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2018-07-22
La Ong fa causa all’Italia e alla Libia. Il Viminale: «Sfruttano i naufraghi»
Ansa
Hanno chiuso le attività di sbarco in fretta e furia, poi sono entrati nel commissariato di Palma di Maiorca e hanno denunciato la Guardia costiera libica per omicidio colposo e quella italiana per omissione di soccorso. «Spero che la Procura spagnola indaghi», ha detto il fondatore della Ong Open Arms, Oscar Camps. Già stabilire la competenza territoriale, però, non sarà un'impresa facile, perché i fatti sono accaduti in acque territoriali libiche. Ulteriori difficoltà saranno poi legate anche alla verifica della versione che fornisce la Ong spagnola, che è stata già contraddetta dai testimoni e contestata da libici e Viminale.
A Palma di Maiorca, insieme a Josefa, la donna indicata da Open Arms come testimone chiave (partita dal Camerun e rimasta per due giorni in mare tra i resti di un gommone), sono sbarcati anche i due cadaveri, tra i quali quello del bambino di circa cinque anni, recuperati in mare martedì scorso, su un zattera di legno, a circa 80 miglia dalle coste libiche. Secondo il Diario de Mallorca, uno dei principali quotidiani dell'isola, anche Josefa avrebbe intenzione di presentare una denuncia.
Ora gli uomini della Proactiva Open Arms si sentono in un porto sicuro e lo dicono a chiare lettere con proclami sui social e tramite i megafoni dei media amici. Ma l'hanno scoperto solo ora. Prima che Matteo Salvini chiudesse i porti, ingaggiando così il braccio di ferro con le Ong e dichiarando guerra agli scafisti trafficanti di esseri umani, l'unico porto che la Open Arms conosceva era quello italiano.
Ora Camps si arrampica sugli specchi: «Andiamo in Spagna perché dopo aver messo in discussione il nostro comportamento e aver definito una fake news il fatto che i libici avessero abbandonato in mare una donna e il suo bambino, l'Italia non è per noi un porto sicuro».
Pensava di rispondere così alla provocazione di Salvini che su Facebook si chiedeva se la scelta di ripiegare in Spagna era legata a qualcosa da nascondere. «Non è stata una navigazione di piacere, anche per la presenza a bordo dei deceduti, ma il mare per fortuna è stato tranquillo», ha detto all'arrivo Riccardo Gatti, portavoce di Proactiva Open Arms. Gatti, che è anche capitano della Astral, l'altra nave di Open Arms che seguiva la scia di navigazione della Proactiva, ha spiegato che dopo lo sbarco, le autorità spagnole hanno preso in carico Josefa che «è stata ricoverata in ospedale e sarà protetta in quanto testimone oculare del naufragio». La donna, a quanto ha riferito Gatti, «si sta lentamente riprendendo dal punto di vista fisico», mentre non si può quantificare quanto tempo servirà a superare lo choc psicologico. Ma ha la lucidità, a dire di Open Arms, per presentare una denuncia. «Josefa ancora non cammina», ha continuato il comandante, «ma ieri ha mangiato per la prima volta da sola, senza che la imboccassimo». Saranno le autorità ora a verificare se alla vittima del naufragio sia stata imboccata anche un'interpretazione di quanto accaduto.
Anche perché l'ultima versione libica è questa: «Abbiamo lasciato in mare solo i due corpi senza vita, dopo aver provato invano a rianimarli: erano morti e portarli a terra non aveva senso, ma non c'era nessun altro in acqua». È il contenuto di una relazione ufficiale della Guardia costiera di Misurata, resa nota nel corso di un'intervista alla Stampa dal colonnello Tofag Scare.
E le motovedette che avrebbero distrutto il barcone di migranti e lasciato in mare chi si rifiutava di salire a bordo? La ricostruzione libica contraddice completamente quella fornita dalla Ong: «Lunedì 16 luglio all'ora di pranzo abbiamo ricevuto una chiamata dal mercantile spagnolo Triades che ci segnalava un'imbarcazione in difficoltà tra Khoms e ci siamo mossi per intervenire, ne abbiamo tirati a bordo 165, uomini e donne. Non avremmo avuto alcuna ragione di abbandonare in acqua delle persone vive».
Il deputato di Leu Erasmo Palazzotto, che ha viaggiato con la Proactiva e ha sposato la causa, chiede a Salvini di scusarsi «davanti alle agghiaccianti dichiarazioni del comandante della Guardia costiera libica», che, secondo il deputato, «nei fatti conferma la versione di Open Arms». E per cercare di creare il caso politico, oltre a chiedere le dimissioni del ministro, definisce criminale l'autorità libica: «Non è accettabile che davanti a una tragedia come questa il ministro dell'Interno dia credito a criminali che hanno già fornito quattro versioni diverse sostenendo insieme al governo italiano che vi era stato un solo intervento di recupero». Il deputato di Leu per alzare il tiro sostiene che ci sia un accordo tra Libia e Italia per «depistare». Dalla Libia intanto fanno sapere anche di essere fermamente contrari a ospitare hotspot europei. Proposta europea bocciata. Parola di Fayez Al Sarraj.
Fabio Amendolara
Richiedenti asilo per coltivare campi di marijuana
Il capo chino e la schiena curva sui campi. A lavorare per dieci ore al giorno, sotto il sole cocente. È l'immagine degli immigrati della tendopoli di San Ferdinando, in Calabria, simbolo del caso migranti e della campagna buonista dell'opposizione al governo. La fotografia del caporalato, questa volta, consegna una realtà diversa. Già perché le decine di stranieri impiegati come manodopera nei campi non erano impegnati a raccogliere arance o pomodori. Il prodotto della terra era la marijuana.
È quanto emerso da un'inchiesta della direzione distrettuale di Catanzaro che ha fatto luce su un'organizzazione criminale che utilizzava rifugiati politici e richiedenti asilo come manovali nella coltivazione di canapa indiana e nella manutenzione delle piantagioni di marijuana. «Questa tendopoli è una eredità pesante e dimostra che l'immigrazione fuori controllo porta solo il caos». Così due settimane fa parlava il ministro dell'Interno, Matteo Salvini. L'intervento avvenne a margine di una visita alla tendopoli dove viveva Soumaila Sacko, il migrante ucciso a fucilate mentre asportava lamiere per la costruzione di baracche.
Gli inquirenti della Dda di Catanzaro hanno messo nero su bianco quale fosse una delle principali attività degli «ospiti» della struttura: la coltivazione di marijuana. Il bilancio del blitz scattato alle prime luci dell'alba di ieri è notevole. Sequestrate 26.000 piante di marijuana, per la cui coltivazione veniva impiegata manodopera extracomunitaria; 21 persone iscritte nel registro degli indagati e 18 destinatarie di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip distrettuale di Catanzaro, Paola Ciriaco, ed eseguita dalla polizia di Stato di Vibo Valentia. Sullo sfondo una strategia commerciale altamente tecnologica che metteva in campo anche i droni. È quanto ha portato allo scoperto l'operazione della polizia Giardini segreti. Per otto persone è stata disposta la custodia cautelare in carcere, per nove gli arresti domiciliari e, per uno, l'obbligo di dimora. Altre 21 persone sono indagate, a vario titolo, per associazione a delinquere dedita al narcotraffico e detenzione ai fini di spaccio di droga. Il blitz, al quale hanno partecipato circa 200 agenti, rappresenta l'epilogo di una attività investigativa, avviata già dal 2015, che ha permesso di smantellare un'associazione a delinquere finalizzata alla produzione, coltivazione e vendita di sostanze stupefacenti, in particolare marijuana, capeggiata da Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone, alias «l'Ingegnere», esponente apicale dell'omonima consorteria criminale della 'ndrangheta di Limbadi. Le attività investigative nascono dal sequestro di appezzamenti di terreno adibiti a piantagioni di marijuana, situati a Nicotera, Joppolo e Capistrano.
L'indagine ha consentito di evidenziare, anche grazie ad attività tecniche e al supporto della polizia scientifica, la capacità dell'organizzazione di provvedere a tutte le varie fasi del ciclo di produzione della sostanza stupefacente. In particolare, con l'acquisto online di semi di canapa indiana e di concime, effettuati direttamente dal capo del sodalizio Emanuele Mancuso, l'organizzazione realizzava la costruzione delle strutture dove piantare i semi, curare la germinazione e la fioritura delle piante, la crescita, la lavorazione e, infine, l'immissione sulle «piazze» di spaccio. Le varie attività erano assicurate da sodali di Mancuso, ma soprattutto da manodopera reclutata tra extracomunitari della tendopoli di San Ferdinando. Nel corso delle indagini è stato accertato come Mancuso, tramite l'utilizzo di droni, controllasse i terreni destinati alla coltivazione della droga. La questura di Vibo Valentia spiega come le risultanze delle indagini, coordinate dal sostituto procuratore della Dda Annamaria Frustaci, siano state recentemente suffragate dalle dichiarazioni dello stesso Emanuele Mancuso che ha avviato un percorso di collaborazione con i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Catanzaro. Inoltre, con la collaborazione delle squadre mobili di Alessandria, Brescia, Caltanissetta, Catanzaro, Chieti Genova, Imperia, Lecce, Milano Napoli, Salerno e Savona sono anche state effettuate perquisizioni a carico delle sedi di una società, attiva nella vendita online di semi di canapa indiana, situate in quelle province, a carico delle quali verrà anche notificato un provvedimento di sequestro preventivo.
Giancarlo Palombi
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Dalla Spagna, Open Arms accusa Roma e Tripoli con una versione dei fatti già smentita dai testimoni Le autorità verificheranno se la donna superstite è stata imbeccata. Matteo Salvini: «Cosa avete da nascondere?».Gli immigrati della tendopoli calabrese di San Ferdinando venivano schiavizzati dalla mafia. Sequestrate 26.000 piante di canapa.Lo speciale contiene due articoliHanno chiuso le attività di sbarco in fretta e furia, poi sono entrati nel commissariato di Palma di Maiorca e hanno denunciato la Guardia costiera libica per omicidio colposo e quella italiana per omissione di soccorso. «Spero che la Procura spagnola indaghi», ha detto il fondatore della Ong Open Arms, Oscar Camps. Già stabilire la competenza territoriale, però, non sarà un'impresa facile, perché i fatti sono accaduti in acque territoriali libiche. Ulteriori difficoltà saranno poi legate anche alla verifica della versione che fornisce la Ong spagnola, che è stata già contraddetta dai testimoni e contestata da libici e Viminale.A Palma di Maiorca, insieme a Josefa, la donna indicata da Open Arms come testimone chiave (partita dal Camerun e rimasta per due giorni in mare tra i resti di un gommone), sono sbarcati anche i due cadaveri, tra i quali quello del bambino di circa cinque anni, recuperati in mare martedì scorso, su un zattera di legno, a circa 80 miglia dalle coste libiche. Secondo il Diario de Mallorca, uno dei principali quotidiani dell'isola, anche Josefa avrebbe intenzione di presentare una denuncia.Ora gli uomini della Proactiva Open Arms si sentono in un porto sicuro e lo dicono a chiare lettere con proclami sui social e tramite i megafoni dei media amici. Ma l'hanno scoperto solo ora. Prima che Matteo Salvini chiudesse i porti, ingaggiando così il braccio di ferro con le Ong e dichiarando guerra agli scafisti trafficanti di esseri umani, l'unico porto che la Open Arms conosceva era quello italiano.Ora Camps si arrampica sugli specchi: «Andiamo in Spagna perché dopo aver messo in discussione il nostro comportamento e aver definito una fake news il fatto che i libici avessero abbandonato in mare una donna e il suo bambino, l'Italia non è per noi un porto sicuro».Pensava di rispondere così alla provocazione di Salvini che su Facebook si chiedeva se la scelta di ripiegare in Spagna era legata a qualcosa da nascondere. «Non è stata una navigazione di piacere, anche per la presenza a bordo dei deceduti, ma il mare per fortuna è stato tranquillo», ha detto all'arrivo Riccardo Gatti, portavoce di Proactiva Open Arms. Gatti, che è anche capitano della Astral, l'altra nave di Open Arms che seguiva la scia di navigazione della Proactiva, ha spiegato che dopo lo sbarco, le autorità spagnole hanno preso in carico Josefa che «è stata ricoverata in ospedale e sarà protetta in quanto testimone oculare del naufragio». La donna, a quanto ha riferito Gatti, «si sta lentamente riprendendo dal punto di vista fisico», mentre non si può quantificare quanto tempo servirà a superare lo choc psicologico. Ma ha la lucidità, a dire di Open Arms, per presentare una denuncia. «Josefa ancora non cammina», ha continuato il comandante, «ma ieri ha mangiato per la prima volta da sola, senza che la imboccassimo». Saranno le autorità ora a verificare se alla vittima del naufragio sia stata imboccata anche un'interpretazione di quanto accaduto.Anche perché l'ultima versione libica è questa: «Abbiamo lasciato in mare solo i due corpi senza vita, dopo aver provato invano a rianimarli: erano morti e portarli a terra non aveva senso, ma non c'era nessun altro in acqua». È il contenuto di una relazione ufficiale della Guardia costiera di Misurata, resa nota nel corso di un'intervista alla Stampa dal colonnello Tofag Scare. E le motovedette che avrebbero distrutto il barcone di migranti e lasciato in mare chi si rifiutava di salire a bordo? La ricostruzione libica contraddice completamente quella fornita dalla Ong: «Lunedì 16 luglio all'ora di pranzo abbiamo ricevuto una chiamata dal mercantile spagnolo Triades che ci segnalava un'imbarcazione in difficoltà tra Khoms e ci siamo mossi per intervenire, ne abbiamo tirati a bordo 165, uomini e donne. Non avremmo avuto alcuna ragione di abbandonare in acqua delle persone vive».Il deputato di Leu Erasmo Palazzotto, che ha viaggiato con la Proactiva e ha sposato la causa, chiede a Salvini di scusarsi «davanti alle agghiaccianti dichiarazioni del comandante della Guardia costiera libica», che, secondo il deputato, «nei fatti conferma la versione di Open Arms». E per cercare di creare il caso politico, oltre a chiedere le dimissioni del ministro, definisce criminale l'autorità libica: «Non è accettabile che davanti a una tragedia come questa il ministro dell'Interno dia credito a criminali che hanno già fornito quattro versioni diverse sostenendo insieme al governo italiano che vi era stato un solo intervento di recupero». Il deputato di Leu per alzare il tiro sostiene che ci sia un accordo tra Libia e Italia per «depistare». Dalla Libia intanto fanno sapere anche di essere fermamente contrari a ospitare hotspot europei. Proposta europea bocciata. Parola di Fayez Al Sarraj. Fabio Amendolara<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-ong-fa-causa-allitalia-e-alla-libia-il-viminale-sfruttano-i-naufraghi-2588733489.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="richiedenti-asilo-per-coltivare-campi-di-marijuana" data-post-id="2588733489" data-published-at="1765152245" data-use-pagination="False"> Richiedenti asilo per coltivare campi di marijuana Il capo chino e la schiena curva sui campi. A lavorare per dieci ore al giorno, sotto il sole cocente. È l'immagine degli immigrati della tendopoli di San Ferdinando, in Calabria, simbolo del caso migranti e della campagna buonista dell'opposizione al governo. La fotografia del caporalato, questa volta, consegna una realtà diversa. Già perché le decine di stranieri impiegati come manodopera nei campi non erano impegnati a raccogliere arance o pomodori. Il prodotto della terra era la marijuana. È quanto emerso da un'inchiesta della direzione distrettuale di Catanzaro che ha fatto luce su un'organizzazione criminale che utilizzava rifugiati politici e richiedenti asilo come manovali nella coltivazione di canapa indiana e nella manutenzione delle piantagioni di marijuana. «Questa tendopoli è una eredità pesante e dimostra che l'immigrazione fuori controllo porta solo il caos». Così due settimane fa parlava il ministro dell'Interno, Matteo Salvini. L'intervento avvenne a margine di una visita alla tendopoli dove viveva Soumaila Sacko, il migrante ucciso a fucilate mentre asportava lamiere per la costruzione di baracche. Gli inquirenti della Dda di Catanzaro hanno messo nero su bianco quale fosse una delle principali attività degli «ospiti» della struttura: la coltivazione di marijuana. Il bilancio del blitz scattato alle prime luci dell'alba di ieri è notevole. Sequestrate 26.000 piante di marijuana, per la cui coltivazione veniva impiegata manodopera extracomunitaria; 21 persone iscritte nel registro degli indagati e 18 destinatarie di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip distrettuale di Catanzaro, Paola Ciriaco, ed eseguita dalla polizia di Stato di Vibo Valentia. Sullo sfondo una strategia commerciale altamente tecnologica che metteva in campo anche i droni. È quanto ha portato allo scoperto l'operazione della polizia Giardini segreti. Per otto persone è stata disposta la custodia cautelare in carcere, per nove gli arresti domiciliari e, per uno, l'obbligo di dimora. Altre 21 persone sono indagate, a vario titolo, per associazione a delinquere dedita al narcotraffico e detenzione ai fini di spaccio di droga. Il blitz, al quale hanno partecipato circa 200 agenti, rappresenta l'epilogo di una attività investigativa, avviata già dal 2015, che ha permesso di smantellare un'associazione a delinquere finalizzata alla produzione, coltivazione e vendita di sostanze stupefacenti, in particolare marijuana, capeggiata da Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone, alias «l'Ingegnere», esponente apicale dell'omonima consorteria criminale della 'ndrangheta di Limbadi. Le attività investigative nascono dal sequestro di appezzamenti di terreno adibiti a piantagioni di marijuana, situati a Nicotera, Joppolo e Capistrano. L'indagine ha consentito di evidenziare, anche grazie ad attività tecniche e al supporto della polizia scientifica, la capacità dell'organizzazione di provvedere a tutte le varie fasi del ciclo di produzione della sostanza stupefacente. In particolare, con l'acquisto online di semi di canapa indiana e di concime, effettuati direttamente dal capo del sodalizio Emanuele Mancuso, l'organizzazione realizzava la costruzione delle strutture dove piantare i semi, curare la germinazione e la fioritura delle piante, la crescita, la lavorazione e, infine, l'immissione sulle «piazze» di spaccio. Le varie attività erano assicurate da sodali di Mancuso, ma soprattutto da manodopera reclutata tra extracomunitari della tendopoli di San Ferdinando. Nel corso delle indagini è stato accertato come Mancuso, tramite l'utilizzo di droni, controllasse i terreni destinati alla coltivazione della droga. La questura di Vibo Valentia spiega come le risultanze delle indagini, coordinate dal sostituto procuratore della Dda Annamaria Frustaci, siano state recentemente suffragate dalle dichiarazioni dello stesso Emanuele Mancuso che ha avviato un percorso di collaborazione con i magistrati della Procura distrettuale antimafia di Catanzaro. Inoltre, con la collaborazione delle squadre mobili di Alessandria, Brescia, Caltanissetta, Catanzaro, Chieti Genova, Imperia, Lecce, Milano Napoli, Salerno e Savona sono anche state effettuate perquisizioni a carico delle sedi di una società, attiva nella vendita online di semi di canapa indiana, situate in quelle province, a carico delle quali verrà anche notificato un provvedimento di sequestro preventivo. Giancarlo Palombi
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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