2022-11-24
La predica dei giornalisti genuflessi a Draghi
Mario Draghi (Imagoeconomica)
La stampa si scaglia contro Giorgia Meloni, accusata di non rispondere ai cronisti. Con l’ex governatore della Bce però quasi nessuno osava fare domande scomode. E chi ci provava finiva tagliato fuori dalle conferenze nell’indifferenza dei colleghi.Grazie al governo di destra avvengono miracoli inattesi: si riallineano i pianeti e i chi-huahua diventano amstaff. Basta una conferenza stampa di Giorgia Meloni perché la mutazione genetica kafkiana abbia luogo e alcuni giornalisti mainstream, inflessibili guardiani del potere al tempo di Mario Draghi, si trasformino curiosamente in guardiani della democrazia al tempo degli Unni. Torna di moda il napalm a colazione mentre il Cronista collettivo si ribella al presunto «tono aggressivo» della premier, contestando il «poco tempo dedicato alle domande».Tutto comincia quando, davanti a un quesito provocatorio di un reporter del Foglio («La crisi diplomatica con la Francia le ha insegnato ad avere un approccio meno propagandistico?»), la Meloni risponde a denti stretti: «È una vita che voi volete insegnarmi qualcosa, no non mi ha insegnato niente, ho fatto il mio lavoro difendendo gli interessi di questa nazione». Poi si dilunga in sei minuti e mezzo di spiegazione pacata, quando il suo predecessore se la sarebbe cavata in meno di due con un immaginifico «Chi non fa sbarcare tutti, si ammala e muore» oppure «Volete i rimpatri o il Recovery fund?». Il confronto si inasprisce, più avanti la premier si accorge del digrignar di denti, dice che «la legge di bilancio non si spiega in quattro minuti», viene accusata di essere poco disponibile e commenta: «Con qualcun altro eravate un po’ meno assertivi».Forse non è ancora una dichiarazione di guerra come quella dei Trent’anni contro Silvio Berlusconi, solo una conferma che l’esecutivo non piacerà mai a una categoria storicamente di sinistra (anzi la più a sinistra d’Europa secondo l’istituto The Worlds journalism study). L’attrito scatena la reazione dei cecchini in trincea, primo fra tutti il direttore de La Stampa Massimo Giannini che posta su Twitter una citazione da paleolitico: «I giornalisti stanno al mondo per fare domande, i politici hanno il dovere di dare risposte. È la stampa bellezza e tu non puoi farci niente». L’ultima frase è il riferimento beat a una battuta di Humphrey Bogart nel film L’ultima minaccia (1952), icona hollywoodiana di chi finge di essere fermo a gilet, bretelle e schiena dritta. Peccato che proprio Giannini fu sorpreso qualche tempo fa a piegarla come un ginnasta olimpico o come un pellegrino smarrito in San Pietro, davanti all’ex ministro della pandemia Roberto Speranza. Giornalisti watch dog o signor Linguetta di Striscia? Mansueti leoni da scendiletto o «iene dattilografe» come ci definiva Massimo D’Alema citando il suo nume tutelare Palmiro Togliatti? Il dilemma resta valido anche davanti alle rimostranze di Corrado Formigli, il conduttore alternativo della premiata scuola Michele Santoro, cresciuto al Manifesto e Paese Sera, che mentre il Covid si insinuava nelle vie respiratorie degli italiani mangiava involtini primavera in diretta perché «il virus più pericoloso è il razzismo». È infastidito pure lui e protesta: «Rispondere a tutti è suo dovere, Meloni impari a essere istituzionale». Poiché piovono lezioni, è interessante ricordare come il circo mediatico si rapportava ai governi precedenti. Durante l’era Covid tutti ad applaudire i lockdown, a inseguire idealmente i runner, ad accendere ceri a Massimo Galli e Roberto Burioni, a supportare il Pd nel perfido tentativo di dare la spallata politica alla Regione Lombardia, a coccolare «le bimbe di Conte», a demonizzare chi si permetteva di avere sospetti sull’effetto salvifico del green pass più feroce del pianeta. Ma quello era delirio collettivo, meglio non infierire e limitarsi a ripercorrere l’innamoramento redazionale per Draghi, lo statista globale.Poiché è la stampa bellezza, gli hombres e le mujeres verticales si permettevano domande di tale ferocia: «Questo è un Def storico che mette i brividi, se non ci fosse lei presidente del Consiglio saremmo terrorizzati». «L’Italia sta tornando un Paese di riferimento, ritiene che sia solo merito suo?». Per 18 mesi è sembrato di essere in chiesa nel giorno del santo patrono, incenso da svenire. Sarebbe stato coreograficamente più efficace organizzare le conferenze stampa a Medjugorie, viaggio premio compreso. Chi si permetteva di uscire dalla narrazione di zucchero, come Alberto Ciapparoni di Rtl, veniva depennato dall’elenco degli ottimati scelti a comparire al cospetto l’Altissimo. Il cronista aveva semplicemente chiesto lumi sul sofisma che «i vaccinati non trasmettono il virus». Espulso nell’indifferenza della categoria. La stessa che nella conferenza stampa di fine anno ha inaugurato un nuovo format: la standing ovation preventiva. Secondo il teorema Formigli per essere istituzionali bisogna rispondere a tutti, del resto è un dovere. Doveva essere in recupero corta con Lilli Gruber quando Draghi ripeteva: «Questo non è pertinente», «A questo non rispondo», «Per questo serve tempo». Durante la prima fase della guerra in Ucraina due colleghi (un inglese e un’italiana) gli chiesero a bruciapelo senza birignao: «L’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato vale la consegna dei curdi al dittatore Erdogan come lei stesso lo aveva definito in Senato?». Domandona che presupponeva una rispostona, anche solo per il coraggio di averla scandita. Il video mostra invece un premier più stizzito della Meloni, più silenzioso della Meloni, che fece ciò che la Meloni non ha fatto: ha girato i tacchi e se n’è andato. Poi ci ha ripensato, è tornato indietro e ha chiuso la faccenda così: «È bene che la domanda la facciate alla Svezia e alla Finlandia». Nessuno della Tribù degli assertivi si è sognato di eccepire.
Jose Mourinho (Getty Images)