2019-05-15
Lega nazista. Lo scoop
della nuova «Repubblica»
Il quotidiano inaugura il restyling sparando il libro di Claudio Gatti. Uno strampalato viaggio nelle «infiltrazioni nere» tentate già una trentina di anni fa da un manipolo di sconosciuti. La ciccia è zero, però l'accostamento ai nostalgici di Adolf Hitler è servito.No, «Salvini fascista» non bastava più. Dev'essere sembrato troppo poco al direttore e ai titolisti di Repubblica, in trance agonistica per il lancio della nuova veste grafica. E così ieri, in cerca di nuova e più potente eccitazione, la pagina 8 del quotidiano ora diretto da Carlo Verdelli recitava: «Da Bossi al Capitano ecco il piano nazista per infiltrare la Lega». Avete letto bene: «nazista». Più 1° aprile che 25 aprile, direte voi. E invece non si tratta di uno scherzo, ma del preannuncio di un libro in uscita (l'autore è Claudio Gatti l'editore è Chiarelettere) dal titolo «I demoni di Salvini», con l'inequivocabile sottotitolo «I postnazisti e la Lega». È lo stesso Claudio Gatti a presentare il suo libro-inchiesta. Già l'incipit ci dice dove si va a parare: «Chiedersi se il nostro ministro dell'Interno sia fascista non è solo un esercizio inutile. È un grave errore», esordisce Gatti. Perché è troppo, direte voi? No, forse perché è troppo poco, ci fa capire Gatti, implacabile: «La vera minaccia non viene dai legami con i neofascisti, bensì dall'influenza che hanno esercitato - ed esercitano tuttora - i postnazisti nel suo entourage e nel suo partito». Roba grossa, ci spiega l'autore, che infatti non sta più nella pelle, e sembra invocare per sé stesso il premio Pulitzer: «Essenziale è stato il contributo di una gola profonda che mi ha aiutato a ricomporre i tasselli di un complotto ordito da un manipolo di ex neofascisti e neonazisti, che dopo aver metabolizzato fascismo e nazismo, sono divenuti “postnazisti". Che questo sia il termine più appropriato per descriverli me l'ha fatto capire una persona che ha partecipato al piano di “infiltrazione e contaminazione" della Lega». A questo punto vi immaginerete una spy-story grandiosa, roba da John Le Carré o Frederick Forsyth: complotti mondiali, forze oscure, poteri fortissimi in azione. E invece, chiamato a mettere sul tavolo le carte, Gatti fa i seguenti nomi un tantino sfigati, ci si perdoni l'espressione: Andrea Sciandra (un ingegnere), Maurizio Murelli (effettivamente parte di un'onda neofascista nei primi anni Settanta, cioè mezzo secolo fa, poi divenuto a Saluzzo editore della semisconosciuta rivista Orion), Marco Battarra (nientemeno che collaboratore di Murelli), e l'allora studente Alberto Sciandra. E quale raffinato complotto sarebbe stato ordito da questo temibile quartetto? Viene fuori che (nel 1985: roba fresca, 34 anni fa) due di loro avrebbero partecipato a una delle prime riunioni con Umberto Bossi; poi, uno di loro, nel 1989, sarebbe stato tra i fondatori del nucleo leghista di Cuneo (nei quartieri meno chic di Roma si direbbe: mecojoni!).La pochezza del plot dev'essere stata chiara pure a Gatti, che infatti prova a giocarsi due jolly. Il primo è Mario Borghezio, che - una trentina di anni fa - secondo Gatti inizia il suo lavoro di «talpa politica» e «esperto dell'arte dell'infiltrazione» (con sprezzo del ridicolo, l'autore scrive proprio così). Il secondo jolly, prevedibile, è il nome di Gianluca Savoini, che Gatti descrive come di tendenze «nazional-rivoluzionarie sin dai giorni del liceo» (precoce, dunque). Non siamo davanti a un nuovo Kim Philby, ma a una figura marginale «parcheggiata dal Senatur nella redazione del quotidiano leghista», scrive lo stesso Gatti. Però poi - e qui Gatti è di nuovo eccitatissimo - «Salvini sceglie Savoini come sherpa personale che apra la strada di Mosca». Insomma, quello che esce fuori sono figure - a esser gentili - di quarta o quinta fila, ed episodi politicamente irrilevanti di 30 anni fa, più la «carta Savoini». Vediamo come il «pm» Gatti conclude la requisitoria: «Questo non significa che Salvini oggi, come Bossi ieri, abbia sposato la causa postnazista. E neppure che sia un burattino eterodiretto». Ah no? E allora di che parliamo? Ce lo spiega Gatti: «Vuol dire che, come il suo padre/padrino politico, è un uomo pronto a tutto». Perbacco! Roba da far paura pure all'ingegner Sciandra, che confida a Gatti: «Caspita, Salvini sta facendo ora quello a cui io e gli altri di Saluzzo aspiravamo 30 anni fa. E adesso lo trovo terribile!». Se siete riusciti a trattenere risate e sbadigli, avrete compreso tre cose. Primo: che potete risparmiarvi i 16,90 euro per il libro di Gatti. Secondo: che quest'uso facile della parola «nazista» è un'offesa involontaria a chi la tragedia del nazismo l'ha conosciuta davvero, a partire dalle vittime dell'orrore della Shoah. Altro che il gruppo di Saluzzo. Terzo: che Repubblica deve aver deciso di intraprendere una strada sdrucciolevole. Dopo che hai dato del «nazista» a un avversario, che altro gli puoi dire? Per 43 anni, da Eugenio Scalfari in poi, Repubblica puntava a spiegare a «progressisti» e «professoresse democratiche» cosa dovessero pensare. Adesso punta forse a indicare chi debbano odiare? Sarebbe un triste e pericoloso salto di qualità.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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