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2022-09-01
La Russia chiude i rubinetti per tutti. Orbán fa da sé e aumenta le scorte
Viktor Orbán (Getty images)
A Mosca non giocano a briscola. Ma quello calato ieri dai russi è il classico carico da undici all’italiana. Arriva un’altra stretta. Come peraltro già annunciato, Gazprom blocca il gasdotto Nord Stream 1. La condotta, che corre sotto il mar Baltico fino alle coste tedesche, ha una capacità di 55 miliardi di metri cubi all’anno. Motivo ufficiale del fermo: manutenzione dell’impianto. Ma il gruppo russo, che ha chiuso il primo semestre con un utile record da 2,5 trilioni di rubli, pari a 41,2 miliardi di euro, da oggi sospende anche le forniture all’operatore francese Engie, vista la supposta inosservanza di alcune clausole contrattuali. Fino a «ricezione completa dei pagamenti per il gas fornito», dettaglia un comunicato. Il ministro dell’Energia transalpino, Agnes Pannier-Runacher, accusa però la Russia di «usare il gas come arma di guerra». Il Cremlino replica: sarebbero invece le sanzioni occidentali a causare quei «problemi tecnologici» che impediscono l’uso del gasdotto.
Comunque sia: Nord Stream 1 era stato già chiuso per dieci giorni a luglio. Sempre per riparazioni, sostiene Gazprom. Di certo, negli ultimi tempi, ha funzionato solo al 20 per cento della capacità. «Apparecchiature difettose» giurano i russi. Ma il timore generalizzato è che Mosca voglia far aumentare ancora i prezzi, già insostenibilmente aumentati nell’ultimo anno. Il blocco stavolta dovrebbe durare tre giorni. Ma ha comunque ripercussioni in tutta Europa. L’Eni conferma: sono arrivati 20 milioni di metri cubi di gas, invece che i 27 milioni dei giorni scorsi. Intanto, Gazprom prosegue con la fortunata diversificazione degli affari: «Le esportazioni verso la Cina, nei primo otto mesi del 2022, aumentano del 60 per cento» informa Alexey Miller, amministratore delegato della compagnia. Ed entro la fine dell’anno, aggiunge, comincerà il «flusso di gas dal giacimento di Kovykta al gasdotto Power of Siberia».
Insomma, tutti gli impegni presi con Pechino fino al 2023 saranno rispettati. Il manager stima che i prezzi potranno superare i «4.000 dollari per mille metri cubi nei periodi di picco invernale». L’attuale crisi del gas, sentenzia Miller su Telegram, sarebbe però il «risultato delle decisioni normative europee e della politica delle sanzioni».
L’Unione arranca. Gli Usa promettono, finalmente, di potenziare le forniture. Già, ma quando? Nel frattempo, l’Ungheria firma un salvifico contratto con Gazprom. Zoltan Kovacs, portavoce del premier Viktor Orbán, annuncia «la fornitura di massimo 5,8 milioni di metri cubi circa di gas naturale in più su base giornaliera, in aggiunta alla quantità contrattuale già in essere». L’approvvigionamento energetico ungherese, con quest’aggiunta, sarebbe dunque «al sicuro». Anche se circa la metà delle terme magiare, tra le più celebri in Europa, assicurano i media di Budapest, rischia di chiudere entro il prossimo inverno. I costi di esercizio sarebbero già saliti del 30 per cento del 2022.
Il prezzo del gas sul mercato di Amsterdam, intanto, scende a 240 euro al megawattora. Solo ad agosto, sul mese precedente, è aumentato però del 25 per cento. La lieve decrescita, oltre che alla speranza di un patto europeo sull’energia, potrebbe essere collegata anche ai dati di riempimento dei siti di stoccaggio. La Germania supera l’83 per cento. In Italia il dato è lievemente inferiore: 82 per cento. Mentre la media, nell’Ue, scende all’80 per cento. La speranza è che, a questo punto, la domanda continui a decrescere. E i costi a diminuire. Rispetto a un anno fa, il prezzo s’è comunque quasi decuplicato. L’ennesimo catastrofico allarme è di Confcommercio. Secondo le stime dell’associazione, sono a rischio 120.000 aziende e 370.000 posti di lavoro in Italia. Commercio al dettaglio, alimentare, ristorazione, turismo, trasporti. È il solito bollettino di guerra energetica. Rincari delle bollette fino a tre volte nel 2022. E fino a cinque volte rispetto al 2019, prima della pandemia. Parlando a Palermo, proprio con alcuni commercianti, il leader della Lega, Matteo Salvini, evoca unità: «Faccio un appello a Letta, Conte e Di Maio per unirsi a me e dire a Parlamento e governo che questi soldi servono adesso. Servono trenta miliardi subito, seguiamo la Francia». Ma nel Consiglio dei ministri previsto per domani non si dovrebbe parlare di energia.
La settimana prossima, invece, dovrebbe esserci un vertice dei ministri europei. Sarà discussa l’eterna ipotesi di un tetto al prezzo del gas. E la possibilità di sganciare i prezzi dell’energia elettrica da quelli del metano. Eppure, nonostante la contingente catastrofe, le eventuali misure «di emergenza» potrebbero venire approvate solo nelle prossime settimane. Bene che vada. Perché ci sono Paesi, come l’Olanda, che intanto con la crisi del gas continuano ad arricchirsi. Tanto che, spiegano fonti della Commissione europea, le strombazzate riforme strutturali del settore sono previste per «l’inizio del prossimo anno».
Mentre l’Europa si muove come un pachidermico torpedone, l’Ungheria però accelera bruscamente. Il nuovo accordo, con Gazprom, prevede quasi sei milioni di metri cubi al giorno in più. Una quantità che, secondo le prime stime, potrebbe valere circa 16 milioni di euro. Budapest, insomma fa da sé: ha una dipendenza del gas che arriva al venti per cento, quasi tutto proviene da Mosca. Non ha tempo né interesse di accodarsi agli altri. Orbán è il primo a rompere l’ipotetico fronte comune. Ma potrebbe non essere l’ultimo.
Così la Spagna tiene bassi i prezzi
In questi giorni non si parla d’altro: il tetto ai prezzi dell’energia. Spesso si cita la Spagna come esempio di stato membro dell’Ue che ha introdotto con successo un meccanismo di price cap sul gas. In realtà, il governo spagnolo, assieme a quello portoghese, dopo un negoziato con Bruxelles, ha introdotto nel giugno scorso un sistema di prezzi massimi che riguarda sì il gas, ma solo quello utilizzato dai produttori di energia elettrica. Sinora Spagna e Portogallo sono gli unici Paesi europei che hanno introdotto questa misura. In cosa consiste questo sistema? Il mercato elettrico spagnolo spot, come tutti quelli europei, si basa sul meccanismo di prezzo marginale. Ogni giorno, viene eseguita un’asta tra i produttori per coprire la domanda di energia. I produttori offrono una quantità di energia ad un certo prezzo (orario, per tutte le 24 ore del giorno dopo), che si basa sui costi di produzione di ciascun impianto. Il gestore del mercato impila le 24 coppie di valori quantità/prezzo, dal meno caro al più costoso e incrocia le curve di domanda e offerta (quantità/prezzo). Il punto di incrocio delle due curve rappresenta il prezzo marginale, cioè quello a cui tutti i produttori venderanno l’energia in quell’ora. Dunque, il prezzo marginale è il prezzo più alto dell’intero sistema, quello cui l’impianto che soddisfa l’ultimo tratto della curva di domanda è disposto a vendere la propria energia. Tutti gli impianti che hanno offerto a prezzi inferiori incasseranno il prezzo marginale. Chi ha offerto le sue quantità sopra il prezzo marginale resterà fuori dal mercato e non produrrà. Di solito, gli impianti più costosi, quindi quelli che fissano il prezzo marginale, sono quelli alimentati a gas. Il tetto al prezzo interviene qui e fissa legalmente il costo del gas per i produttori a gas ad un valore pari a 40 euro al MWh. Il gestore del mercato avrà dunque una seconda curva di offerta con il prezzo calmierato, che darà un altro prezzo marginale, certamente più basso visti i prezzi correnti del gas. La differenza tra i prezzi viene moltiplicata per le quantità e l’importo risultante viene addebitato come tassa ai consumatori. In questo modo, l’incidenza del maggiore costo del gas viene stemperata. Concretamente, da metà giugno a metà agosto questo sistema ha ottenuto in Spagna il risultato di abbassare il prezzo dell’energia elettrica spot (cioè quella consegnata il giorno dopo) di 155 euro al MWh in media, passando da 299 a 144 euro al MWh. I consumatori però hanno pagato una tassa di 109 euro al MWh, quindi la riduzione complessiva del prezzo è stata di 46 euro al MWh, vale a dire il 15% circa. Poco o tanto che sia, è una riduzione. Ma anche questo sistema non è esente da pecche, la prima delle quali è che nelle reti interconnesse provoca incentivi a sovra-produrre per esportare nei mercati vicini. È quello che già accade sulla frontiera tra Spagna e Francia, dove ormai la Spagna esporta strutturalmente energia elettrica in Francia. Sono intervenuti i gestori delle reti spagnola e francese per limitare del 30% la capacità di interconnessione, proprio per evitare eccessi nel mercato.
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Nel giorno in cui Mosca ferma il flusso di gas diretto verso l’Ue, l’Ungheria sigla un accordo con Gazprom per farsi mandare 5,8 milioni di metri cubi al giorno in più. Gli Usa: potenzieremo le forniture all’Europa.Il governo di Madrid e quello portoghese, dopo un negoziato con Bruxelles, hanno introdotto nel giugno scorso un tetto al costo del combustibile usato dai produttori.Lo speciale contiene due articoliA Mosca non giocano a briscola. Ma quello calato ieri dai russi è il classico carico da undici all’italiana. Arriva un’altra stretta. Come peraltro già annunciato, Gazprom blocca il gasdotto Nord Stream 1. La condotta, che corre sotto il mar Baltico fino alle coste tedesche, ha una capacità di 55 miliardi di metri cubi all’anno. Motivo ufficiale del fermo: manutenzione dell’impianto. Ma il gruppo russo, che ha chiuso il primo semestre con un utile record da 2,5 trilioni di rubli, pari a 41,2 miliardi di euro, da oggi sospende anche le forniture all’operatore francese Engie, vista la supposta inosservanza di alcune clausole contrattuali. Fino a «ricezione completa dei pagamenti per il gas fornito», dettaglia un comunicato. Il ministro dell’Energia transalpino, Agnes Pannier-Runacher, accusa però la Russia di «usare il gas come arma di guerra». Il Cremlino replica: sarebbero invece le sanzioni occidentali a causare quei «problemi tecnologici» che impediscono l’uso del gasdotto.Comunque sia: Nord Stream 1 era stato già chiuso per dieci giorni a luglio. Sempre per riparazioni, sostiene Gazprom. Di certo, negli ultimi tempi, ha funzionato solo al 20 per cento della capacità. «Apparecchiature difettose» giurano i russi. Ma il timore generalizzato è che Mosca voglia far aumentare ancora i prezzi, già insostenibilmente aumentati nell’ultimo anno. Il blocco stavolta dovrebbe durare tre giorni. Ma ha comunque ripercussioni in tutta Europa. L’Eni conferma: sono arrivati 20 milioni di metri cubi di gas, invece che i 27 milioni dei giorni scorsi. Intanto, Gazprom prosegue con la fortunata diversificazione degli affari: «Le esportazioni verso la Cina, nei primo otto mesi del 2022, aumentano del 60 per cento» informa Alexey Miller, amministratore delegato della compagnia. Ed entro la fine dell’anno, aggiunge, comincerà il «flusso di gas dal giacimento di Kovykta al gasdotto Power of Siberia». Insomma, tutti gli impegni presi con Pechino fino al 2023 saranno rispettati. Il manager stima che i prezzi potranno superare i «4.000 dollari per mille metri cubi nei periodi di picco invernale». L’attuale crisi del gas, sentenzia Miller su Telegram, sarebbe però il «risultato delle decisioni normative europee e della politica delle sanzioni».L’Unione arranca. Gli Usa promettono, finalmente, di potenziare le forniture. Già, ma quando? Nel frattempo, l’Ungheria firma un salvifico contratto con Gazprom. Zoltan Kovacs, portavoce del premier Viktor Orbán, annuncia «la fornitura di massimo 5,8 milioni di metri cubi circa di gas naturale in più su base giornaliera, in aggiunta alla quantità contrattuale già in essere». L’approvvigionamento energetico ungherese, con quest’aggiunta, sarebbe dunque «al sicuro». Anche se circa la metà delle terme magiare, tra le più celebri in Europa, assicurano i media di Budapest, rischia di chiudere entro il prossimo inverno. I costi di esercizio sarebbero già saliti del 30 per cento del 2022.Il prezzo del gas sul mercato di Amsterdam, intanto, scende a 240 euro al megawattora. Solo ad agosto, sul mese precedente, è aumentato però del 25 per cento. La lieve decrescita, oltre che alla speranza di un patto europeo sull’energia, potrebbe essere collegata anche ai dati di riempimento dei siti di stoccaggio. La Germania supera l’83 per cento. In Italia il dato è lievemente inferiore: 82 per cento. Mentre la media, nell’Ue, scende all’80 per cento. La speranza è che, a questo punto, la domanda continui a decrescere. E i costi a diminuire. Rispetto a un anno fa, il prezzo s’è comunque quasi decuplicato. L’ennesimo catastrofico allarme è di Confcommercio. Secondo le stime dell’associazione, sono a rischio 120.000 aziende e 370.000 posti di lavoro in Italia. Commercio al dettaglio, alimentare, ristorazione, turismo, trasporti. È il solito bollettino di guerra energetica. Rincari delle bollette fino a tre volte nel 2022. E fino a cinque volte rispetto al 2019, prima della pandemia. Parlando a Palermo, proprio con alcuni commercianti, il leader della Lega, Matteo Salvini, evoca unità: «Faccio un appello a Letta, Conte e Di Maio per unirsi a me e dire a Parlamento e governo che questi soldi servono adesso. Servono trenta miliardi subito, seguiamo la Francia». Ma nel Consiglio dei ministri previsto per domani non si dovrebbe parlare di energia.La settimana prossima, invece, dovrebbe esserci un vertice dei ministri europei. Sarà discussa l’eterna ipotesi di un tetto al prezzo del gas. E la possibilità di sganciare i prezzi dell’energia elettrica da quelli del metano. Eppure, nonostante la contingente catastrofe, le eventuali misure «di emergenza» potrebbero venire approvate solo nelle prossime settimane. Bene che vada. Perché ci sono Paesi, come l’Olanda, che intanto con la crisi del gas continuano ad arricchirsi. Tanto che, spiegano fonti della Commissione europea, le strombazzate riforme strutturali del settore sono previste per «l’inizio del prossimo anno». Mentre l’Europa si muove come un pachidermico torpedone, l’Ungheria però accelera bruscamente. Il nuovo accordo, con Gazprom, prevede quasi sei milioni di metri cubi al giorno in più. Una quantità che, secondo le prime stime, potrebbe valere circa 16 milioni di euro. Budapest, insomma fa da sé: ha una dipendenza del gas che arriva al venti per cento, quasi tutto proviene da Mosca. Non ha tempo né interesse di accodarsi agli altri. Orbán è il primo a rompere l’ipotetico fronte comune. Ma potrebbe non essere l’ultimo. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-russia-chiude-i-rubinetti-per-tutti-orban-fa-da-se-e-aumenta-le-scorte-2657988081.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="cosi-la-spagna-tiene-bassi-i-prezzi" data-post-id="2657988081" data-published-at="1662019004" data-use-pagination="False"> Così la Spagna tiene bassi i prezzi In questi giorni non si parla d’altro: il tetto ai prezzi dell’energia. Spesso si cita la Spagna come esempio di stato membro dell’Ue che ha introdotto con successo un meccanismo di price cap sul gas. In realtà, il governo spagnolo, assieme a quello portoghese, dopo un negoziato con Bruxelles, ha introdotto nel giugno scorso un sistema di prezzi massimi che riguarda sì il gas, ma solo quello utilizzato dai produttori di energia elettrica. Sinora Spagna e Portogallo sono gli unici Paesi europei che hanno introdotto questa misura. In cosa consiste questo sistema? Il mercato elettrico spagnolo spot, come tutti quelli europei, si basa sul meccanismo di prezzo marginale. Ogni giorno, viene eseguita un’asta tra i produttori per coprire la domanda di energia. I produttori offrono una quantità di energia ad un certo prezzo (orario, per tutte le 24 ore del giorno dopo), che si basa sui costi di produzione di ciascun impianto. Il gestore del mercato impila le 24 coppie di valori quantità/prezzo, dal meno caro al più costoso e incrocia le curve di domanda e offerta (quantità/prezzo). Il punto di incrocio delle due curve rappresenta il prezzo marginale, cioè quello a cui tutti i produttori venderanno l’energia in quell’ora. Dunque, il prezzo marginale è il prezzo più alto dell’intero sistema, quello cui l’impianto che soddisfa l’ultimo tratto della curva di domanda è disposto a vendere la propria energia. Tutti gli impianti che hanno offerto a prezzi inferiori incasseranno il prezzo marginale. Chi ha offerto le sue quantità sopra il prezzo marginale resterà fuori dal mercato e non produrrà. Di solito, gli impianti più costosi, quindi quelli che fissano il prezzo marginale, sono quelli alimentati a gas. Il tetto al prezzo interviene qui e fissa legalmente il costo del gas per i produttori a gas ad un valore pari a 40 euro al MWh. Il gestore del mercato avrà dunque una seconda curva di offerta con il prezzo calmierato, che darà un altro prezzo marginale, certamente più basso visti i prezzi correnti del gas. La differenza tra i prezzi viene moltiplicata per le quantità e l’importo risultante viene addebitato come tassa ai consumatori. In questo modo, l’incidenza del maggiore costo del gas viene stemperata. Concretamente, da metà giugno a metà agosto questo sistema ha ottenuto in Spagna il risultato di abbassare il prezzo dell’energia elettrica spot (cioè quella consegnata il giorno dopo) di 155 euro al MWh in media, passando da 299 a 144 euro al MWh. I consumatori però hanno pagato una tassa di 109 euro al MWh, quindi la riduzione complessiva del prezzo è stata di 46 euro al MWh, vale a dire il 15% circa. Poco o tanto che sia, è una riduzione. Ma anche questo sistema non è esente da pecche, la prima delle quali è che nelle reti interconnesse provoca incentivi a sovra-produrre per esportare nei mercati vicini. È quello che già accade sulla frontiera tra Spagna e Francia, dove ormai la Spagna esporta strutturalmente energia elettrica in Francia. Sono intervenuti i gestori delle reti spagnola e francese per limitare del 30% la capacità di interconnessione, proprio per evitare eccessi nel mercato.
D’altronde, quando la Casa Bianca aveva minacciato la prima volta un intervento militare, era stato addirittura il consigliere della Segreteria di Stato vaticana, padre Giulio Albanese, a descrivere alla Stampa l’«equilibrio quasi perfetto tra cristiani e musulmani» in Nigeria, turbato dal tycoon allo scopo di «consolidare consenso in casa». E allora, come funziona davvero tale fulgido esempio di coesistenza tra confessioni diverse?
Un dato dice tutto: i cristiani rischiano 6 volte e mezzo di più dei musulmani di finire uccisi e cinque volte di più di essere rapiti. Lo si evince dai report dell’Osservatorio per la libertà religiosa in Africa (Orfa). Quelli della Fondazione Porte aperte sono altrettanto sconvolgenti: nel 2025, l’82% degli omicidi e dei rapimenti di fedeli di Gesù nel mondo è risultato concentrato in Nigeria. Nei primi sette mesi dell’anno, hanno perso la vita oltre 7.000 cristiani. È una tendenza ormai consolidata. Tra ottobre 2019 e settembre 2023 - sempre stando alle ricerche Orfa, illustrate anche dal portale Aciafrica - la violenza religiosa, nella nazione affacciata sul Golfo di Guinea, ha provocato la morte di 55.910 persone in 9.970 attentati. I cristiani ammazzati sono stati 16.769, i musulmani 6.235. Di 7.722 vittime civili non si conosceva la religione. Nello stesso periodo, i rapiti cristiani sono stati 21.621. La World watch list, per il 2024, ha contato 3.100 vittime cristiane, oltre a 2.380 sequestrati. La relazione di Aics-Aiuto alla Chiesa che soffre sottolineava che, lo scorso anno, la Nigeria era all’ottavo posto nella ignominiosa classifica del Global terrorism index. «Sebbene anche i musulmani siano vittime delle violenze», precisava il documento, «i cristiani rappresentano il bersaglio di gran lunga prevalente».
Ciò non significa che gli islamici se la spassino, oppure che i jihadisti non approfittino della povertà per attirare miliziani e conseguire obiettivi politici ed economici, tipo il controllo delle risorse naturali. Le sofferenze dei musulmani sono atroci. Per dire: la sera del 21 dicembre, 28 persone, tra cui donne e bambini, sono state catturate nello Stato di Plateau, nel centro del Paese, mentre si recavano a un raduno per la festività maomettana del Mawlid, in cui si onora la nascita del «profeta». Pochi giorni prima, le autorità avevano ottenuto il rilascio di 130 tra studenti e insegnanti di alcune scuole cattoliche.
Un mese fa, intervistato da Agensir, padre Tobias Chikezie Ihejirika, prete somasco nigeriano, di stanza nel Foggiano, era stato chiaro: «I responsabili di questi attacchi sono quasi sempre musulmani». E la classe dirigente, esattamente come lamentato da Trump, non ha profuso grandi sforzi per prevenire i massacri: alcuni criminali, riferiva padre Tobias, sono persino «figure protette all’interno del governo. […] Sarebbe di grande aiuto se le organizzazioni internazionali tracciassero il flusso di denaro destinato alla risoluzione dei conflitti e identificassero coloro che ci speculano su. Questi fondi dovrebbero essere impiegati per risolvere i problemi, non per alimentare la violenza». Solito quadretto dell’ipocrisia occidentale: noi ci laviamo la coscienza spedendo aiuti, il denaro finisce in mani sbagliate e gli innocenti continuano a morire. Bombardare è inutile? Ma anche le strade battute finora si sono rivelate vicoli ciechi.
Stando alle indagini più recenti del Pew research center (2020), il 56,1% della popolazione, specie nel Nord della Nigeria, è islamica, con una nettissima prevalenza di sunniti. I cristiani sono il 43,4%, in maggioranza protestanti (74% del totale dei fedeli, contro il 25% di cattolici e l’1% di altre Chiese, compresa la ortodossa).
L’elenco di omicidi e rapimenti è agghiacciante. E in occasione delle festività, la ferocia aumenta. A Pasqua 2025, in vari attentati, erano stati assassinati 170 cristiani. A giugno, 100 o addirittura 200 sfollati erano stati presi di mira da bande armate; molti di loro erano cristiani. Il Natale più sanguinoso, forse, è stato quello di due anni fa: 200 morti e 500 feriti in una scia di attacchi jihadisti. E poi ci sono i sequestri dei sacerdoti. Gli ultimi, tra novembre e dicembre 2025: padre Emmanuel Ezema, della diocesi di Zaria, nella parte nordoccidentale del Paese; e padre Bobbo Paschal, parroco della chiesa di Santo Stefano, nello Stato di Kaduna, Centro-Nord della Nigeria. Proprio il primo martire della Chiesa è stato invocato ieri dal Papa, affinché «sostenga le comunità che maggiormente soffrono per la loro testimonianza cristiana». Trump? Bene: chi ha idee migliori, che non siano restare a guardare?
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Il ministro degli Esteri della Nigeria Yusuf Maitama Tuggar (Getty Images)
Gli attacchi dell’aviazione statunitense sono stati concordati anche con il governo di Abuja, che ha subito confermato i bombardamenti contro i terroristi. Il presidente della Nigeria, Bola Tinubu, aveva cercato di minimizzare il problema, dopo le accuse di Donald Trump, ma la situazione sul campo resta critica per la minoranza cristiana che ancora non ha abbandonato gli Stati del nord come ha già fatto la maggioranza. Yusuf Maitama Tuggar è un diplomatico di lunga esperienza e da circa un anno e mezzo guida il ministero degli Esteri della Nigeria, dopo essere stato ambasciatore in Germania.
Ministro Tuggar, il governo nigeriano ha dichiarato di essere al corrente dell’attacco degli Stati Uniti.
«Il presidente Tinubu e tutto il suo gabinetto ministeriale, così come i vertici delle forze armate, erano stati preventivamente informati delle operazioni militari statunitense. Si tratta di attacchi chirurgici che hanno ucciso un numero ancora imprecisato di pericolosi terroristi. La Nigeria vuole collaborare con gli Stati Uniti, che è un grande alleato e che come noi vuole distruggere il terrorismo islamico. Gli Stati di Sokoto e Kebbi, al confine con Niger e Benin, vivono una situazione complicata per le continue infiltrazioni di gruppi islamisti provenienti dalle nazioni vicine. Non escludiamo che in futuro potremmo operare ancora insieme su obiettivi militari molto precisi e sempre nell’ambito della lotta al terrorismo internazionale. Una cooperazione che comprende scambio di intelligence, coordinamento strategico e altre forme di supporto, tutto sempre nel rispetto del diritto internazionale e della sovranità nazionale».
Gli Stati Uniti accusano lo Stato islamico di voler sterminare i cristiani nigeriani e il vostro governo di non fare abbastanza per difenderli.
«Utilizzare il termine Stato islamico è una semplificazione, perché si tratta di una galassia molto complessa. Nella nostra nazione non c’è una presenza significativa dell’Isis in quell’area. Nel nord-ovest, abbiamo bande criminali, chiamate localmente banditi, e di recente è arrivato un gruppo chiamato Lakurawa. Si tratta di miliziani che hanno iniziato a riversarsi in Nigeria dal Sahel, ma negli ultimi 18 mesi-due anni si sono stabiliti negli Stati di Sokoto e Kebbi. I capi delle tribù locali hanno fatto un errore permettendo a questo gruppo di insediarsi nelle loro province per utilizzarli per difendersi dalla criminalità comune, ma la situazione è degenerata e adesso sono un pericolo per tutti. I Lakurawa sono un gruppo terroristico, ma smentiamo che siano ufficialmente parte della Provincia dello Stato Islamico del Sahel (Issp), l’ex Provincia dello Stato islamico del Grande Sahara (Isgs). Questo gruppo agisce soprattutto nelle zone occidentali vicino al lago Ciad e le nostre forze armate lo stanno costringendo a lasciare il nostro territorio. Voglio smentire ufficialmente che il governo nigeriano faccia poco per difendere i cristiani. Tutti i cittadini hanno uguali diritti e sono sotto la protezione dello Stato. Questi terroristi uccidono anche musulmani ed animisti, perché sono dei criminali».
Tutta l’Africa centrale e occidentale rischia di essere travolta dal terrorismo islamico e molte nazioni appaiono impotenti.
«La Nigeria ha istituito una serie di corpi speciali per la lotta all’estremismo islamico che agisce sul territorio. La settimana scorsa abbiamo liberato 30 studentesse rapite da una scuola, arrestando gli uomini che le avevano prese. Il governo federale e quello locale stanno anche portando avanti una serie di azioni di reintegro per tutti quelli che abbandonano i gruppi armati. Nel Sahel ci sono province in mano ai terroristi che vogliono occupare anche il nord della Nigeria. Per questo motivo collaboriamo con diversi stati confinanti in operazioni militari congiunte e siamo felici che gli Stati Uniti ci vogliono aiutare, ma sempre nel rispetto delle decisioni del governo di Abuja».
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Laurent Vinatier (Ansa)
Vinatier, 49 anni, a giugno 2024 era stato arrestato dalle forze di sicurezza russe con l’accusa di spionaggio: non si era registrato come «agente straniero» mentre raccoglieva informazioni sulle «attività militari e tecnico-militari» della Russia, che avrebbero potuto essere utilizzate a scapito della sicurezza nazionale. All’epoca il francese, la cui moglie è di origine russa, era consulente dell’Ong svizzera Centro per il dialogo umanitario e aveva stabilito nell’ambito del suo lavoro contatti con politologi, economisti, funzionari ed esperti militari.
A ottobre 2024 era arrivata la condanna «amministrativa» a Vinatier, tre anni di reclusione per la mancata registrazione nell’elenco degli agenti stranieri. La difesa aveva chiesto una multa per l’errore che l’imputato ha riconosciuto di aver commesso «per ignoranza», mentre l’accusa chiedeva 3 anni e 3 mesi. Lo scorso 24 febbraio, questa condanna estremamente severa è stata confermata in appello sulla base della legislazione contro i presunti agenti stranieri.
Nell’agosto 2025, un fascicolo sul sito web del tribunale del distretto di Lefortovo a Mosca ha rivelato che un cittadino francese è accusato di spionaggio. Rischia fino a vent’anni di carcere ai sensi dell’articolo 276 del codice penale russo. «Il caso Vinatier ha ottenuto visibilità solo dopo che il giornalista di TF1 Jérôme Garraud, durante la conferenza stampa annuale del presidente russo Vladimir Putin il 19 dicembre, ha chiesto al capo dello Stato: “Sappiamo che in questo momento c’è molta tensione tra Russia e Francia, ma il nuovo anno si avvicina. La sua famiglia (di Laurent Vinatier, ndr) può sperare in uno scambio o nella grazia presidenziale?”. Il presidente russo ha risposto di non sapere nulla del caso ma ha promesso di indagare», sostiene TopWar.ru sito web russo di notizie e analisi militari. Putin ha aggiunto che «se esiste una possibilità di risolvere positivamente questa questione, se la legge russa lo consente, faremo ogni sforzo per riuscirci».
Il politologo è attualmente detenuto nella prigione di Lefortovo, penitenziario di massima sicurezza. Prima era «in un altro carcere a Mosca e poi per un mese a Donskoy nella regione di Tula, a Sud della capitale», ha riferito la figlia Camille alla rivista Altraeconomia spiegando che il padre «si occupa di diplomazia “secondaria”, ha studiato la geopolitica post-sovietica e negli ultimi anni si è occupato della guerra tra Russia e Ucraina» e che il secondo processo, dopo quello relativo a questioni amministrative è per accuse di spionaggio. Sarebbe vittima delle tensioni tra Mosca e Parigi a causa della guerra in Ucraina.
«Questo arresto e le accuse sono davvero mosse da una scelta politica e avvengono in un contesto specifico di crescenti tensioni tra Francia e Russia […] la chiave di tutto questo sta nella politica, non nella legge», concludeva la figlia, confermando l’ipotesi di uno scambio di prigionieri come possibile chiave di svolta della vicenda Vinatier.
L’avvocato della famiglia, Frederic Belot, ha affermato che sperano nel rilascio entro il Natale ortodosso del 7 gennaio. Uno scambio di prigionieri è possibile, ma vuole essere «estremamente prudente».
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
A confermare il bilaterale, dopo l’indiscrezione lanciata da Axios, è stato lo stesso leader di Kiev: «Abbiamo un programma ampio e l’incontro si terrà questo fine settimana, credo domenica», ha detto ai giornalisti, non escludendo la partecipazione, in collegamento da remoto, dei rappresentanti dei Paesi europei. D’altronde, le conversazioni tra Kiev e la Casa Bianca non si sono fermate nemmeno il giorno di Natale: Zelensky ha avuto una lunga telefonata con l’inviato americano, Steve Witkoff, e con il genero di Trump, Jared Kushner, per approfondire «i formati, gli incontri e le tempistiche» per fermare la guerra. A quel colloquio telefonico sono poi seguiti ulteriori «contatti» tra il capo negoziatore ucraino, Rustem Umerov, e «la parte americana».
Al centro del dialogo con il tycoon ci saranno «alcune sfumature» sulle garanzie di sicurezza, ma soprattutto i nodi irrisolti per arrivare alla pace: il controllo del Donbass e dei territori orientali rivendicati dalla Russia e la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. Sul tavolo ci sono dunque le questioni più delicate e il significato del meeting, a detta di Zelensky, è «finalizzare il più possibile» visto anche che alcuni temi «possono essere discussi solo a livello di leader». A rivelare ulteriori dettagli è stato il presidente ucraino in un’intervista telefonica rilasciata ad Axios. Per la prima volta si è detto disposto a indire un referendum sul piano americano qualora Mosca accettasse un cessate il fuoco di 60 giorni. Pare però, secondo un funzionario americano, che la Russia sia disposta a concedere una tregua più breve. Riguardo alle garanzie di sicurezza, Zelensky ha affermato che servono discussioni sulle «questioni tecniche». In particolare, Washington ha proposto un patto di 15 anni che può essere rinnovato, ma secondo il presidente ucraino «il bisogno» sarà «per più di 15 anni». In ogni caso, l’incontro tra i due leader, come riferito da Axios, rifletterebbe «i progressi significativi dei colloqui». Vero è che Trump aveva dato la sua disponibilità solo qualora fosse vicino il raggiungimento di un accordo. Un’ulteriore conferma dei «progressi» emerge dalle parole di Zelensky, che ha dichiarato: «Il piano di 20 punti su cui abbiamo lavorato è pronto al 90%. Il nostro compito è assicurarci che tutto sia pronto al 100%. Non è facile, ma dobbiamo avvicinarci al risultato desiderato con ogni incontro, con ogni conversazione». Un membro della delegazione ucraina, Sergiy Kyslytsya, ha rivelato al Financial Times che le posizioni della Casa Bianca e di Kiev sarebbero piuttosto vicine. Ed è dunque arrivato «il momento» che i due presidenti «benedicano, modifichino e calibrino, se necessario» il piano di pace.
In vista dell’incontro in Florida, Zelensky ha già iniziato a consultarsi con i partner. Ieri pomeriggio ha avuto «un’ottima conversazione» con il primo ministro canadese, Mark Carney, per aggiornarlo «sullo stato di avanzamento» del «lavoro diplomatico» ucraino «con gli Stati Uniti». Zelensky ha poi aggiunto: «Nei prossimi giorni si potrà ottenere molto sia a livello bilaterale fra Ucraina e Stati Uniti, sia con i nostri partner della coalizione dei Volenterosi». Anche il segretario generale della Nato, Mark Rutte, è stato consultato dal presidente ucraino per discutere «degli sforzi congiunti per garantire la sicurezza» e «coordinare le posizioni» prima dei colloqui con il tycoon. La maratona telefonica del leader di Kiev ha incluso anche il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, e il primo ministro danese, Mette Frederiksen.
Nel frattempo, proseguono i contatti anche tra il Cremlino e la Casa Bianca. A rivelarlo è stato il portavoce russo, Dmitry Peskov: «Dopo che Kirill Dmitriev ha riferito al presidente sui risultati del suo viaggio in America e sui suoi contatti con gli americani, queste informazioni sono state analizzate e, su indicazione del presidente Putin, si sono già verificati contatti tra i rappresentanti delle amministrazioni russa e statunitense». A guidare le conversazioni telefoniche, da parte di Mosca, è stato il consigliere presidenziale russo, Yuri Ushakov. Riguardo alle questioni territoriali, secondo la rivista russa Kommersant, Putin, durante una riunione con gli imprenditori avvenuta la vigilia di Natale, ha dichiarato che potrebbe essere disposto a rinunciare a parte del territorio ucraino controllato dai soldati di Mosca, ma non è disposto a fare marcia indietro sul Donbass. Lo zar, nel meeting, ha affrontato anche la gestione della centrale nucleare di Zaporizhzhia. E, stando a quanto rivelato da Kommersant, Putin ha comunicato che non prevede la partecipazione ucraina, ma solamente una gestione congiunta con gli Stati Uniti con cui sono in corso le trattative. Sul piano di pace, il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, è tornato a sbilanciarsi. Nel talk show 60 minuti, trasmesso dalla tv russa Rossija-1, ha affermato che il piano di pace rivisto dall’Ucraina è «radicalmente diverso dai 27 punti» su cui ha lavorato Mosca. E pur annunciando che la fine della guerra è «vicina», Ryabkov ha accusato l’Ucraina e l’Europa di aver «raddoppiato gli sforzi» per «affossare» l’accordo di pace.
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