, delle spiegazioni possibili. Una di queste l'ha elaborata lo storico canadese Peter Vronsky, e l'ha illustrata alla Bbc alla fine di agosto. Vronsky si è posto una domanda semplice, la cui risposta però non è scontata. Perché, si è chiesto, negli anni Ottanta, negli Stati Uniti, ci furono così tanti serial killer? Secondo recenti studi, infatti, in quell'epoca si aggiravano per l'America circa 200 assassini seriali. Da quale inferno sono stati vomitati? Vronsky ha formulato una spiegazione. A suo parere, l'esplosione di serial killer alla fine del Ventesimo secolo è una conseguenza della Seconda guerra mondiale. I massacratori di innocenti sono, in effetti, i figli di quel conflitto. E non in senso del tutto metaforico. Nel saggio Sons of Cain, Vronsky esamina l'infanzia di numerosi assassini. «Non sono alieni arrivati da un altro pianeta», dice, «ma bambini che sono cresciuti e diventati omicidi seriali». Non sono molti, continua lo storico, i serial killer che abbiano parlato a lungo dei loro padri. Ma quelli che li hanno descritti li hanno presentati in molti casi come uomini traumatizzati dalla guerra, individui dalla personalità profondamente segnata dall'esperienza bellica. Eccoci al punto. I serial killer, sostiene Vronsky, sono figli di padri assenti, o violenti, o spostati. Padri ritornati dalla guerra con difficoltà psicologiche gravi, incapaci di rientrare nella vita famigliare e di prendersi adeguatamente cura dei loro bambini. C'è, insomma, la dissoluzione della famiglia e, prima di tutto, della figura paterna dietro l'esplosione di violenza di certe personalità deviate. La qual cosa, ovviamente, non è affatto una giustificazione. Però è un dato di cui tenere conto. Tanto più che la teoria sembra confermata dalle statistiche. Un aumento degli omicidi seriali - seppur meno pronunciato - si verificò negli Stati Uniti anche fra il 1935 e il 1950. Ovvero quando i figli dei reduci dal primo conflitto mondiale divennero adulti. Preveniamo l'obiezione: non tutti i figli di padri assenti o problematici divengono persone violente né tanto meno degli assassini. Verissimo. Stiamo parlando, infatti, di casi estremi. Nel caso dei serial killer, i problemi causati dall'evaporazione del padre deflagrano e superano ogni limite. Per il resto dell'umanità, le conseguenze sono decisamente meno gravi, ma comunque analoghe. Si potrebbe dire che l'intensità del dramma è minore. Il declino del maschio occidentale comincia a diventare evidente proprio alla fine della Seconda guerra mondiale. Lo ha spiegato molto bene la studiosa (femminista) Susan Faludi in un libro intitolato Bastonati!, in cui scrive che «ci volle del tempo per trasformare il modello bellico adattandolo a un contesto di pace, ma alla fine l'impresa riuscì; il denaro federale che era stato investito nella potenza aerea per vincere la guerra venne versato nella potenza spaziale per vincere la pace; il governo, che aveva finanziato le costruzioni e le strade per sostenere la forza militare maschile, ora finanziava la costruzione delle aree suburbane e delle autostrade per sostenere la forza lavoro burocratica maschile».I maschi tornati dalla guerra, pronti a morire per la Grande Madre patria, diventavano corporate men, uomini della corporation. E la Grande Corporation è a tutti gli effetti una incarnazione della Grande Madre che tutto controlla, che si «prende cura» dei figli regolando ogni aspetto della loro esistenza. Così assorbiti da queste aziende preda del lato oscuro dell'archetipo della madre, i maschi si sono estraniati dalla famiglia. Padri assenti, che uscivano presto la mattina e tornavano tardi la sera. Persone interessate esclusivamente alla carriera, al successo e, soprattutto, ai soldi. Uomini guidati dagli spiriti animali del capitalismo selvaggio. Direte: ma che c'entra tutto questo con i serial killer? Sembrerà assurdo, ma c'entra eccome. Nel serial killer si presentano - ovviamente in modo estremo - alcune caratteristiche tipiche del corporate man. Il narcisismo, per esempio. L'assenza di empatia. La disposizione a violare le regole, la predisposizione a farsi guidare dal desiderio sfrenato, illimitato, che richiede di essere immediatamente soddisfatto. In qualche modo, il serial killer è un perverso superuomo dell'era turboliberista. Forse è anche per questo che la nostra società ne è così affascinata (basta guardare quanti libri, film e serie tv esistano sul tema). Qualche anno fa, l'autorevole Isabella Merzagora -criminologa dell'Università di Milano, ha pubblicato uno studio riguardante manager di banche e grandi aziende italiane. A 52 di loro è stato sottoposto un questionario che forniva un punteggio corrispondente all'«indice globale di psicopatia». Alla fine, molti di questi manager - tutti uomini di successo - hanno ottenuto punteggi che superavano la soglia di psicopatia. E, di solito, si trattava delle persone di maggior successo. In pratica, nel sistema attuale, certe tendenze psicopatiche vengono premiate, garantiscono maggiore successo. Mancanza di rimorso, freddezza emotiva, amore per il rischio, egocentrismo, negazione della vittima, mancanza di empatia, aggressività: sono tutte caratteristiche presenti nello «psicopatico di successo». Fateci caso: sono anche caratteristiche tipiche del serial killer.Lo aveva già capito un altro grande scrittore americano, Bret Easton Ellis, quando pubblicò nel 1991 American Psycho, che ha per protagonista un super manager serial killer chiamato Patrick Bateman. Figlio di un padre assente ma ingombrante, la sua psicopatia gli permette di stare ai vertici della sua corporation, la sua totale mancanza di empatia si rivela una risorsa e lo spinge anche nel baratro del delirio. A ben vedere, le caratteristiche che abbiamo elencato sopra - a partire dal narcisismo - sono tutti tratti distintivi della società occidentale degli ultimi anni. A spiegarlo per primo è stato il geniale Christopher Lasch, in un capolavoro chiamato L'io minimo (appena ripubblicato da Neri Pozza), in cui affronta tra l'altro la «psicologia “maschile" della conquista e dell'impresa competitiva». La parola «maschile» è tra virgolette perché si tratta di una mascolinità deviata, intrisa di narcisismo. La «società del narcisismo» è frutto dell'assenza del padre, prospera nell'assenza di limiti e regole. Il serial killer ne è il prodotto meglio riuscito: una macchina assassina che segue soltanto i propri impulsi e prova piacere soltanto massacrando e calpestando gli altri. Ecco perché studiando questi incubi incarnati possiamo anche capire qualcosa di più del mondo che ci circonda. L'assenza del padre genera mostri. Che siano piccoli o grandi dipende dalle circostanze.
Andy Mann for Stefano Ricci
Così la famiglia Ricci difende le proprie creazioni della linea Sr Explorer, presentata al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, concepita in Patagonia. «Più preserveremo le nostre radici, meglio costruiremo un futuro luminoso».
Il viaggio come identità, la natura come maestra, Firenze come luogo d’origine e di ritorno. È attorno a queste coordinate che si sviluppa il nuovo capitolo di Sr Explorer, il progetto firmato da Stefano Ricci. Questa volta, l’ottava, è stato presentato al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, nata tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, terre estreme che hanno guidato una riflessione sull’uomo, sulla natura e sul suo fragile equilibrio. «Guardo al futuro e vedo nuovi orizzonti da esplorare, nuovi territori e un grande desiderio di vivere circondato dalla bellezza», afferma Ricci, introducendo il progetto. «Oggi non vi parlo nel mio ruolo di designer, ma con lo spirito di un esploratore. Come un grande viaggiatore che ha raggiunto luoghi remoti del Pianeta, semplicemente perché i miei obiettivi iniziavano dove altri vedevano dei limiti».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.





