2020-11-27
La restaurazione obamiana di Biden ci porterà nuove «guerre giuste»
Barack Obama e Joe Biden (J. Scott Applewhite - Pool/Getty Images)
Per le posizioni chiave in materia di esteri e sicurezza sono quasi certi personaggi dal profilo bellicoso. Come Tony Blinken e Jake Sullivan, vicini all'ex presidente, fautori della politica di interventi in Medio Oriente.Aveva promesso nel 2019 che la sua presidenza non sarebbe stata un «terzo mandato di Obama»: concetto che ha ribadito martedì scorso. Eppure, dai primi nomi che emergono per il suo gabinetto, Joe Biden sembra aver optato per una decisa restaurazione. Restaurazione parzialmente oscurata da quanti celebrano una vittoria del popolo e da chi parla di «ritorno dell'America», preconizzando un futuro migliore per l'Europa con il cambio della guardia alla Casa Bianca. Cominciamo col dire che la nascente amministrazione non rispecchi esattamente il «popolo». I nomi resi noti appartengono tutti ai circoli dell'establishment di Washington, oltre che agli altolocati circuiti della Ivy League. Qualcuno potrà anche brindare al ritorno dei «competenti», ma vale forse la pena ricordare che i peggiori disastri bellici gli Stati Uniti se li siano ritrovati su iniziativa di accademici di Harvard (si pensi a Robert McNamara con il Vietnam o a Samantha Power con la Libia). Del resto, è proprio il settore della politica estera quello in cui la nascente amministrazione presenta i maggiori legami con l'establishment di Washington: l'influenza clintoniana è evidente, così come evidente è il progressivo emergere di una linea interventista. Il neo segretario di Stato è Tony Blinken, già vicesegretario di Stato di Barack Obama e già esponente dell'amministrazione Clinton: come riportato da The Atlantic, è stato un fautore dell'intervento bellico in Libia nel 2011, mentre nel 2013 si mostrò propenso a un approccio muscolare verso la Siria. Tutto questo, senza dimenticare che, l'anno dopo, fu tra i promotori delle sanzioni nei confronti di Mosca. Ancora più da falco è poi il profilo del nuovo consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan: vice capo dello staff dell'allora segretario di Stato Hillary Clinton, fu anche lui tra i fautori dell'intervento contro Gheddafi. Nel settembre 2015, il sito progressista Vox definì non a caso questo apostolo dello smart power «l'uomo dietro la bellicosa politica estera di Hillary Clinton». Tutto ciò, senza trascurare che, per guidare il Pentagono, il nome più gettonato sia quello di Michèle Flournoy: sottosegretario ai tempi del primo mandato di Obama, fu considerata papabile segretario alla Difesa in un'eventuale amministrazione a guida Hillary Clinton nel 2016. Interventista harvardiana, la Flournoy ha sostenuto a spada tratta l'attacco contro la Libia, ha invocato la rimozione di Assad dal potere e auspica un incremento delle tensioni tra Stati Uniti e Russia. Infine, non dimentichiamo che, come inviato speciale per il clima, Biden abbia optato per John Kerry: segretario di Stato nel secondo mandato di Obama, cercò di spingere Washington a usare la mano pesante in Siria nel 2013, mentre - da senatore - votò a favore della guerra in Iraq. La restaurazione elitaria dal sapore interventista non piace granché alla sinistra dem, che - da Bernie Sanders a Elizabeth Warren - ha ripetutamente criticato le cosiddette «guerre senza fine»: quelle guerre a cui Donald Trump è riuscito a porre un freno in questi quattro anni, adottando un approccio realista, volto alla stabilizzazione del Medio Oriente. Una stabilizzazione che l'attuale presidente ha perseguito su due binari: aprendo alla Russia e cercando di arginare l'influenza dei Fratelli Musulmani (col sostegno di Egitto e Arabia Saudita). L'esatto opposto dell'amministrazione Obama che guardò con favore alle cosiddette «primavere arabe» e che - nonostante un iniziale tentativo di reset - ruppe con Mosca, gettandola così tra le braccia di Pechino e incrementando il caos nello scacchiere mediorientale. Ricordiamo che quella politica generò una catastrofe umanitaria in Siria, esponendo l'Europa occidentale a ingenti flussi migratori nel 2015. Senza poi trascurare il disastro libico (di cui l'Italia in primis sta ancora subendo i nefasti effetti). Nomi come Blinken, Flournoy e Sullivan fanno pensare che questo tipo di scenari potrebbe presto tornare. E a tutto ciò dovrebbero magari prestare attenzione quanti sostengono che una presidenza Biden si rivelerebbe certamente un bene per il Vecchio Continente. Biden deve tuttavia essere cauto. Non solo queste nomine stanno già creando fibrillazioni all'interno del suo stesso partito. Ma, più in generale, la restaurazione obamiano-clintoniana evidenza come, agli occhi del presidente entrante, il trumpismo altro non sia se non una parentesi passeggera, da censurare e smantellare. Tutto questo, ignorando non solo i 74 milioni di voti che Trump ha preso, ma anche le cause strutturali che portarono alla sua vittoria nel 2016 (tra cui proprio l'opposizione all'interventismo bellico). Anche Carlo X di Borbone si mise a regnare come se Napoleone avesse rappresentato un'esecrabile parentesi da relegare nel dimenticatoio, optando quindi per una mera restaurazione del passato. Una linea, che si rivelò tuttavia miope e che avrebbe portato - nel 1830 - alla Rivoluzione di luglio.
Nel riquadro Roberto Catalucci. Sullo sfondo il Centro Federale Tennis Brallo
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