
No, «Salvini fascista» non bastava più. Dev'essere sembrato troppo poco al direttore e ai titolisti di Repubblica, in trance agonistica per il lancio della nuova veste grafica. E così ieri, in cerca di nuova e più potente eccitazione, la pagina 8 del quotidiano ora diretto da Carlo Verdelli recitava: «Da Bossi al Capitano ecco il piano nazista per infiltrare la Lega». Avete letto bene: «nazista».
Più 1° aprile che 25 aprile, direte voi. E invece non si tratta di uno scherzo, ma del preannuncio di un libro in uscita (l'autore è Claudio Gatti l'editore è Chiarelettere) dal titolo «I demoni di Salvini», con l'inequivocabile sottotitolo «I postnazisti e la Lega».
È lo stesso Claudio Gatti a presentare il suo libro-inchiesta. Già l'incipit ci dice dove si va a parare: «Chiedersi se il nostro ministro dell'Interno sia fascista non è solo un esercizio inutile. È un grave errore», esordisce Gatti. Perché è troppo, direte voi? No, forse perché è troppo poco, ci fa capire Gatti, implacabile: «La vera minaccia non viene dai legami con i neofascisti, bensì dall'influenza che hanno esercitato - ed esercitano tuttora - i postnazisti nel suo entourage e nel suo partito». Roba grossa, ci spiega l'autore, che infatti non sta più nella pelle, e sembra invocare per sé stesso il premio Pulitzer: «Essenziale è stato il contributo di una gola profonda che mi ha aiutato a ricomporre i tasselli di un complotto ordito da un manipolo di ex neofascisti e neonazisti, che dopo aver metabolizzato fascismo e nazismo, sono divenuti “postnazisti". Che questo sia il termine più appropriato per descriverli me l'ha fatto capire una persona che ha partecipato al piano di “infiltrazione e contaminazione" della Lega».
A questo punto vi immaginerete una spy-story grandiosa, roba da John Le Carré o Frederick Forsyth: complotti mondiali, forze oscure, poteri fortissimi in azione. E invece, chiamato a mettere sul tavolo le carte, Gatti fa i seguenti nomi un tantino sfigati, ci si perdoni l'espressione: Andrea Sciandra (un ingegnere), Maurizio Murelli (effettivamente parte di un'onda neofascista nei primi anni Settanta, cioè mezzo secolo fa, poi divenuto a Saluzzo editore della semisconosciuta rivista Orion), Marco Battarra (nientemeno che collaboratore di Murelli), e l'allora studente Alberto Sciandra. E quale raffinato complotto sarebbe stato ordito da questo temibile quartetto? Viene fuori che (nel 1985: roba fresca, 34 anni fa) due di loro avrebbero partecipato a una delle prime riunioni con Umberto Bossi; poi, uno di loro, nel 1989, sarebbe stato tra i fondatori del nucleo leghista di Cuneo (nei quartieri meno chic di Roma si direbbe: mecojoni!).
La pochezza del plot dev'essere stata chiara pure a Gatti, che infatti prova a giocarsi due jolly. Il primo è Mario Borghezio, che - una trentina di anni fa - secondo Gatti inizia il suo lavoro di «talpa politica» e «esperto dell'arte dell'infiltrazione» (con sprezzo del ridicolo, l'autore scrive proprio così). Il secondo jolly, prevedibile, è il nome di Gianluca Savoini, che Gatti descrive come di tendenze «nazional-rivoluzionarie sin dai giorni del liceo» (precoce, dunque). Non siamo davanti a un nuovo Kim Philby, ma a una figura marginale «parcheggiata dal Senatur nella redazione del quotidiano leghista», scrive lo stesso Gatti. Però poi - e qui Gatti è di nuovo eccitatissimo - «Salvini sceglie Savoini come sherpa personale che apra la strada di Mosca».
Insomma, quello che esce fuori sono figure - a esser gentili - di quarta o quinta fila, ed episodi politicamente irrilevanti di 30 anni fa, più la «carta Savoini». Vediamo come il «pm» Gatti conclude la requisitoria: «Questo non significa che Salvini oggi, come Bossi ieri, abbia sposato la causa postnazista. E neppure che sia un burattino eterodiretto». Ah no? E allora di che parliamo? Ce lo spiega Gatti: «Vuol dire che, come il suo padre/padrino politico, è un uomo pronto a tutto». Perbacco! Roba da far paura pure all'ingegner Sciandra, che confida a Gatti: «Caspita, Salvini sta facendo ora quello a cui io e gli altri di Saluzzo aspiravamo 30 anni fa. E adesso lo trovo terribile!».
Se siete riusciti a trattenere risate e sbadigli, avrete compreso tre cose. Primo: che potete risparmiarvi i 16,90 euro per il libro di Gatti. Secondo: che quest'uso facile della parola «nazista» è un'offesa involontaria a chi la tragedia del nazismo l'ha conosciuta davvero, a partire dalle vittime dell'orrore della Shoah. Altro che il gruppo di Saluzzo. Terzo: che Repubblica deve aver deciso di intraprendere una strada sdrucciolevole. Dopo che hai dato del «nazista» a un avversario, che altro gli puoi dire? Per 43 anni, da Eugenio Scalfari in poi, Repubblica puntava a spiegare a «progressisti» e «professoresse democratiche» cosa dovessero pensare. Adesso punta forse a indicare chi debbano odiare? Sarebbe un triste e pericoloso salto di qualità.






