2019-05-07
La ritirata suicida di un reparto di Ss per non arrendersi all’Armata Rossa
Quella dell'11 maggio 1945 a Slivice, in Boemia, fu l'ultima grande battaglia della seconda guerra mondiale. I partigiani cechi sbarrarono il passo ai tedeschi in ritirata che volevano consegnarsi alle truppe americaneIl Terzo Reich aveva capitolato il 7 maggio 1945 a Reims, ma la guerra in Europa non era ancora finita. Mentre altrove il cannone aveva cessato di tuonare e si passava alla fase della resa dei conti con odi vecchi e nuovi, a Slivice, in Boemia, l'11 maggio divampava quella che è l'ultima grande battaglia della seconda guerra mondiale. Fuori tempo massimo e fuori dalla storia. Lo scontro campale era divampato col tentativo dei partigiani cechi di sbarrare il passo ai tedeschi in ritirata, in attesa dell'Armata Rossa, e di quello tedesco di aprirsi un varco per consegnarsi alle truppe americane: tutto pur di non cadere nelle mani dei sovietici. Occorre fare un passo indietro, appunto alla resa senza condizioni di tutte le truppe tedesche in Europa, a eccezione di quelle in Italia che avevano già deposto le armi a Caserta il 29 aprile (ma la piena operatività era del 3 maggio) con gli intrighi legati all'Operazione Sunrise tra l'Office of strategic services di Allen Dulles e il plenipotenziario generale SS Karl Wolff. L'Oberkommando della Wehrmacht aveva diramato l'ordine a tutte le unità raggiungibili di mantenere le posizioni e di arrendersi. La decisione era del comandante in capo delle forze di terra designato da Adolf Hitler il 29 aprile, poco prima di suicidarsi, Ferdinand Schörner (1892-1973). Questi era stato promosso Feldmaresciallo (penultimo tra i generali tedeschi del 1940) mentre era al vertice del Gruppo di armate Centro, forte di 600.000 uomini, che gravitava nel cuore dell'Europa, in Cecoslovacchia. Il 2 maggio aveva detto senza mezzi termini al successore di Hitler, il grand'ammiraglio Karl Dönitz, che era impossibile arginare l'Armata Rossa e pure di garantire che i soldati tedeschi potessero riuscire a riversarsi verso occidente per arrendesi agli angloamericani. Il 7 maggio un forte reparto di Waffen-Ss (Kampfgruppe Wallenstein, granatieri corazzati, e 2ª divisione panzer Das Reich) agli ordini del Gruppenführer conte Carl Friedrich Pückler-Burghauss, barone di Groditz (1886-1945), rimasto tagliato fuori dalle comunicazioni a causa della rivolta di Praga, era stato avventurosamente raggiunto da un emissario dall'Oberkommando des Heeres giunto con lasciapassare americano, al quale aveva riferito di non poter garantire che i suoi soldati avrebbero obbedito all'ordine di fermarsi e di consegnarsi ai sovietici. E infatti le truppe tedesche, cui si erano aggregati civili in fuga dalle vendette alle quali si erano abbandonati i militari dell'Armata Rossa in Prussia Orientale prima e nei territori del Reich dopo, muovevano verso occidente pur di raggiungere le unità statunitensi attestate diligentemente lungo la linea di demarcazione, e segnatamente la 4ª divisione corazzata della III Armata (XII Corpo) del generale Stafford LeRoy Irwin. È il 9 maggio, quando la zona dei villaggi di Milín, Slivice e Čimelice ribolle di militari, cannoni e mezzi corazzati con la croce nera e le rune Ss. La strada verso le linee americane è sbarrata dai partigiani cechi, che intendono guadagnare il tempo necessario per l'arrivo delle avanguardie dell'Armata Rossa. Pückler-Burghauss dà allora l'ordine di attestarsi e di approntare le linee difensive. Il rischio di rimanere in trappola è ormai una certezza: gli americani, in ossequio alle clausole della capitolazione, non accettano la resa tedesca e, il giorno 11, gruppi di partigiani cechi e russi si lanciano in un improbabile attacco respinto dalle Ss con gravi perdite. Ma ormai in zona sono accorsi i reparti avanzati del 1°, 2° e 4° Fronte ucraino dell'Armata Rossa che bombardano con l'artiglieria e con i micidiali lanci multipli di razzi Katjuša (detti anche, per il tremendo rumore, «organi di Stalin») le postazioni tedesche, pressate da ovest anche dalle truppe americane. Nella notte le difese approntate da Pückler-Burghauss cedono di schianto. Non è ancora l'alba quando è costretto a far alzare bandiera bianca davanti ai soldati sovietici. Il computo esatto dei caduti della battaglia di Slivice non è stato mai fatto. I tedeschi morti o feriti furono un migliaio, una sessantina le vittime nell'Armata Rossa, sconosciute le perdite americane; l'unica certezza sono i nomi dei 18 partigiani cechi uccisi (ma furono molti di più, perché mancano i russi), riportati su un cippo che sorge sul luogo dello scontro, ai cui piedi c'è ancora oggi una stella rossa di cemento. Pückler-Burghauss, che gli americani non avevano voluto prendere prigioniero, pur di non cadere nelle mani sovietiche si era sparato un colpo alla nuca il 12 maggio. Il suo comandante Schörner era addirittura già volato a Vienna per arrendersi agli americani, i quali però lo consegneranno ai russi che lo libereranno solo nel 1955. Parte dei circa 6.000 prigionieri della battaglia di Slivice finirà invece dietro al filo spinato del vicino campo di concentramento di Vojna realizzato proprio per questo scopo. Ma il regime comunista cecoslovacco dal 1949 al 1951 utilizzerà quello stesso lager per i dissidenti come campo di lavoro asservito alle miniere di uranio, e poi, fino al 1961, come prigione vera e propria per oppositori politici. Nel 1970 è stato eretto a Slivice un monumento disegnato dall'artista Václav Hilský e dal 2001 il luogo della battaglia è lo scenario di una grande battaglia simulata a cura dell'Esercito ceco, che attira migliaia di spettatori e di appassionati di storia.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.