2019-08-03
L’audio di Mosca fatto da un uomo del Pd
L'Espresso avrebbe avuto l'audio dell'incontro moscovita di Gianluca Savoini da Francesco Vannucci, ex dirigente dem in Toscana. Dubbi anche sulla presenza dei reporter quel giorno. E il direttore Marco Damilano non chiarisce.Il Russiagate assomiglia sempre di più a un pasticciaccio brutto. La Procura di Milano che indaga per corruzione internazionale nei giorni scorsi ha eseguito le perquisizioni di Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, e dei due presunti sodali, l'avvocato massone Gianluca Meranda e l'ex bancario ed ex funzionario di Pd e Margherita Francesco Vannucci. La notizia di reato per effettuare quei sequestri era contenuta nell'audio di un incontro al Metropol tra i tre indagati e altrettanti soggetti russi, in qualche modo collegati alla nomenklatura di Mosca. La registrazione, abbiamo scoperto, è stata consegnata ai magistrati da Stefano Vergine, uno dei due autori, con Giovanni Tizian, del Libro nero della Lega. Ma non a febbraio, quando venne pubblicato il volume, come ha fatto intendere la vulgata mediatico-giudiziaria di queste ultime settimane. Ci risulta che Vergine abbia consegnato agli inquirenti il file a giugno, ossia dopo il trionfo alle europee di Matteo Salvini e prima della pubblicazione dell'audio sul sito statunitense Buzzfeed. Insomma la pistola fumante è stata offerta ai pm dal cronista (che per lavoro è un habituè del palazzo di giustizia di Milano) non a ridosso dello scoop, ma molto dopo.Il file, dopo essere stato consegnato in Procura, è rimasto segreto per pochi giorni, sino al 10 luglio scorso, quando un giornalista italiano noto per le sue battaglie antigovernative e gli agganci con il mondo renziano ne ha messo online alcuni spezzoni su Buzzfeed. Su Internet è stata resa pubblica anche una lunga trascrizione, ma sempre senza mettere a disposizione l'intero audio, che avrebbe una durata di 75 minuti. Ieri gli avvocati speravano finalmente di poter ascoltare con le proprie orecchie la «notizia di reato» che ha portato alle perquisizioni dei loro assistiti nella loro interezza, senza doversi basare su versioni tagliate e cucite nelle redazioni dei giornali.Ma la speranza è andata delusa. Anche i magistrati Sergio Spadaro e Gaetano Ruta hanno offerto alle difese solo la trascrizione in italiano e in inglese della registrazione (il russo è stato tradotto). Ma perché gli inquirenti non hanno depositato il file? Perché i difensori non sono stati messi nelle condizioni di farsi una propria idea sull'incontro del Metropol? Non conosciamo la ragione di una simile scelta, ma di certo il mancato deposito ha lasciato stupiti i difensori.Tra le poche carte messe a disposizione delle parti in vista della udienza del Tribunale del riesame contro i sequestri, un'udienza prevista per il 5 settembre, c'è anche la testimonianza di Vergine che ha fatto decollare l'inchiesta, inizialmente iscritta contro ignoti. Su specifica domanda degli inquirenti il giornalista ha giurato a verbale (i testimoni devono dire la verità) di essere stato a Mosca e di aver assistito personalmente all'incontro del Metropol, ma non ha voluto svelare il nome di chi gli avesse consegnato la registrazione, lasciando che continuasse ad aleggiare sulla vicenda il fantasma del trappolone ai danni di Salvini. Dopo aver sentito Vergine sul viaggio di Savoini a Mosca e aver individuato Meranda e Vannucci grazie alle loro autodenunce i magistrati hanno iscritto i tre italiani del Metropol sul registro degli indagati e li hanno perquisiti. Dunque l'indagine ha preso corpo solo dopo le europee e grazie alla collaborazione di un giornalista engagé. Ma Vergine è stato davvero testimone del summit nell'albergo dei misteri? A conferma della bontà di questa versione sino a oggi L'Espresso ha pubblicato solo due piccole foto di Savoini seduto a un tavolo del Metropol. In un'istantanea l'ex portavoce parla con un uomo calvo, in un'altra sta leggendo un giornale apparentemente da solo.Quindi Vergine, il giornalista investigativo presente al Metropol, non è riuscito in 75 minuti a scattare nemmeno un'immagine della trattativa tra i tre russi e i tre italiani? Con le tecnologie disponibili oggi, a partire dagli smartphone, risulta non facilmente credibile.Grazie a Internet apprendiamo che in quei giorni Vergine si stava occupando dell'Eni e dell'inchiesta milanese sulla compagnia petrolifera italiana (condotta dagli stessi magistrati della vicenda Russiagate), ma sui social non sembra aver lasciato tracce della trasferta in incognito a Mosca. È ancora più improbabile che al Metropol ci fosse Tizian, il quale il 18 ottobre, il giorno dell'incontro lanciava sul Web una sua inchiesta sul caso Cucchi, preparata proprio in quelle ore e pubblicata il 21 ottobre sul settimanale nella versione cartacea.Resta il fatto che se è stato Vergine a fare lo scoop, quell'esclusiva non ha accelerato la sua carriera, anzi a quanto ci risulta a dicembre ha lasciato il settimanale insoddisfatto per la sua crescita professionale.Ieri abbiamo evidenziato anche un'altra incongruenza e cioè che la storia del Metropol aveva trovato dentro al libro solo uno spazio di cinque pagine su 318. In più l'incontro era liquidato in poche righe, senza nessun particolare, come se la storia fosse stata recuperata in extremis, poco prima della consegna del volume all'editore. Addirittura nel Libro nero della Lega i due autori parlano di un incontro tra cinque persone e non sei. Sul settimanale, il 21 febbraio, invece aggiusteranno il tiro e offriranno ai propri lettori qualche elemento in più.Il capitolo «Tre milioni da Vladimir», quello sul Metropol, è inoltre scollegato dal resto del libro. Per esempio in nessuna altra parte del volume viene citato l'episodio. Neppure nel capitolo dove i giornalisti parlano di un presunto finanziamento di Banca Intesa Russia alla compagnia petrolifera Rosneft, due aziende citate al Metropol. Nulla di nulla. Insomma lo scoop che L'Espresso cavalca da cinque mesi nel libro è una piccola parentesi isolata dal resto della narrazione. Davvero strano per chi assicura di aver investito molti soldi e tempo per pedinare Savoini, da Roma a Mosca. Proprio per questo risulta difficile credere che gli autori possano aver sottovalutato lo scoop mentre scrivevano il libro. A ottobre voli al Metropol dietro a Savoini, hai la conferma di una trattativa per finanziare illecitamente la Lega e a febbraio nel libro nascondi la notizia tra pagina 156 e pagina 160? Un'ipotesi lunare. Senza contare che anche quando il settimanale decide di puntare sulla storia più di quanto sia stato fatto nel libro, il direttore Marco Damilano preferisce non far sapere di essere in possesso dell'audio. Che così a luglio diventa lo scoop di un sito americano.Anche ieri Damilano non ha voluto spiegare le ragioni di quella strana scelta, contestata sulle colonne del nostro giornale persino dal suo ex cronista, Stefano Vergine, il quale a giugno ha consegnato la registrazione ai pm. Ma i misteri non sono finiti. Chi ha consegnato ai giornalisti dell'Espresso il file che ha innescato l'inchiesta giudiziaria milanese?Una fonte attendibile, in contatto con i giornalisti del settimanale, sostiene che a consegnare l'audio sarebbe stato Vannucci, l'uomo che almeno sino al 2013 ha fatto parte del direttivo del circolo Pd del suo paese, Suvereto (Livorno), e che lo avrebbe fatto dopo un litigio con Meranda, probabilmente per una questione di soldi. La consegna sarebbe stata effettuata senza chiedere denaro in cambio. Una ricostruzione che Vergine ha definito con La Verità «non corretta», quanto meno nei particolari.Non sfuggirà che se la gola profonda fosse davvero Vannucci, la notizia sarebbe clamorosa. Un uomo ideologicamente legato al Pd si imbarca in un'avventura sconclusionata con uomini vicini alla Lega. Poi, quando il gioco si fa duro, mette in tasca un registratorino con cui cristallizza una conversazione obiettivamente imbarazzante, in cui però lui, «nonno Francesco», rimane zitto per la quasi totalità dell'incontro, durato un'ora e un quarto. Poi, non sappiamo quanto tempo dopo, «regala» il clamoroso audio a due giornalisti che stanno scrivendo un libro che ha l'obiettivo di affondare la Lega di Salvini. La missione fallisce. Anzi la Lega vola quasi al 35% alle europee e allora a luglio in un altro circuito editoriale, molto più internazionale e, come abbiamo già scritto, legato da una corrispondenza d'amorosi sensi con il Giglio magico, viene rilanciata la notizia, questa volta con l'audio che Damilano sembra non aver voluto diffondere. Uno scoop su cui salta subito Matteo Renzi. Chi ha consegnato a Buzzfeed la registrazione del Metropol? Vannucci, il piddino toscano? Oppure Vergine, deluso dalla strategia dell'Espresso? O un altro soggetto ancora? Forse qualcuno, prima o poi, si degnerà di risponderci e ci aiuterà a chiarire tutti i lati oscuri di questa gelatinosa vicenda.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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